Sex post

“Posso farti una domanda?” mi chiede a bruciapelo, dopo una cena cinese ricca e insolitamente raffinata, Claudia, la mia amica chiassosa, scoppiettante e altruista come solo alcuni partenopei sanno essere, assumendo proprio tutta l’aria di chi sta per metterti k.o. con un quesito scomodo, di quelli a cui non vorresti mai rispondere. “Certamente” le replico io, ricorrendo a quelle dosi di finta disinvoltura di cui mi sono armato durante la mia esistenza da ex-timido, e pensando “stai a vedere che ora mi rovino anche la digestione, peccato, le costolette di maiale con spezie del Sichuan erano eccezionali (devo dedicare un post a questo ristorante, prima o poi)”. Ed ecco infatti, dopo il mio cordiale permesso, esplodere come un ordigno tutta la potenza della sua indiscrezione “Perché nel tuo blog non parli mai di sesso?”. Eh? Ho capito sicuramente male. Spiazzato, riempio un nuovo bicchiere di grappa di riso, lo bevo tutto d’un sorso e indifferente alla gola in fiamme e al rossore ormai dilagante sul mio volto balbetto qualcosa del tipo “Possibile? Non c’ho mai fatto caso. Ma sei proprio sicura?”. “Si, sicurissima. Pensavo ci fosse una ragione”. No, a dire il vero non c’è. Almeno non una anche solo vagamente convincente che sia riuscito a fornirle quella stessa sera a tavola, anche se per fortuna, ho potuto dare la colpa alla citata bottiglia di grappa, che ha continuato a farci compagnia durante la nostra conversazione. L’indomani però mi riprometto di trovarmi a quattr’occhi con il mio blog per passarlo letteralmente al setaccio, ne rileggo avidamente tutti i post passati, lo rigiro e lo rivolto in lungo e in largo, cerco, frugo, rovisto. Trovo talvolta frasi infarcite di doppi sensi, allusioni neanche troppo velate, battute più o meno sottili, alcune al limite del volgare (certo che quando mi ci metto riesco ad essere proprio cretino). Però post che affrontino per intero e direttamente l’argomento “sesso”, non dico in maniera seria (aggettivo che del resto mal si addice alla natura frivola di questo spazio come all’indole del suo autore) ma perlomeno più approfondita o esclusiva neanche l’ombra. Beh, Claudia aveva ragione: non era tanto questo a lasciarmi incredulo e confuso (ok, anche questo, lo ammetto), quanto il non aver mai avvertito l’esigenza di scrivere qualcosa al riguardo. Perché?

Eppure non credo di potermi definire una persona refrattaria alla materia bollente di cui stiamo parlando (e meno male) né, a dire il vero, particolarmente inibito o bacchettone. Non ritengo neanche che il sesso sia, oggigiorno poi, questo insormontabile tabù, anzi, mai come nella nostra epoca vive un momento di così capillare sovraesposizione mediatica, di facile reperibilità su ogni tipo di mezzo (basti pensare al web), di onnipresenza nell’immaginario quotidiano tale da sbucar fuori anche quando non richiesto o non così necessario. Non grido infine allo scandalo di fronte a corpi esibiti ovunque seppur in maniera superflua (semmai posso ammirarne la bellezza o criticarne gli esiti patetici), non mi imbarazzano i commenti o i resoconti di chi ci tiene a divulgare nei dettagli le proprie acrobazie amatorie (che ascolto con lo stesso scetticismo di chi narra la grandezza delle sue prede di pesca), non mi tiro mai indietro neppure dinanzi alle domande più intime, indiscrete o esplicite degli amici (sì Michele, mi riferisco proprio a te). Parlare apertamente di sesso, giocarci su, sottintenderlo maliziosamente alla fine, nella vita, mi diverte e non mi crea alcun tipo di problema: scriverne, ahimè, è tutta un’altra storia. E lo dico da lettore prima che da blogger: perché i numerosi libri, le storie, le migliaia di racconti incentrati sul sesso, sono, nel 90% dei casi, di una noia e di una prevedibilità mortali. Fatta la dovuta eccezione per quei pochi, indiscussi, capolavori, della letteratura erotica e non solo (Anais Nin e Marguerite Duras, tanto per citare i primi di cui, a memoria, rimasi incantato) il resto delle pubblicazioni e dei testi che tentano di far maggiormente presa sul pubblico, a volte con successo, ricorrendo alla narrazione delle avventure passionali (come il fortunato esordio di Melissa P. con i suoi Cento colpi di spazzola, abbandonato dal sottoscritto, vinto dagli sbadigli, a pagina 10) si muovono su un terreno rischiosissimo. Perché, per rendere giustizia con le parole al piacere fisico, bisogna saper evocare piuttosto che fotografare, alimentare fantasia e desiderio senza indugiare nei particolari, perché l’eros vissuto da spettatore e non da attore percorre la strada dell’insinuazione e non del minuzioso realismo. Come potrei mai riuscirci qua sopra? E soprattutto, vi pare che stavolta sia riuscito a scrivere di sesso? Io dico di no.

Provaci ancora prof!

Mi ero ripromesso che non ci sarei mai più cascato. Ero serenamente giunto alla conclusione che non fossi la persona più adatta, che difetto di autorevolezza, di polso, di pazienza, che per appropriarmi del titolo di insegnante non avessi la giusta esperienza, la formazione necessaria, l’adeguato temperamento. Non nego che sia stata un’esperienza magnifica quanto impegnativa: nei due anni che mi hanno visto salire (indegnamente?) in cattedra per una nota scuola di moda ho tenuto sei diversi corsi, mi sono confrontato con decine di studenti appassionati, vulcanici, talvolta diffidenti, mi sono domandato di continuo se avessi davvero qualcosa da trasmettere loro, anche solo quel piccolo consiglio, da fratello maggiore più che da professore, a cui sarebbero potuti ricorrere in futuro. Ricordo ancora il timore della prima lezione: l’aula più grande di quanto mi aspettassi, sessanta allievi già seduti e incuriositi, centoventi orecchie e occhi fissi su di me, su ciò che tentavo di dire, sulla mia voce incerta e cavernosa amplificata dal microfono (che da allora non ho più usato), sul mio nervoso passeggiare su e giù tra loro simulando una calma e una sicurezza mai possedute. Ho avvertito col tempo calare il disagio iniziale, perché letteralmente travolto dall’entusiasmo impetuoso tipico della loro età, dalla loro ansia di crescere, di mettere in discussione ogni singola frase o certezza. Mi sono più volte scontrato con i loro legittimi dubbi, con i loro sottili moti di arroganza o di presunzione, con la loro voglia di urlare al mondo “ci sono anch’io, fatemi spazio!”. Mi infuriavo quando non si impegnavano, mancando di rispetto soprattutto al proprio talento, quando arretravano o si accontentavano di risultati modesti, perché a vent’anni invece bisogna rischiare e non adagiarsi, quando si abbattevano di fronte alla prima delusione, perché nella vita le delusioni sono più utili dei successi. E’ stato divertente sentirsi chiamare “profe” o “prof” anche se non lo sono e mai lo sarò, è stato decisivo attingere dalla loro energia e dalla loro stima per affrontare le difficoltà della mia vita, è stato infine doloroso attraversare la loro esistenza per poi doverne uscire, lasciandoli liberi di cavarsela da soli. Perché vorresti invece continuare a incoraggiarli, sostenerli, proteggerli. E invece no, un bravo insegnante capisce anche quando arriva il momento di farsi da parte. No, non faceva proprio per me, ne ero certo.

E infatti, dopo neanche tre anni, sono già tornato sui miei passi. Mi sono lasciato convincere, tra l’altro nel giro di poche ore, dalle parole lusinghiere e calorose di un’affabile ex – collega, ho messo da parte tutti i precedenti dubbi e i timori sotterranei che il tempo aveva comunque smorzato, ho soprattutto avvertito di nuovo, con chiarezza, la voglia e la necessità di misurarmi con un piccolo uditorio, con l’imprevisto di domande e osservazioni non immaginate, con l’interesse o la noia che le mie lezioni possono ugualmente suscitare. Ho accettato d’istinto, volentieri, senza ripensamenti né riserve, perché questa volta c’è, a dire il vero, una differenza fondamentale: l’età dei miei allievi. Che, un eccesso di politically correct impone di definire over, perché ormai anche i termini “anziani” o “maturi” sono diventati forieri di una sfumatura dispregiativa e dunque inaccettabile. Mentre i miei nuovi studenti, dimostrando molta più saggezza, dignità e autoironia di certe etichette esterofile, nel descriversi si lasciano tranquillamente sfuggire dalle labbra aggettivi come “vecchierelli” o “vecchietti”. Consapevoli naturalmente di non esserlo affatto, soprattutto nei loro slanci di vitalità contagiosa, nel coraggio e nell’umiltà che rivelano mettendosi ancora una volta in discussione, nel desiderio mai sopito di apprendere, di stare tra la gente, di scoprire che esistono sempre milioni di motivazioni valide per andare avanti. Anche quando la vita ti ha beffato con pessimi scherzi, quando ti ha privato del tuo più grande amore, quando ha cominciato a regalarti qualche acciacco di troppo, quando i ricordi e le esperienze accumulate si fanno ormai più numerose delle aspettative. Sulla carta d’identità potrebbero essere tutti benissimo i miei genitori, qualcuno perfino mio nonno; il più delle volte hanno un atteggiamento rispettoso, signorile, oppure materno e protettivo, a tratti al contrario simpaticamente indiscreto, specie quando azzardano qualche quesito impertinente sulle mie origini o sulla mia vita privata. Sono volenterosi, organizzati, instancabili, scrivono pagine e pagine di appunti, intervengono in maniera intelligente e composta, citando fatti d’attualità, personaggi noti, la storia e la letteratura che ricordano dai tempi della scuola. Mi accolgono con la bontà dei loro dolci fatti in casa, mi salutano con altrettanto affettuosi inviti a prendere un tè o un caffè, con il progetto di una pizza o una gita tutti insieme a cui non posso assolutamente mancare. Mi fanno sentire apprezzato, utile, speciale. E anche questa volta sono io ad aver tutto da imparare.

Non dimenticar…

Sento una terribile botta in testa. Sto per perdere l’equilibrio, mi volto, riconosco un manico di scopa, un muretto di sassi irregolari e giallognoli, forse quello che c’è tuttora di fronte casa di mia nonna. Ecco arrivare mia madre, di sicuro mi ha sentito piangere, ha i capelli nascosti da un foulard bianco, coi fiori, trattiene a stento una risata mentre mi ripete “Non ti sei fatto niente”. Poi affondo nel suo abbraccio, con le guance ancora solcate dalle lacrime. E’ il mio primo ricordo, le prime immagini registrate dalla mia testa dopo il nulla più totale. Lo so, non sembra un granché come inizio. Voglio dire, ho sentito milioni di altri racconti più avvincenti o poetici: ho amici e conoscenti che vanno narrando episodi scanditi da sassi lanciati in riva al mare, da soavi ninne nanne sussurrate nei lettini, da canzoncine buffe e allegri girotondi imparati ai tempi dell’asilo. La mia vita comincia invece con l’entusiasmante vicenda di un bernoccolo. Che poi, vallo a sapere, non sarà stato neanche il primo in senso stretto. A dire il vero non ho mai neppure capito contro cosa di preciso sia andato a sbattere. Di certo c’è solo che a ripercorrere il tutto con gli occhi di oggi, potrebbe quasi sembrare una chiara anticipazione di quello che sarei stato in futuro: un imbranato, sin dai primi passi. Pazienza, mi rifarò certamente nella prossima esistenza, quella da disinvolto/supersicurodise’/strafigo (posso aggiungere anche capellone?) in cui mi reincarnerò, vendicandomi di questa prima vita condita da qualche timore, mania, fobia (e calvizie) di troppo. Per fortuna, nonostante l’innumerevole sequenza di altri drammatici capitomboli e tonfi sonori, veri e metaforici, che hanno costellato i miei primi 29 (o giù di lì) anni, devo ammettere di conservare, come tutti, anche una discreta quantità di ricordi altrettanto piacevoli. Fotogrammi non sempre così nitidi, volti che a ritroso nel tempo si fanno a poco a poco più indefiniti, che però compongono quel prezioso e intricato puzzle della memoria, e che troverei a dir poco spaventoso se andasse in parte perduto o se venisse intaccato, anche in un solo singolo tassello.

Eppure, incredibile a dirsi, sono diversi gli studi internazionali che sembrano muoversi in questo senso. Ricerche, di sicuro motivate da nobilissime finalità, ci mancherebbe, che tuttavia, condotte per il momento (e fortunatamente) soltanto sui topi, puntano a manipolare il bagaglio di esperienze immagazzinate nel cervello, a modificare qua e là la memoria, a tagliuzzare o resettare vita passata e background. Insomma, senza girarci troppo intorno, il futuro visionario immaginato da Michel Gondry nel suo celeberrimo Se mi lasci ti cancello non pare più così assurdo né tantomeno lontano: rendere alla portata di tutti la possibilità di rimuovere artificialmente i ricordi. Perché, a voler essere più precisi, il tentativo è proprio quello di mettere a punto farmaci capaci di spazzar via la rievocazione di eventi causa di stress o di forti traumi, in maniera mirata, senza alcun danno collaterale ( http://www.journals.elsevier.com/biological-psychiatry/ http://www.huffingtonpost.it/2013/09/13/cancellare-ricordi_n_3920170.html ). Partendo proprio dalla certezza acquisita che siano i momenti più tragici a imprimersi per sempre nella testa. Tanto per fare un esempio scemo, proprio come quel luogo comune che vorrebbe tutti memori di dove ci si trovasse esattamente l’11 Settembre nel momento degli attentati alle Torri Gemelle. Il mio amore, sempre controcorrente, difatti non lo ricorda. No, non era con me, io ero in fila in segreteria all’Università a consegnare la domanda di tesi (circostanza che, se avvenuta in un altro giorno, avrei rievocato con molto più piacere). Mentre spero che la sua amnesia non sia dovuta all’essersi trovato allora in compagnia di uno dei tanti amanti che le mie fantasie di essere geloso gli hanno nel tempo attribuito. Ma senza divagare sulle tormentate paranoie del blogger e per ritornare all’argomento principale di questo post, trovo sinceramente sconcertante un simile studio. Non tanto per la banale constatazione che il dolore alla fine faccia parte della vita stessa, e il volerlo escludere, anche solo in parte, conduca forse a un’esistenza a metà, falsata, da noioso fotoromanzo. Quanto perché è proprio di fronte all’oscurità improvvisa di certi drammi e alla paura delle tragedie che facciamo i conti soprattutto con noi stessi, che misuriamo le nostre debolezze o più spesso, ci scopriamo inaspettatamente forti, coraggiosi, combattivi. Che ammettiamo, nonostante tutto, di essere più tenaci di quanto avremmo mai potuto pensare. Perfino più tenaci di tutti i nostri ricordi.

Come si cambia

Maddalena ha modi gentili, un sorriso intenso, la stessa voce pacata e melodiosa che ricordavo e che starei ad ascoltare per ore. Di lavoro fa la guida turistica, ci siamo incontrati spesso durante questi miei anni di militanza professionale nei musei, tanto che ormai è sufficiente una sua rapida occhiata per capire al volo se sia il caso di fermarsi a scambiare due chiacchiere o se i visitatori che l’accompagnano siano scocciatori della peggior specie, stranieri frettolosi, nell’uno o nell’altro caso sempre persone poco inclini ad alcun tipo di interruzione. Lorenzo invece non lo vedevo da tempo. Esattamente come allora è rimasto il solito tipo taciturno, riservato, abilissimo nel piazzare la battuta al momento giusto; adesso però ha smesso di fumare, è diventato vegetariano, salutista, notevolmente più magro e da due anni anche padre di una splendida bambina. Maddalena ha invece due piccoli figli maschi, a suo dire dal carattere troppo vivace e impetuoso, forse dimenticando che lei stessa, prima di trasformarsi nella donna mite e garbata che mi siede accanto, è stata una ragazza peperina, con cui era impossibile spuntarla se sfidata in una qualsiasi discussione. Così l’avevo conosciuta, insieme a Lorenzo, tra i banchi di un noiosissimo corso universitario che seguivamo a turno, palleggiandoci la lezione del sabato mattina (perché, diciamocelo, a vent’anni, il sabato mattina è quasi una divinità intoccabile) e che poi decidemmo di preparare insieme all’esame, ritrovandoci per mesi, tutti e tre, alla stessa ora, allo stesso tavolo, nella stessa biblioteca. L’altra sera eravamo di nuovo noi tre, quindici anni dopo, diverso il tavolo, quello di un locale frequentato del centro (“non sarà troppo figo per noi?” “niente è troppo figo per noi!”), diversa l’occasione (“aspetto il terzo figlio” ci ha spiazzato Maddalena “sarà sicuramente maschio” “e più scatenato degli altri”), a brindare e a mangiare (“per me niente alcol” “per me niente carne” “per me stiamo invecchiando male”), a ricordare le bizzarrie di compagni e professori, a tentar di scorgere, nelle nostre parole e nel nostro aspetto, le tracce di ciò che eravamo un tempo e provare a scoprire, al contrario, le differenze con ciò che siamo diventati oggi.

Com’era prevedibile, l’inizio della serata è stato curioso e scoppiettante: avevamo un passato vissuto in comune, da quello siamo ripartiti, tra ricordi, risate e preoccupanti vuoti di memoria (“la bibliotecaria? ma non era un uomo?”) come divertente appiglio per ignorare la consapevolezza di non poter colmare in una sola sera le lacune reciproche sulle nostre attuali esistenze. Abbiamo rievocato il nostro vecchio insegnante, il suo imbarazzante riporto di capelli che partiva dalla nuca per poi snodarsi su tutta la fronte (“e quando veniva in bici?” “gli scendeva come una marmotta sulle spalle” “però, adesso potrei sperimentarlo anch’io”), il suo chiedere ingenuamente “lei, laggiù, mi passerebbe la canna?” intendendo il lungo bastone che giaceva in un angolo dell’aula, deputato ad indicare i dettagli delle immagini proiettate, e non le sigarette amatoriali che in un paio di occasioni gli sono giunte tra le mani. Siamo andati all’avida e scomposta ricerca di indizi e aggiornamenti sui volti, non sempre gli stessi, dei nostri compagni di corso che ricordavamo (“E Tiziana, la pittrice? “E Marco, quello piccolino, studiosissimo?” “E Francesca, la bionda, aveva dato l’esame con noi, che fine avrà fatto?”) ottenendo risposte fumose, talvolta tragicomiche, per non dire surreali (“Ha ereditato da poco l’attività del padre” “Si sarà perso nei meandri della sua stronzaggine” “Insegna capoeira” – “ma è un lavoro?” – “a me ne hanno offerti di peggiori”). Ci siamo fatti coraggio e abbiamo infine acciuffato quella domanda che dai primi minuti del nostro incontro vagava nell’aria e che aspettava solo di prendere corpo sulle labbra di qualcuno di noi: “E se potessimo tornare indietro, rifareste la stessa scelta?” “Io no, meglio insegnare capoeira” “Vuoi una risposta seria? Non c’ho mai pensato”. Era vero. Mai riflettuto su un’ipotetica, seconda possibilità, mai tornato indietro sulle mie, per quanto assurde, decisioni. Anche se sono spesso frutto di ragionamenti avventati, della mia dannata impulsività, di una logica tutt’altro che ineccepibile. Agisco, mi lancio, talvolta cado, spesso sbaglio. E’ andata male, pazienza, ricomincerò, da qualche parte. Semplice, concreto. Senza troppe illusioni, altri dubbi, la briciola di un minimo rimpianto. La prova più evidente che in questi ultimi quindici anni sono cambiato tanto anch’io.

Ansiautunno

Se siete già da tempo lettori di questo blog, andate avanti. Ve lo consiglio, seriamente, saltate a piè pari questa breve introduzione e cominciate dal capitoletto seguente (sempre che riesca a scriverne uno). Il motivo è dei più semplici: qui non troverete nulla che suoni alle vostre orecchie come del tutto nuovo, originale, mai letto prima in qualcuno dei miei post più vecchi. Non solo perché siamo già giunti, prima di quanto pensassi, a superare la bellezza di 100 miei interventi (questa che sta scorrendo sotto i vostri occhi è precisamente la creatura n. 101, proprio come l’arcinota carica disneyana, con la sola differenza che l’unico cane qui potrebbe essere l’autore); cifra che mi costringe, per non trovarmi a ripetere con troppa frequenza le stesse parole, a dover leggere un po’ di tutto, dalle ricette stampate sulle buste dei cibi alle etichette dei prodotti per il bagno (anche se dubito che termini come “liofilizzato”, “emolliente” o “dermatologicamente testato” possano mai tornarmi utili in un eventuale post). Quanto soprattutto perché il sovracitato autore/quadrupede si sta, come immaginerete, già fasciando paranoicamente la testa in attesa della (per lui) più temuta stagione, che solo tra qualche giorno scalzerà le ultimi propaggini estive: l’autunno (no no no, suonerebbe un’azzeccatissima eco). Lo detesto. In ogni suo dettaglio. Non ne sopporto il lento scemare pomeridiano della luce che prelude a sere sempre più lunghe, il progressivo e impietoso affievolirsi della temperatura, il cupo ingiallirsi del mio giardinetto (foto allegata) che a poco a poco si trasforma in un disordinato pavimento di foglie croccanti (e come tale poi rimane per lunghi mesi). Mi irrita l’arrivo inevitabile delle piogge, le gocce che si inseguono formando malinconici rivoli sulle finestre, gli alberi e la frutta rivestiti di toni smorzati. Ma ciò che maggiormente mi inquieta, mi atterisce e mi turba è il suo equivalere al dover trovare (chissà poi dove) nuove energie necessarie per pianificare, organizzare, riprendere in mano tutto l’incompiuto lasciato volutamente alle spalle durante l’estate. Un severo richiamo all’urgenza dei propri doveri, alla disciplina necessaria per gestire tutti gli impegni, alle regole che dovrebbero scandire la vita di un serio ed equilibrato 29enne: insomma, per me che sono pigro, indisciplinato, immaturo (e men che mai 29enne) una vera e propria tortura.

Se avete davvero seguito il mio consiglio iniziale e state cominciando a leggere questo post da qui, vi riassumo cosa vi siete persi: niente. C’è un blogger, brontolone e metereopatico, che si rifuta di dare il benvenuto alla prossima stagione autunnale, perché nel suo immaginario coincide con il dover mettere in ordine e riallestire una vita in cui di ordine ce n’è sempre stato ben poco. A dire il vero anche la mia casa rispecchia il caos e la mia stessa inquietudine settembrina, soprattutto perché, al momento, sto lavorando a dei testi che avrei dovuto consegnare da giorni e che non riesco ancora a concludere. Vivacchio perciò perennemente inchiodato davanti al pc, che raggiungo facendo il dribbling tra pile di libri e riviste da consultare, accampate ovunque nei corridoi, su tavoli, sedie e divani, dei totem cartacei che obbligano gli ospiti a sedersi sul pavimento o li invitano a scattare foto da condividere, con mia somma vergogna, sulle proprie pagine dei social. Ed è proprio mentre posavo lo sguardo su una di queste instabili torrette di volumi, in cerca di nuova ispirazione per i miei scritti, che oggi mi ritrovo gradevolmente spiazzato dall’arrivo, a sorpresa, di un’e.mail da parte di una mia vecchia conoscenza. Una persona che ha condiviso con me momenti importanti, dalla trepidazione dei primi esami all’Università all’incertezza, anche economica, dei primi lavori, e che è stata persino partecipe della mia ultima iscrizione in palestra (esattamente quindici anni fa). Una persona un tempo familiare, e che poi, come spesso succede senza alcuna vera ragione, ho lasciato uscire dalla mia esistenza per superficialità, noncuranza, perché le nostre strade hanno preso direzioni opposte e noi abbiamo permesso che la distanza, la quotidianità, la diversità dei nostri obblighi diventassero una scusa e un muro per non vederci né sentirci per lungo tempo. Fino ad oggi appunto. Quando la sua gradita e.mail ha interrotto il silenzio in cerca di un mio consiglio: che fosse appropriato ad un suo nuovo inizio, al chiudere un capitolo della sua vita per aprirne un altro, al ricominciare, con le sue forze, ad affrontare questo come i prossimi autunni. Ed è stato oggi, che ho capito: per risollevarci, per ripartire, per rimetterci in moto non abbiamo bisogno di progetti dettagliati e di bellicosi piani d’attacco. Abbiamo bisogno di qualcuno pronto a dirci che possiamo farcela.