Ballo ballo

▶ Kevin Bacon’s Footloose Entrance – YouTube.

Se avete affrontato anche voi quel delicato, avventuroso ed indimenticabile passo che separa l’infanzia dall’adolescenza, nei lontani anni ’80 (vado ovviamente per ipotesi, sapete bene che, per motivi anagrafici, la mia memoria non potrebbe arrivare sin là), la vostra crescita sarà stata di sicuro turbata dall’esistenza di capi d’abbigliamento o di accessori oggi fortunatamente estinti (o quasi). I piumini dai colori fluorescenti, gonfi come dirigibili, ad esempio, una sorta di necessaria uniforme giovanile diffusa anche in luoghi dalle temperature non esattamente artiche, oppure quei terribili mollettoni per capelli ornati con grandi margherite o gerbere posticce, per non parlare delle antiestetiche e (purtroppo) usatissime spalline rimovibili in gommapiuma con striscia adesiva in velcro. Se all’epoca inoltre eravate ragazzini/e rompiscatole con l’ambizioso e deleterio sogno di un futuro nella danza, avrete quasi per certo pregato in ginocchio i vostri genitori perché vi acquistassero il vostro primo, inutile, paio di scaldamuscoli di lana, avrete rischiato più volte di compromettere gravamente qualche tendine nel tentativo di tirare su una gamba o di esibirvi in una spaccata degna di Heather Parisi, conoscevate infine Janet Jackson non tanto perché sorella minore del ben più famoso Michael ma soprattutto per il suo (superfluo) ruolo di Cleo nella fortunata serie tv Saranno Famosi. E chiaramente approfittavate dello spettacolo domenicale pomeridiano al cinema (il vostro coprifuoco scattava rigorosamente alle 18.30, di uscire la sera non se ne parlava ancora) per abbandonarvi, tra estasi adolescenziale e acerbi desideri di gloria, alla visione di una qualsiasi pellicola di quello sfruttatissimo filone musicale-romantico-ballereccio che, da Flashdance (1983) in poi, fino a Dirty dancing (1987), arrivò a sfornare almeno altri tre, quattro film, a stagione, pochi dei quali, a dire il vero, così altrettanto memorabili o anche solo guardabili. Eccezione naturalmente fatta per quel semi – inspiegabile caso di successo rappresentato da Footloose (1984). Che, a dispetto di un’indifendibile insulsaggine di trama (il paesino di provincia americana che mette fuori legge il ballo, causando la legittima ribellione del protagonista giunto da Chicago), di una sceneggiatura banalotta e priva di guizzi (“c’è un tempo per ogni cosa sotto il cielo” la battuta più celebre, così sciatta in confronto a “nessuno può mettere baby in un angolo”), di pesanti (e comprensibili) stroncature da parte della critica, giunse invece a incassare oltre 80 milioni di dollari. Consacrando così Kevin Bacon al rango di nuovo e ambitissimo idolo delle (ormai più che adulte) teen-ager, nonostante la sua bellezza quasi anticonvenzionale, forte di una vaga somiglianza con Giorgio Armani in quel naso che finisce troppo presto scoprendo un labbro superiore troppo sottile. Oggi, a 30 anni esatti dall’uscita del film, che segnò anche il debutto cinematografico di un’allora bruna e sconosciuta (ancora per lungo tempo) Sarah Jessica Parker, è lo stesso Kevin Bacon, adesso 55enne dall’invidiabile forma fisica e dalla rispettabilissima carriera nel grande schermo (JFK, Codice d’onore, Apollo 13, Mystic River) a citare (e dunque a citarsi in) una delle scene più celebre di Footloose, quella appunto di un balletto eseguito al riparo dagli occhi di tutti. Riproposto “paro paro”, anche negli abiti, seppur con la giusta e necessaria dose di autoironia, all’interno del Tonight show di Jimmy Fallon, (video allegato), uno degli innumerevoli talk-show a stelle strisce capitanati da un conduttore/comico/cinico che intervista milioni di star sullo sfondo di una, sempre identica, visione notturna di New York. A fare la differenza, questa volta, la dimensione umor – nostalgica della coreografia di Bacon (evidentemente sostituito, nei passaggi più acrobatici, da un’atletica controfigura) che ha già ottenuto in pochi giorni quasi 7 milioni di visualizzazioni sul web, segnale che giocarsi con furbizia la carta del revival, in tv, vale ovunque. Lo sa bene chi, ad esempio, in Italia segue puntualmente The Voice sperando ogni volta in un’esibizione sfacciatamente kitsch della Carrà sulle note di Fiesta o Rumore. Ma, esattamente come chiarito all’inizio di questo post, anche stavolta non sto certo parlando di me.

Niente satira, siamo italiani

Ballarò : Virginia Raffaele è il Ministro Maria Elena Boschi 04/03/2014 – YouTube.

Accantoniamo per un momento tutto lo sfiancante dibattito sulla presunta necessità delle quote rosa in parlamento (anche se, a onor del vero, l’attuale governo in carica è, in tal senso, insolitamente bilanciato), proviamo a non chiamare in causa, per questa volta, la generale condizione femminile nel nostro Paese, che in materia di parità di diritti e di tutela della donne non si può certo definire esemplare. Teniamo da parte, per un attimo, il dover spesso tristemente constatare che sul piano professionale persistano gravi discriminazioni di genere, che nell’opinione comune molti biechi pregiudizi di natura sessuale siano duri a morire, che come nazione si continui purtroppo a scalare la drammatica classifica degli stati in cui orribili delitti, quasi edulcorati dall’uso del termine “femminicidio”, sono sempre più all’ordine del giorno. Proviamo a dimenticare, ma solo in questo caso, che essere donna, moglie, mamma, nell’Italia del terzo millennio significa ancora impegnarsi il doppio per ottenere la dovuta credibilità, prodigarsi in salti mortali per reggersi in un equilibrio acrobatico tra famiglia e lavoro, che non basta una mimosa rubata dall’albero del vicino l’8 Marzo per celebrare degnamente quello che è il contributo fondamentale dell’universo femminile al progredire della nostra società. Lasciamo stare tutto quel clima di malumori sotterranei, di polemiche velate, i decennali strascichi di ingiustizie e soprusi, che forse hanno contribuito ad aggravare i contorni della vicenda, e tentiamo di concentrarci soltanto sulla vicenda, tanto per renderci conto che, in fin dei conti, così grave non lo è affatto. Anzi, si tratta di una storia nata, al contrario, proprio con il chiaro intento di far sorridere, oltre che riflettere, che poi sono le due uniche ed esplicite finalità di quel magnifico e irriverente strumento di critica che è la satira. Pane quotidiano di Virginia Raffaele, bravissima e talentuosa comica/imitatrice, personaggio tra i più camaleontici e interessanti lanciati di recente dal piccolo schermo, a cui in prima persona si rinfaccia o si ricorda con troppa enfasi il suo essere anche una gran bella donna, quasi come se il riuscire a far ridere il pubblico fosse esclusiva prerogativa delle “bruttine”. Chiamata a sostiuire Maurizio Crozza, nella puntata dello scorso 4 Marzo di Ballarò, in onda su Rai 3, la Raffaele, che in questi anni ci ha deliziato con il suo riuscitissimo scimmiottare volti noti, da Ornella Vanoni a Belen, si esibisce in un irresistibile sketch calandosi nei panni del neoministro per le riforme e i rapporti con il parlamento Maria Elena Boschi (video allegato). Prendendone di mira non soltanto lo spiccato accento toscano (reso alla perfezione) o il suo sovente intervenire come se  ripetesse alla lettera la lezione appena imparata a memoria (e citando, tra l’altro, il celebre personaggio di Amanda Sandrelli in Non ci resta che piangere) ma mettendo alla berlina anche il suo ipotetico potenziale seduttivo, di chi sarebbe in grado di sfuggire al pressing di domande di uno sprovveduto giornalista facendo del “gattamortismo”.

Scatenando così un putiferio: prima Michele Anzaldi, deputato renziano e segretario della commissione di viglianza Rai, che scrive, di sua iniziativa, ai vertici della rete per lamentarsi del contenuto della gag, ritenendolo “inopportuno”, poi la stessa Laura Boldrini, presidente della Camera, che in diretta tv, si spinge più in là, definendo addirittura il numero della Raffaele “sgradevole e sessista”. Mentre la diretta interessata, il ministro teoricamente vilipeso, ci tiene a far sapere, attraverso la stampa, e naturalmente il proprio account su Twitter (che sta diventando, in maniera inquietante, il megafono dei palazzi di potere), di aver trovato la sua imitazione divertente, pur dichiarandolo un po’ a denti stretti e con un sorrisino visibilmente tirato. Eppure, sarà forse un mio limite, guardando e riguardando la controversa parodia, faccio fatica a trovarne anche un solo passaggio degno di cotanto accanimento, una battuta di reale cattivo gusto, una frase offensiva o mortificante nei confronti delle donne in genere o della Boschi in particolare. Senza considerare poi che si tratta, appunto, di satira: che per sua natura deve essere tagliente, scorretta, iconoclasta, deve poter scalfire privilegi e schernire gli intoccabili, trasformandosi nell’ultimo e più scomodo baluardo a difesa della libertà di espressione. Ricordando, tra l’altro, che la stessa Raffaele ha consolidato il proprio successo sbeffeggiando personaggi di altri schieramenti, dalla deputata di Forza Italia Michaela Biancofiore alla chiacchieratissima ex – igienista dentale Nicole Minetti, ma nessuno, in questi noti casi precedenti, aveva gridato allo scandalo o parlato, in maniera ipocrita, di discriminazioni (e per fortuna). Evidenziando infine che la figura dell’idiota nel discusso sketch la fa soprattutto il giornalista, il personaggio maschile, colui che si lascia abbindolare e fuorviare dalle risposte elusive e dai sensuali battiti di ciglia dell’ammaliante Boschi/Raffaele. Perché vorremmo essere anche liberi di poter ridere ancora delle ridicole debolezze degli uomini, di fronte al fascino delle donne, senza per forza doverci ritenere esseri maschilisti o peggio ancora misogini.

Assenza mezza bellezza!

Spot 30″ di Poltronesofà con Sabrina Ferilli – YouTube.

Questa, con ogni probabilità, sarà la recensione peggiore che vi capiterà di leggere su di una pellicola meritevole in realtà di pareri ben più illustri ed autorevoli, i quali ovviamente, si sono già scomodati al riguardo, non sempre in maniera tenera né unanime a dirla tutta. Ma si sa, i critici, quelli veri, devono per forza (o forse per contratto) sputare un po’ di veleno, pena non essere considerati dei seri professionisti. La differenza (e il vantaggio) nell’aggiungere qui anche la mia bislacca opinione all’oceano di reazioni, forse spropositate, che “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino – da pochi giorni premio Oscar come miglior film straniero – ha incredibilmente sollevato, sta nel ribadire, nel caso ce ne fosse bisogno, la natura tutt’altro che prestigiosa e competente di questo spazio, così come la già declarata frivolezza dell’autore e la sua colossale (e vergogonosa) ignoranza in materia di cinema. Premesso che non oserei mai addentrarmi nel merito della recente vittoria agli Academy Awards (evidentemente se una giuria di esperti l’ha decretata, aggiungendolo alla breve lista degli italiani premiati con lo stessi riconoscimento nel tempo, si tratta senza dubbio di un film di qualità, e dovremmo rallegrarcene tutti) l’avevo già pregustato lo scorso anno al cinema, incuriosito dai commenti contraddittori e dalla critica nettamente divisa in due sul valore stesso dell’opera di Sorrentino. E ne ero uscito un po’ frastornato: né entusiasta, né disgustato, avevo piuttosto apprezzato l’inizio energico e roboante, l’abbagliante minuzia della fotografia, lo sviluppo della storia fin verso la metà, per poi clamorosamente smarrirmi (e a tratti annoiarmi) nella seconda parte. Insomma, l’avevo liquidato in fretta con un “Ni. Sì, cioè, forse interessante. Ma non credo di averlo capito del tutto”. Perché può succedere che una pellicola non ci seduca fino in fondo, o non arrivi a convincerci, ma dovrebbe anche sorgerci il legittimo dubbio che forse non siamo in grado di comprenderla davvero, di coglierne ogni spunto o riferimento, di riconoscerne eventuali citazioni o rimandi. Ma, al solito, è sempre più rapido, comodo, diffuso dar luogo a commenti feroci, come abbiamo visto questi giorni, da esperti improvvisati, che riuscire a fare, talvolta, della sana autocritica. Poi, finalmente, a poca distanza dagli Oscar, la messa in onda de “La grande bellezza” in tv, e anche io, che ormai non festeggio più martedì grasso da quando a diciotto anni ammutolii un’intera discoteca, travestito da ballerina di charleston, come milioni di italiani decido di rimanere a casa per riguardarlo con maggiore e necessario scrupolo.

E qui la prima sorpresa. Perché non lo ricordavo. O meglio, avevo rimosso tutta la lungaggine della vicenda finale, quella della “Santa” e delle presenze inquietanti che le ruotano attorno, compresi i fenicotteri, di cui ancora mi sfugge il profondo significato (nel caso ce ne sia uno!). Ed il motivo era che mentre il film continuava a scorrere, io mi ero fermato a rimuginare sull’improvvisa, frettolosa e in parte ingiustificata scomparsa del personaggio più accattivante, struggente, vero, dell’intera storia, quello della spogliarellista Ramona/Sabrina Ferilli. Che in mezzo alla ripugnante antipatia radical chic degli altri ruoli e al restante contorno di squallore mondano, aveva finalmente introdotto una nota di calda umanità, velata di una malinconia fragile e decadente, con cui risultava impossibile non simpatizzare all’istante. Considerato poi che non si tratta in questo caso della Ferilli popolana ma gioiosa vista in tanti spot (video allegato) o quella in versione sexy e un tantinello trash del famoso strip per lo scudetto della Roma e dei fortunati calendari, ma di una raffinata quanto toccante prova da attrice di sorprendente talento. Ho perfino pensato che l’inspiegabile morte di Ramona/Sabrina nella trama, che piomba sugli spettatori senza un chiarimento sul suo tragico destino, inserendo magari un fotogramma con una stanza di ospedale o una lapide, che so, anche con una sola lacrima versata da chicchessia, fosse in realtà dovuta a una lite burrascosa con il regista durante la lavorazione del film, che è arrivato così a farla fuori all’improvviso. Ipotesi che sono tornato a prendere in considerazione vista la sua discutibile assenza, lamentata su tanta stampa dalla stessa Ferilli, alla citata notte degli Oscar (http://qn.quotidiano.net/spettacoli/cinema/2014/03/03/1033994-oscar-grande-bellezza-ferilli.shtml). Perché io, Sabrina, alla cerimonia di consegna dell’ambita statuetta, l’avrei senz’altro portata. Primo, per dimostrare agli americani che oltre Sofia Loren (chiamata infatti quindici anni fa per la premiazione di Roberto Benigni) forse qualche altra valida maggiorata nel cinema ce l’abbiamo ancora. Ma soprattutto perché se “La grande bellezza” di cui si parla è chiaramente e volutamente assente in tutto il film di Sorrentino, alla Ferilli va riconosciuto il merito di incarnarne quel poco che c’è e per cui varrebbe la pena guardarlo.

Che musica, maestro!

Stromae – Tous Les Mêmes – YouTube.

Sinceramente credo di vivere in un Paese straordinario, un Paese che racchiude tutto il proprio, innegabile fascino nella sua natura incomprensibile e contradditoria, nel suo lento muoversi come un gigantesco carro di carnevale tra la folla, come una sorta di creaturona animata da meccanisimi oscuri o vagamente intuibili, occultati a dovere dalla spettacolarità di un volto grottesco e attraente al tempo stesso. Un Paese, che, forse timoroso di sprofondare nella noia più cupa i propri cittadini, i quali, insomma, di motivi per lagnarsi ne avrebbero già accumulati una scorta abbondante anche per le prossime due decadi, ha visto bene di prendere l’abitudine, così, tanto per rallegrare la scena, di fare e disfare governi almeno una o due volte l’anno, anche se quello uscente, fino al giorno della sua caduta seminaspettata, veniva dipinto come perfettamente funzionante o almeno sostenuto da una qualche credibilità internazionale o da larghi consensi. Che poi, era quello che avevamo appunto pensato, perché in tanti ce l’avevano raccontata così, del lavoro apparentemente scrupoloso portato avanti dall’ex – premier Enrico Letta, il quale, si è ritrovato all’improvviso a pagare con la sua stessa testa, forse, l’imperdonabile scivolone mediatico di aver presenziato alle Olimpiadi invernali di Sochi nella Russia omofoba di Putin, unico, al momento, contestatissimo episodio della sua recente carriera politica. Ma si sa, agli occhi di un’opinione pubblica che a parole difende strenuamente i diritti della comunità omosessuale, quando poi forse ripristinerebbe volentieri i roghi, certi passi falsi appaiono inaccettabili, e per fortuna che a consolidare l’immagine di un’Italia più gay – friendly e tollerante c’abbia pensato Vladimir Luxuria, grazie al suo folle quanto eroico sventolare una bandiera arcobaleno nello stesso complesso olimpico (gesto per il quale è stata poi fermata e allontanata). A questo punto sarebbe logico attendersi come reazione numerose parole in lode e in difesa della ex – parlamentare spese dai suoi connazionali: macchè, molte più le critiche piovute su di lei, guidicata “irresponsabile”, “egocentrica”, senza contare inoltre i terribili insulti fioccati su tutte le pagine dei social network, dove il complimento più carino che le è stato fatto è “assomiglia alla moglie di Renzi (e in effetti)”!

Ah, già, sì, Renzi, il nostro “premier in pectore”, come ci ricorda quotidianamente ogni tg in apertura: che dire, non facciamo i disfattisti, proviamo almeno dargli un briciolo di fiducia iniziale. Certo che se riesce davvero a far tutto quello che (ci) promette, all’impressionante (e poco credibile?) ritmo di una riforma al mese, a Settembre avremmo già risolto i problemi che c’affliggono da oltre venti anni. E dopo che facciamo? Voglio dire, mica siamo abituati alle dinamiche di un Paese che funzioni sul serio. Vedremo. Tanto, tutte le nostre previsioni di politologi da strapazzo, in cui ci trasformiamo noi italiani ad ogni terremoto in parlamento, sono già state accantonate in favore della nostra anima da critici musicali che emerge di fronte ad un ben più importante evento di questi giorni: il festival di Sanremo. Che, appena cominciato, tra contestazioni, canzonette e mostri sacri della spettacolo (parlavo ovviamente della Carrà) ha già catalizzato l’attenzione di tutti, compresi quelli che si ostinano a dichiararsi immuni dalla diffusissima dipendenza da palco dell’Ariston (e poi si rinchiudono di nascosto per un’intera settimana, la sera, a casa, sul divano). Proprio a voi allora dedico la chiusura di questo post, dandovi quelle due nozioni in più sull’ospite straniero dell’ultima serata (in genere abbastanza sconosciuto), in modo da farvi bella figura di fronte ai vostri amici che avrete di sicuro invitato a casa per la finale del Festival. Trattasi di Stromae (video allegato), pseudonimo (ottenuto dall’inversione delle due sillabe di “maestro”) dell’artista belga 29enne (lui sul serio, mica come me) Paul Van Haver, padre ruandese e madre fiamminga, che ha già scomodato paragoni eccellenti, dalla gestualità di Jacques Brel al trasformismo di Grace Jones. Qualità che il cantante dimostra senza dubbio di possedere nel video Tous les memes, cliccato oltre 20 milioni di volte solo su YouTube, nel quale, travestito per metà da donna, si muove in un balletto memore di Thriller di Michael Jackson, sulle note di un brano che suona come una dura condanna di tutte le discriminazioni di natura sessuale. Tema, che come abbiamo già ampiamente dimostrato proprio in queste ultime settimane, a noi italiani sta particolarmente a cuore.

Mal Comune?

▶ Dj Angyelle feat. Cladì & Curio 247 – It’s Up To Me – YouTube.

Detesto le generalizzazioni, il parlare per grandi gruppi, estendere i ragionamenti includendo diverse classi di individui quando poi sarebbero i singoli individui, proprio in quanto singoli, a fare la differenza. Riconosco però che quando si tratta di affrontare in toto la categoria “italiani” esistono dei pregi e dei difetti collettivi in cui, peccando forse un po’ di superficialità e approssimazione, bene o male dimostriamo quasi tutti, senza troppi sforzi, di possedere alcune precise caratteristiche appartenenti a un ventaglio di comportamenti, reazioni o risorse, presto riconoscibili come “peculiarità nazionali”. E lo scenario politico di questi giorni, le accese modalità di discussione o di vero e proprio scontro che hanno trasformato il parlamento italiano, nelle ultime settimane, in uno squallido campo di battaglia, è purtroppo soltanto l’ennesimo esempio di una delle nostre peggiori qualità, l’inettitudine al dialogo. Prescindendo dalle ragioni o dai torti, dalla classica frase a cui si ricorre come solita, inoppugnabile, giustificazione, quel “hai cominciato prima tu”, che ogni cittadino adulto dotato di senno dovrebbe aver abbandonato con la fine delle elementari, i toni deplorevoli con cui si è svolto il recente dibattito politico, hanno prodotto soltanto l’effetto deleterio di sviare il necessario confronto dai contenuti a favore di milioni di digressioni su una forma irrispettosa e inaccettabile. Parole vergognose come “boia”, “squadristi”, “stupratori”, così come i ceffoni sonori volati tra parlamentari o la ripugnante pratica dei libri dati al rogo non dovrebbero esattamente rientrare nella prassi quotidiana con cui si conduce una normale e civile discussione, ma farci innanzitutto gridare allo scandalo, muovere la nostra indignazione, spero non addirittura farci rimpiangere una vecchia conoscenza decaduta che apostrofava qualche illustre collega straniera come “culona inchiavabile” (lungi dal me il rimpiangerla, sia chiaro). Macchè, niente, tolleriamo senza battere ciglio o addirittura difendiamo a spada tratta, acriticamente, qualsiasi uscita fuori luogo o pesante insulto proveniente dalla parte politica che ci rappresenta per il solo fatto che ci rappresenta, senza metterne in discussione il valore, la decenza o piuttosto il loro esserne del tutto privi. Succede inoltre, in questo Paese che ha fatto del paradosso e della contraddizione la sua cifra stilistica più riconoscibile, che quando invece ricorriamo al sarcasmo e all’ironia – e in questo, come popolo, abbiamo talento da vendere – per mettere alla berlina innanzitutto noi stessi, per sorridere in maniera catartica dei nostri mali e delle nostre pecche, per sbeffeggiare i nostri vizi imperanti, ecco che allora si sollevano inutili polveroni mediatici sul caso, si scatenano reazioni spropositate rese ancor più vivaci da un’energia e da un piglio battagliero che in altre, più importanti, circostanze rimangono invece sopiti. Vado a riassumere l’ultimo, eclatante episodio: c’è un piccolo comune di 50.000 abitanti, Nichelino, in Piemonte (fino a pochi giorni fa noto soprattutto per ospitare il celebre complesso sabaudo della Palazzina di caccia di Stupinigi), il cui sindaco decide di mettere a disposizione gli spazi del proprio municipio come set in cui girare un videoclip musicale (video allegato). Il brano, It’s up to me, un motivetto disco orecchiabile firmato Dj Angyelle con la partecipazione della cantante Claudia Padula, in arte Cladì, ha in realtà il suo punto di forza nelle immagini del video stesso, un piccolo capolavoro di satira in cui si prende in giro un po’ di tutto: l’inefficienza e la fannullaggine dei dipendenti pubblici (la stessa che ci irrita ritrovare in ogni puntata de Le Iene), i ricatti, i mezzucci e gli intrighi di palazzo, ma soprattutto la vanità dei politici piacioni che si lasciano sedurre da belle e provocanti fanciulle, appoggiandone la carriera (e qui c’è mezza storia recente d’Italia). Apriti cielo: immediate le proteste da parte dei comuni limitrofi così come degli esponenti dello stesso partito e della giunta regionale che chiedono l’immediato ritiro del video, (http://www.affaritaliani.it/cronache/nichelino-video-hard-comune060214.html), accusato di essere sconveniente, offensivo, addirittura hot, mentre non si placa la bufera sul sindaco (che tra l’altro compare in coda nei ringraziamenti della clip stessa) per aver permesso un simile oltraggio al decoro istituzionale del posto. Peccato che il video non sia, alla fine, né troppo osé, così come tanta stampa sembra sostenere, né particolarmente volgare, in ogni caso sempre meno di tutto ciò che siamo abituati da tempo a vedere in qualsiasi trasmissione tv, dal quiz pomeridiano al noioso talk show politico. Peccato constatare, in conclusione, che siamo di fronte alla solita bravura, all’italiana, di riuscire a polemizzare a oltranza sul nulla. In questo, dobbiamo ammetterlo, non abbiamo rivali in tutto il mondo.