Finalmente, la tv!

L’INTERVISTA BARBARICA A TIZIANO FERRO – YouTube.

Chiariamolo subito, il mio è un semplice parere di spettatore. Di quelli della peggior specie, poi. Di chi cioè non ha mai utilizzato la tv come strumento di informazione o cultura. Per me l’apparecchio televisivo, che mi sono sempre guardato dall’avere in camera, quasi fosse un intruso con cui non volessi condividere la mia intimità notturna, equivale a un mezzo di puro intrattenimento. Accendo la tv e spengo il cervello: mi rapiscono i programmi trash, le sit-com, le soap opera, i reality show, Miss Italia e Sanremo, senza considerare poi il costante sottofondo dei canali tematici musicali e di moda, che scandisce le mie giornate di home-working o di odiate pulizie domestiche. Non faccio quindi della tv un uso critico né intelligente, per me avere un telecomando in mano significa bisogno di evasione, zapping alla frenetica ricerca di tutto quello che mi permetta di non pensare. E per quanto voglia incolpare di ciò la mia appartenenza alla generazione cresciuta con i fagioli della Carrà, quelli che bisognava indovinare quanti fossero di preciso nel barattolo (ricordate?), credo che convenga più banalmente arrendermi all’evidenza della mia indole di spettatore medio/superficiale. E’ capitato poi, per una di quelle strane manovre del destino, che in tv abbia anche lavorato per un periodo: una singolare parentesi di 2 anni e mezzo (6 mesi da stagista) nella redazione di una trasmissione di moda, ormai defunta, della domenica notte di Rai 1, di cui non è rimasta alcuna memoria negli annali televisivi, condotta nientepopòdimenoche da Katia Noventa, nota soprattutto per essere stata, 20 anni fa esatti, la valletta di Fiorello nel karaoke. Il che, ovviamente, è ben lontano dal rendermi un esperto in materia, per cui le considerazioni che seguiranno sono dettate da ragioni ascrivibili a un mero gusto personale, da condividere o biasimare in tutta tranquillità. Spero però siate d’accordo nel trovare “Le invasioni barbariche” di Daria Bignardi, programma ricominciato con una nuova edizione mercoledì scorso su La7, un prodotto avvincente e ben confezionato come raramente se ne trovano in giro. La conduttrice poi, che firma anche una delle rubriche più seguite su Vanity Fair, ha un talento innegabile per mettere alle strette i personaggi intervistati, senza perdere un briciolo della sua compostezza e della sua algida professionalità, scagliando, con quella voce un po’ nasale e dalla cadenza flemmatica, domande che mirano sempre dritto al cuore della questione. Com’è successo con l’ospite principale della prima puntata Tiziano Ferro (video allegato), che dopo cinque minuti d’intervista partita scoppiettante, con tanto di battute e frecciatine simpatiche, crolla, con le parole quasi rotte dal pianto, dichiarando apertamente la fine della sua storia d’amore con cui aveva tenuto banco su tutti i giornali negli ultimi due anni. Bingo! C’è lo scoop, il colpo di scena, la Bignardi quasi incredula incalza, tenta di strappare poco alla volta i particolari, Ferro resiste, poi cede, divaga su considerazioni generiche e un po’ pessimistiche sui sentimenti, lei lo riporta in pista, lo tranquillizza, ritorna l’allegria iniziale e il tono spensierato con cui si conclude infine la chiacchierata. Eccola, la televisione: quella che t’inchioda allo schermo anche se t’interessa poco o niente del personaggio in questione (del quale invece, per quei compromessi necessari in amore, conosco tutte le canzoni e ho perfino presenziato a un paio di concerti), quella che spettacolarizza e s’insinua nel personale senza cedere al cattivo gusto e alla morbosità di inutili dettagli. Quella che con garbo e apparente leggerezza svela la sorprendente uguaglianza di certi meccanismi umani, oscillando con discrezione tra pubblico e privato. Quella che in Italia, sepolta da decenni di trasmissioni spazzatura, sembrava essere sparita del tutto.

Lasciate che i bambini…

Giulia, mia nipote, ha poco più di un anno, il sorriso impertinente di sua madre, un vocabolario di circa 15 parole (due delle quali, “zia” e “ovo”, usate indifferentemente per chiamarmi), occhi enormi azzurro cielo, pelle e capelli chiarissimi, da scandinava, così lontani dal mio incarnato “arabeggiante”, da farmi temere spesso di leggere negli sguardi altrui il dubbio che l’abbia rapita in qualche supermercato. Ieri, per Natale, insieme a un mega – puzzle di Winnie the Pooh (con cui mi ha tenuto occupato gran parte del pomeriggio) un simpatico telefono – macchinina e qualche altra diavoleria “spaccatimpani”, Giulia ha ricevuto due abitini fatti interamente a mano, uno di un grazioso tessuto rosa a fiorellini, l’altro di maglia viola lavorata ai ferri. Felicissima per l’improvviso incremento del suo guardaroba, complice la sua civetteria acerba, ha continuato a specchiarsi e a pavoneggiarsi (ecco il dna Guasti che emerge) con addosso i suoi nuovi regali, incurante delle loro piccole imperfezioni e della chiara assenza di un’etichetta. Ultimamente, alle mie collaborazioni, si è aggiunta quella, gradita e impensabile, con una nuova rivista di moda per bambini (che non nominerò, non perchè trovi scorretto farmi pubblicità sul mio blog, ma perchè, forse, dopo questo post, preferiranno fare a meno di me): vengo così a sapere che il childrenwear è l’unico segmento dell’industria di moda fortemente in ascesa, come testimoniano le inaugurazioni in tutto il mondo di megastore e fiere dedicate all’universo dei più piccoli, il lancio di linee kid e junior da parte di grandi firme del settore, a cui si affiancano i dati di numerose aziende specializzate, che riescono a chiudere l’anno con il bilancio in attivo (ebbene sì, succede ancora). In conclusione, in tempi di manovre “lacrime e sangue”, di festività in cui si preferisce rinunciare al cenone di Capodanno e ai regali, magari riciclando quell’orrenda camicia a righe mai indossata, pare sia difficile fare a meno di acquistare per i nostri (cioè, i vostri) figli maglioncini griffati e stivaletti numero 14 all’ultimo grido. Possibile? E soprattutto, perché? I bambini, (o fa eccezione mia nipote?), badano davvero alla costosissima marca dell’abito che indossano o non importa forse più loro la libertà di correre, sporcarsi, divertirsi, essere insomma bambini fino in fondo? Già, perché il dubbio che mi assale è proprio questo: non è che questa rincorsa (superflua?) al brand e al tutto griffato sin dalla culla finisce semplicemente con lo snaturare la loro stessa infanzia? A volte ho l’impressione di trovarmi di fronte nient’altro che bambini travestiti da adulti. Lo penso guardando e riguardando le foto delle campagne pubblicitarie che continuano ad arrivarmi per lavoro, zeppe di pose artificiose, sguardi ammiccanti e altre piccole mostruosità. Tra cui la nascita di nuove (baby)star: come Romeo, 10 anni, secondogenito di David e Victoria Beckham (se non vi fossero sembrati abbastanza onnipresenti sui media i genitori), protagonista della campagna per la prossima collezione primavera/estate di Burberry (che trovate nel video qui allegato). Probabilmente mi sbaglio, anzi, me lo auguro. Ma soprattutto mi auguro che Romeo, come farebbe un qualsiasi altro bambino, possa aver rovesciato, sopra il suo trench impeccabile, un bel frullato al cioccolato.

 

A volte ritornano

I Think You Might Like It – YouTube.

A me le “operazioni nostalgia” mettono sempre una gran tristezza. Per “operazioni nostalgia” intendo quell’incomprensibile smania che spinge alcuni volti dello spettacolo, perfino quelli con una rispettabile carriera alle spalle –  oltre a chi, invece, campa da decenni su quei tre, quattro successi – a ritornare coraggiosamente sulle scene dopo lunghi silenzi. Soprattutto se la loro fama è dovuta, come spesso avviene, più che a doti artistiche, anche al ruolo di sex – symbol che hanno rivestito nel loro momento di massimo splendore. Mi domando: se a 20/30 anni sei stato l’irraggiungibile sogno erotico per generazioni di adolescenti deliranti, chi te lo fa fare di ripresentarti a un’età in cui dovresti dedicarti al giardinaggio o al golf a rinverdire i tuoi fasti con un aspetto che, diciamocelo francamente, ha visto stagioni migliori? Hai forse perso ai cavalli? Gli esempi si contano a decine: dal doppio mento dell’ormai 54enne Simon Le Bon alle visibili maniglie dell’amore dell’ex Take That Gary Barlow, e adesso, ciliegina sulla torta, la reunion, dopo ben 35 anni, di John Travolta e Olivia Newton-John. I quali, non soddisfatti l’uno di un curriculum d’attore navigato con diversi successi all’attivo, di un jet privato e di una discutibile militanza con Scientology, l’altra di una vita da splendida signora over 60, che rimarrà per sempre nell’immaginario collettivo la Sandy inguainata di pelle nera nella scena finale di Grease, tornano a incidere insieme un album per beneficenza, This Christmas, per di più di canzoni natalizie (altra operazione delicatissima, riuscita in passato solo a Mariah Carey con mini-gonnellino rosso, che infatti con All I want for Christmas is you ci tormenta ormai da quasi 20 anni, senza che si trovi qualcun altro degno di sostituirla come colonna sonora delle nostre feste). Iniziativa che di per sè può essere anche lodevole, e perchè no, interessante o divertente. Se non fosse che i due signori in questione, per il video del primo singolo estratto dall’album I think you might like it (che ho pubblicato qui sopra, così è più chiaro ciò di cui sto parlando) hanno citato, o meglio, rifatto il verso – evviva l’originalità – proprio alle scene girate insieme anni or sono in Grease. La stampa internazionale, senza troppi complimenti (e a ragione) li ha letteralmente fatti a pezzi. Permettetemi quindi di aggiungere solo il mio personalissimo commento: aridatece Danny Zuko.