Oggi è un altro giorno…

Brandt Zwieback TV Spot 2014 “Langschläfer” – YouTube.

Vorrei svegliarmi lentamente, la luce che s’insinua timida dalla finestra bussarmi con leggerezza sulle palpebre, provare ad aprire almeno un occhio per piegare lo sguardo assonnato verso la sveglia che annuncia l’ora di alzarsi, e infine scoprire che quella sgradevole sensazione ancora presente sulle braccia e nel petto è soltanto il consueto rimasuglio di un incubo ricorrente. In alternativa vorrei riuscire ad andare in letargo, perché trovo tremendamente ingiusto creare una così perfetta scappatoia alla detestabilità dell’autunno e renderla esclusiva prerogativa di alcune specie di animali, che vai a sapere poi se siano davvero in grado di apprezzarla fino in fondo, loro che sono tutti istinti elementari incorniciati da pelo che si arruffa. Io no, mostrerei al contrario un’enorme gratitudine a chiunque se ne dichiari l’inventore, se solo riuscissi a farmi cullare per i prossimi mesi dall’abbraccio di un sonno profondo e ristoratore, con golose e sufficienti provviste di cibo a portata di mano, da poter spiluccare di tanto in tanto, pronto a distendermi beatamente su di un letto morbido, con il probabile sorrisino idiota dato dalla speranza di un risveglio in un momento più benevolo, caloroso, in altri termini, migliore. Invece al momento non ho scampo, mi tocca star qua, a inaugurare questo mese in balìa della mia puntuale e invadente inquietudine stagionale, le cui picchiate di umore sono stavolta perfino aggravate da inimmaginabili scoperte, come quella di un movimento capillare autoproclamatosi “sentinelle in piedi”, nome che pare riecheggiare l’altisonanza tipica delle manifestazioni del nostro ventennio più buio (non quello più recente, l’altro), quando esisteva lo spauracchio di squadroni pronti a “vigilare” sulla condotta altrui. E per quanto uno possa tentare di non farci caso o di liquidarlo come l’ennesimo fenomeno generato dalla più bigotta ottusità, ecco che poi ti ritrovi ad esporti e a misurarti in confronti sfibranti con sconosciuti dalle opinioni retrograde che, sulle bacheche dei tuoi amici di Facebook, ne arrivano pure a difendere i modi, facendosi scudo con quell’innocua apparenza da “pacifica dimostrazione di dissenso”, come se il silenzio irremovibile di certe prese di posizione non fosse ugualmente in grado di turbare, offendere, ferire. E avverti di nuovo accendersi in te altrettanti covoni di rabbia e frustrazione se proprio negli stessi giorni la vita per dispetto ti sceglie per raccogliere lo sfogo di chi, con coraggiosa serenità, ha deciso di tentare a piccoli passi il proprio coming out e invece di ottenere quel placido e affettuoso sostegno che tante famiglie “naturali” sembrano sbandierare a vanvera come loro unico e vero pilastro, per tutta risposta si trova invece ad essere trattato al pari di un’insormontabile delusione, di una scheggia impazzita, di una maledizione del destino. Trovo perfino più irritanti che divertenti certi plateali dietrofront conditi di opportunismo, orchestrati da giovani arriviste ed aspiranti first – lady, difficili da distinguere nel look dalle drag – queen di cui si circondano per affermare la propria riscoperta vocazione alla tolleranza, così come le anacronistiche e veementi ripicche di taluni ministri scandalizzati dall’operato di più concreti ed intelligenti amministratori locali. Mi infastidisce addirittura constatare che mentre da noi si possa al massimo aspirare negli spot ad un attempato sex – symbol che stuzzichi i sogni erotici delle consumatrici al ritmo di discutibili doppi sensi come il “biscottone inzupposo”, nella vicina Germania (dove comunque veri e propri “matrimoni” tra persone dello stesso sesso sono ancora inesitenti) anche per pubblicizzare delle semplici fette biscottate si ricorra invece alla sorridente e verosimile quotidianità di una coppia apertamente gay (video allegato). Si, lo so che un domani anche qui da noi assisteremo finalmente al trionfo di questa lunghissima ed estenuante battaglia di civiltà, che riusciremo a far valere i sacrosanti diritti di tutte le persone senza alcuna etichettatura di genere od orientamento, che ci risveglieremo infine al calore di una stagione che avrà spazzato via tutta la gravità di quei pregiudizi inneggianti all’intolleranza e all’omofobia. Un domani, certo. Non oggi. Oggi, perdonatemi, è maggiore lo sconforto.

Mostruosi ricordi!

The Addams Family TV Show Opening 1964 – YouTube.

Nella convulsa quotidianità di un adulto, definzione che in base a quella cifra incontestabile presente alla voce “data di nascita” sulla carta d’identità dovrebbe inculdere anche me, trovarsi a ripescare occasionalmente nella testa i ricordi un po’ offuscati della propria infanzia rappresenta in molti casi un piacevole e non sempre pianificabile passatempo, una distrazione placida e imprevista in cui immergersi quando la memoria ti coglie di sorpresa divertendosi a spalancare a casaccio alcune finestre sul tuo vissuto. Naturalmente è così anche per me: quel misto di tenerezza e imbarazzo che mi provoca rievocare la mia immagine di bambino perennemente sbrindellato, sudacchiato, un po’ selvatico, che rientrava a casa solo quando era impossibile continuare a ignorare i richiami via via più minacciosi di mia madre alla finestra, con i calzoni della tuta sempre macchiati d’erba e un’immancabile crosta di sangue al ginocchio sinistro, di cui conservo una simpatica cicatrice ancora oggi, si accompagna all’enigma mai risolto di come abbia fatto a trasformarmi negli anni in un esemplare di persona oggi comunemente ritenuta mite e piuttosto affidabile. Non che fossi un tipino poi così irrequieto e scavezzacollo: ma dietro quell’apparenza calma e assenata, frutto di un’indole quasi timida e di un rendimento scolastico medio – alto, dovuto al dono provvidenziale di una memoria da elefante che mi ha sempre garantito buoni risultati con il minimo sforzo, rimaneva da gestire un’energia anche fisica che talvolta finiva per essere incanalata in pericolosi svaghi, dal salire appena possibile sugli alberi nei giardini all’eseguire ovunque capriole e giravolte rischiose, con un’agilità poi purtroppo svanita chissà dove. Questo per chiarire maggiormente quale trauma possa aver rappresentato per me affrontare a circa 8 anni, di fronte a una platea di altri classi semiannoiate, il mio primo e unico ruolo ottenuto in una recita scolastica, la sola che le mie insegnanti ci permisero di mettere in scena, giustificando la propria evidente incapacità di tenerci a bada in simili occasioni con un banale “sono troppo vivaci”. Per di più, invece di legare l’evento, come da consuetudine, alla sentita tradizione religiosa, che prevedeva l’allestimento di uno spettacolino amatoriale verso Natale o Pasqua, con bambini in vesti rabberciate a mo’ di angioletti, pulcini, fiocchi di neve o fiorellini, le mie maestre, dimostrando senza dubbio originalità e un senso dell’umorismo un tantinello lugubre, decisero, forse ambiziosamente, di farci addirittura cimentare nella Famiglia Addams, il celebre telefilm che proprio questi giorni va compiendo 50 anni dalla sua prima messa in onda negli States (nel video, la sigla originale). E dato che Stefania, la mia compagna di classe colpevole di avermi dimostrato con troppo entusiasmo la sua cotta colpendomi con una sedia dritto sulla testa, era stata ritenuta perfetta per la parte di Morticia, ma un mio eventuale affiancamento nei panni di Gomez avrebbe messo a rischio ancora una volta la mia incolumità e i nervi già provati delle insegnanti, la soluzione migliore fu quella di tenermi a debita distanza da lei assegnandomi il ruolo assai gratificante di, udite udite, Mano. Il che significò che per tutto il tempo delle prove così come per la durata stessa della recita, percepita come infinita, sarei dovuto rimanermene accovacciato e quatto quatto sotto alcuni banchi accostati, coperti da una polverosissima tovaglia bordeaux con le nappe, sistemata per nascondere l’apertura strategica da cui avrei far dovuto fuoriuscire la mia mano che faceva così la sua magica comparsa sbucando da una scatola di scarpe ridipinta. Un gran debutto artistico, non c’è che dire. L’unica consolazione era sapere (perché di riuscire a vedere qualcun altro, là sotto, non se ne parlava) che “sul palco” ci fossero altri compagni ancor più pubblicamente ridicolizzati: Merygiusy (mi pare si scrivesse così) ad esempio, a causa dei suoi lunghi capelli lisci color miele, fu scelta per impersonare il cugino It e costretta dunque a recitare in ginocchio, di spalle al pubblico, con un paio di occhiali da sole indossati al contrario sulla nuca. Emanuela, data la sua corporatura gracile e il faccino pallido perennemente imbronciato, divenne, con pochi piccoli accorgimenti, una copia quasi fedele di Mercoledì, e dunque poi condannata a fare i conti con quel cupo soprannome per alcuni anni a venire. Perché va precisato: uno dei motivi per cui tutti ricordiamo volentieri il telefilm, oltre al quell’efficace humour nero e alla stravaganza di vicende, dalle quali nei primi anni ’90 è stata tratta una riuscita versione cinematografica e adesso anche un musical, è per averci soprattutto fornito un noto e riconoscibile campionario di tipi fisici e relativi nomignoli con cui etichettare o sbeffeggiare chicchessia. Quello che ho pensato proprio qualche giorno fa quando ho dovuto rinnovare il mio tesserino di accompagnatore turistico: una rapida occhiata alla nuova foto, ed ecco che la mia infanzia traumatica di Mano ha lasciato adesso il posto ad una più spettrale maturità da zio Fester.

Solidarietà a secchiate

Donatella Versace ALS Ice Bucket Challenge – YouTube.

In questo scorcio d’estate meterologicamente capricciosa, per non dire fin troppo avara di cieli azzurri (eccezion fatta per quei magnifici e soleggiati venti giorni di Agosto che, per un inaspettato e sfacciato colpo di fortuna, hanno finito per coincidere in toto con le bramate vacanze del blogger scansafatiche autore di questa pagina, inducendolo a presenziare maggiormente sulle spiagge che non sul web…ma questo forse l’avevate già notato) occorre forse ripartire dalla constatazione di una, assai dibattuta, anomalia avvenuta sul piano della comunicazione. E cioé che, per quanto emittenti radiofoniche e case discografiche abbiano fatto davvero del loro meglio per assediarci e asfissiarci ovunque con i soliti, ballabili e orecchiabilissimi tre, forse quattro motivetti pop, tutti ugualmente aspiranti al titolo ambito di tormentone di stagione, ma nessuno dei quali, a dire il vero, poi divenuto vincitore incontrastato, l’onnipresente, più rilevante e martellante fenomeno globale di questa estate 2014 non è stato un brano musicale ma, al contrario, un video amatoriale. No, non sto naturalmente parlando del criticatissmo “sexy – incidente” capitato su di un palco in Perù alla nostra Laura Pausini, che troppo fiduciosa nella tenuta dell’accappatoio con cui si stava esibendo in un bis al termine di un suo concerto, ha mostrato involontariamente al pubblico ben altre doti, oltre a quelle canore, episodio che soltanto lo scorso Luglio sembrava comunque aver segnato irrimediabilmente la stagione in corso come quella da ricordare per la fuoriuscita della “patata romagnola”. Mi riferisco invece alla virale e riuscitissima, sebbene causa di inarrestabili fiumi di polemiche, campagna di sensibilizzazione promossa dalla ALS Association, la più importante organizzazione americana impegnata nella lotta e nella raccolta fondi per combattere la SLA, la sclerosi laterale amiotrofica, lanciata proprio in questo mese e nota con il nome di Ice Bucket Challenge (per intenderci “la sfida della secchiata d’acqua gelida”). Il meccanismo è semplice: ogni sfidato ha ventiquattr’ore di tempo per effettuare una donazione in favore della ricerca contro la malattia (in Italia è possibile farla tramite il sito dell’AISLA, Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica, http://www.aisla.it/) pena riprendersi mentre si rovescia (o gli viene rovesciato addosso) un secchio pieno d’acqua ghiacciata e quindi diffondere il video. Inoltre ciascuno sfidato deve a sua volta sfidare, nominandole nel proprio video, altre tre persone (le più varie o le prime che vi vengono in mente) a fare altrettanto, innescando così in questo modo una catena di solidarietà e divertimento che abbia comunque il fine di far circolare l’iniziativa sui media, per dar maggior spazio alle informazioni sulla terribile malattia e ovviamente ottenere allo stesso tempo più proventi possibile. E se in tutto il mondo la campagna, che ha coinvolto trasversalmente personaggi dello sport (da Cristiano Ronaldo a David Beckham), colossi dell’informatica (Bill Gates e Marc Zuckerberg in primis), celebrities di ogni sorta (in allegato il video di Donatella Versace, il migliore, a mio modesto parere, per quell’attimo di esitazione accompagnato da un italianissimo “No, aspetta” dopo un accorato appello a contribuire in un inglese compassato) e anonimi donatori desiderosi dei pochi loro minuti di notorietà (esilaranti i vari video con scivoloni ed errori di ogni sorta trovabili in rete), non sono mancate, soprattutto in Italia, critiche crudeli mosse all’insolito progetto, che si sono poi estese ai numerosissimi volti noti che ne hanno preso parte. Scagliate soprattutto dal severo popolo di internet, troppo dedito, come il sottoscritto, a elargire opinioni e bacchettate anche quando non richiesto, così come ad affrettarsi a rimproverare il vuoto narcisismo di chi ha aderito alla campagna (lo stesso che però non gli vieta di essere presente con milioni di selfie, ad ogni ora su ogni social network), esigendo in alcuni casi perfino la foto, la fattura o comunque la prova delle reali donazioni effettuate (sorvolerei inoltre qui sulle ridicole prediche fatte a Luciana Littizzetto, rea di aver sventolato solo 100 euro nel proprio video e dunque tacciata di tirchieria, e sul capitolo a parte che meriterebbe la strumentalizzabile doccia gelata di Matteo Renzi, primo ed unico capo di Stato a rispondere all’appello). “Coltivate il senso dell’umorismo: c’è tanto da ridere al mondo, degli altri, di voi stessi, delle cose che vi parevano così importanti e che invece erano così stupide” consigliava con ironia pungente, nel suo premiatissimo libro d’esordio del 2009 L’ultima estate, Cesarina Vighy, malata di SLA e scomparsa l’anno successivo, opera divenuta oggigiorno più attuale che mai. Una lezione che in tanti, troppi, in tutta questa assurda vicenda, dovrebbero forse tenere bene a mente.

Eterni bagliori

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Fate pure tutti gli scongiuri del caso, ricorrete tranquillamente, se vi sembra opportuno, a tutto il necessario, più o meno simpatico, talvolta volgare repertorio di gesti e gestacci di natura scaramantica, di quelli che spesso ci troviamo ad eseguire con studiata nonchalance, di nascosto, sotto i tavoli o appena voltate le spalle al nostro interlocutore, quando il viso rimane a lungo congelato in quell’espressione tirata e indefinita di vago disagio, al contrario delle nostre mani che, prontamente trasformate in corna di circostanza, cercano il contatto con il ferro o con altri intimi gingilli. E adesso che vi siete premuniti a dovere contro le eventuali sciagure potenzialmente attirate, come orsi dal miele, dall’argomento di tono funereo e vi sentiti al riparo nonché refrattari ad ogni forma di disgrazia incombente, grazie alla comprovata efficacia di tutti i vostri più strambi e collaudati rituali di superstizione, tirate un respiro profondo e servitevi allegramente della giusta dose di leggerezza occorrente per affrontare il prossimo, delicatissimo, tema. Perché parliamo di morte. Allora? Via quelle mani di lì, ho detto. Ma possibile che basti scomodare quella semplice parolina, cinque, comunissime lettere, m-o-r-t-e, ed ecco sgorgare fiumi di terrore e di angoscia a riempire indistintamente occhi, cervello e cuore, mentre nella testa si fa sempre più forte una vocina spaventata a suggerirci con prontezza “vabbè, parliamo pure d’altro!”?. Eppure, per quanto sia umano e comprensibile allontanarne di qualche galassia più in là il solo, agghiacciante pensiero, dovremmo esserci ormai abituati o rassegnati all’idea di un suo, inevitabile e perciò detestato, arrivo: voglio dire, questa meravigliosa, spiazzante, talvolta schizofrenica ma senza dubbio straordinaria (e naturalmente speriamo anche lunga) esperienza chiamata vita, per goderci e forse complicarci la quale siamo stati messi al mondo, dall’età in cui più o meno acquisiamo (più o meno) la nostra ragione sappiamo perfettamente averla ricevuto in dono con una sua (misteriosa, questo ve lo concedo) data di scadenza. E allora perché non preoccuparsi già, con un pizzico di audacia e di tempismo, del futuro destino che desideriamo riserbare a questo nostro corpo effimero, una volta che sarà diventato un’ingombrante e deteriorabile carcassa, se non altro per quell’enorme rispetto che indifferentemente tutti gli dobbiamo dopo averlo, per decenni, ignorato o maltrattato più che curato e coccolato? Soprattutto se, al pari del sottoscritto, rientrate anche voi nella cinica e materialistica categoria di chi non aspira affatto a sopravvivere sotto forma di anima per godersi l’eterna beatitudine di paradisi ameni (o per arrostire nei secoli tra il guizzo di alte fiamme di dannazione), o meglio, di chi non si illude di possedere neanche una minima traccia di una qualsivoglia sorta di anima, ed è anzi fermamente convinto che, lasciata a malincuore questa vita, quel giorno non ci sarà ad attenderci proprio niente e nessuno, nessun santo “chiavi in mano”, nessun luogo concreto, forse solo lo stesso, indefinibile, dove abbiamo distrattamente albergato prima di nascere. E se rabbrividite almeno quanto me alla sola, spiacevole, ipotesi di passare chissà quanto tempo sigillati e compressi (ma ben vestiti) dentro una scomoda bara, e preferite al contrario che i vostri resti vengano definitivamente bruciati per essere poi conservati in un’urna da due soldi, dispersi al vento o dati in pasto ai pesci (ah, quest’ultima sarebbe la mia opzione, mi raccomando, adesso che è tutta nero su bianco, vediamo un domani di metterla in pratica, che non potrò essere lì a vigilare direttamente sulle vostre azioni), ebbene, da qualche anno abbiamo anche un’ulteriore scelta: quella di essere trasformati in pietre preziose. In diamanti, per la precisione, come promette, con un filo di macabro sarcasmo, la campagna pubblicitaria dell’azienda capitolina di pompe funebri Taffo (foto allegata) proprio in questi giorni affissa, con un inimmaginabile e riuscito ritorno mediatico, per le strade di Roma e provincia. Grazie ad un accordo esclusivo con alcuni laboratori in Svizzera, deputati ad occuparsi dell’insolita operazione, sarebbe dunque possibile ricavare dalle normalissime ceneri di un caro estinto la quantità di grafite necessaria per ottenere un diamante (di cui si può inoltre scegliere la caratura, con costi che oscillano fra i 3 ed i 15 mila euro), da montare eventualmente su un gioiello da indossare e perché no, esibire, anche con frasi del tipo “sai, mio zio Paolo, te lo ricordi? Eccolo qui!” Una scelta bizzarra, forse, non ancora di successo, ma supponiamo in crescita, consigliabile soprattutto per due ordini di motivi. Dare, in primo luogo, la possibilità anche a chi non ha mai particolarmente brillato durante la sua stessa esistenza di riuscire invece a farlo, in altro modo, dopo la sua morte. E poi, dato che l’ironia è sempre stata un’ottima risorsa per contrastare le numerosissime difficoltà di questa vita, che sia anche la strumento migliore per affrontarne la fine?

Girl power

Verizon Commercial 2014 | Inspire Her Mind – Extended | Verizon Wireless – YouTube.

Succede raramente, ma a volte, proprio come in quelle scene dei film in cui la telecamera si innalza a poco a poco sul protagonista per abbracciare nell’inquadratura tutto ciò che lo circonda, ho come una sorta di alienante e più oggettiva percezione di me, un punto di vista estraneo e quasi sospeso nel tempo, che mi spinge a chiedermi cosa stia facendo lì in quel preciso istante e cosa penserebbe, casomai, un qualunque, sconosciuto, spettatore. Sono naturalmente attimi di riflessiva lucidità in cui a prendere il sopravvento è quella spiacevole ed umanissima sensazione di sentirsi a disagio, direi forse fuori luogo, nella maggior parte dei casi terribilmente stupidi e in questo, tra l’altro, in ottima compagnia. Ed è ciò che ho avvertito con chiarezza, rimanendone in parte turbato, quando proprio l’altro giorno, per lavoro, mi sono ritrovato in un chiassoso parterre ad assistere ad una sfilata di un noto brand di moda per bambini. Ebbene, all’uscita finale, con tutti i piccoli modelli che avanzavano tra gli applausi e gli schiamazzi di stampa, compratori e genitori presenti intorno alla mini-passerella, ho provato a lanciare uno sguardo più obiettivo e critico alla curiosa scena intorno a me, così riassumibile: decine di adulti sovraeccitati che osannavano e incitavano i loro pargoli, alcuni dei quali apparivano divertiti, altri disinvolti, molti altri invece intimiditi per non dire addirttura terrorizzati. Non discuto la necessità e la, spesso presente, qualità riconoscibile nelle tante collezioni di abbigliamento per l’infanzia: in numerosi casi si tratta di lavori eccellenti, frutto dell’impegno di piccole e medie imprese, anche italiane, che vantano decenni di tradizione nel settore e una cura ineccepibile nella confezione di vestiti, calzature e accessori, fiore all’occhiello di una vocazione artigianale ancora oggi, per fortuna, esistente. Si tratta piuttosto di rivedere il perché sia ritenuto comunemente accettato o accettabile il tradurre alla lettera una modalità di presentazione di un prodotto, nello specifico una sfilata o un servizio fotografico, che, se ancor oggi valutati come gli strumenti di diffusione mediatica più adeguati o funzionali al comune alafabeto del fashion – system, appaiono però una dissonante forzatura una volta calati nel mondo dei più piccoli. Me lo sono chiesto per tutto il giorno, quando ho continuato ad incrociare, nella frenesia dei backstage, graziose e vivaci bambine innaturalmente atteggiate a top – model, la freschezza tipica dei loro visi nascosta e stravolta da make – up e capelli ossigenati, talvolta trainate ed esibite come merce da esporre da genitori smaniosi di un briciolo fugace di fama o di approvazione. E continuo a chiedermelo ancora oggi, quando, di fronte al nuovo, efficace, spot della compagnia di telecomunicazioni americana Verizon (video allegato), centinaia di altre domande del tutto simili si rincorrono e si moltiplicano: è giusto pretendere da una bambina, sin dai primi anni, di adeguarsi alla rigidità di un desiderio sociale che ne enfatizzi solo la piacevolezza e la cura estetica, è giusto sottoporla alla discutibile pressione di corrispondere a un modello universale basato su un’immagine stereotipata, tutta moine e civetteria, con cui il mondo femminile viene spesso e superficialmente liquidato? Proviamo allora a fermarci solo per un minuto, quello necessario per capire il messaggio dello spot: e proviamo davvero a scoprire se esiste una profonda ragione per cui femminilità debba fare più spesso rima con quella sana curiosità in ogni settore, che occorrerebbe, al contrario, rispettare, salvaguardare e coltivare.