App – erò!

Se non ci fosse da riderci su, la questione alcune volte potrebbe trasformarsi per me in un vero e proprio dramma. Il fatto è che non conosco affatto mezze misure. Diciamo pure che sono vittima di alcuni meccanismi di natura maniacale che spesso riescono a prendere del tutto il controllo della mia testa, e non facendo io dall’inizio alcun tipo di opposizione, mi lascio tranquillamente guidare ogni volta sul ciglio di circoli viziosi, dall’apparenza innocua, che in breve tempo si trasformano invece in veri e propri tunnel di dipendenza, di cui riconosco la pericolosità troppo tardi, quando ormai vi sono definitivamente annegato. Per fortuna non si tratta (quasi) mai di abitudini poi così nocive o letali: le droghe, ad esempio, non mi hanno mai neanche lontanamente incuriosito, ma non escludo che, se cominciassi, mi troverei sulla strada della più misera perdizione nel giro di dieci, al massimo venti giorni. Ecco, forse è proprio questo il punto: se sperimento una qualsiasi cosa da cui riesco a trarre anche il minimo piacere o divertimento, questa assume immediatamente le sembianze della mia nuova fonte di beatitudine, un’occupazione o una fantasia prediletta in cui mi butto a capofitto tralasciando senza pudore qualsiasi altro impegno o incombenza, un’urgenza e una priorità che non lasciano più spazio ad ulteriori attività. Ed è sempre stato così, sin da bambino: se avvertivo nascere una nuova passione per un argomento studiato a scuola, l’assecondavo fino a conoscerne tutto lo scibile, passando intere giornate sui libri, a sviscerarlo sotto ogni suo aspetto, anche secondario, per saperne di più dei miei stessi insegnanti. Stessa cosa per lo sport (che ho abbandonato anni fa, lasciando libera la natura di compiere il suo passaggio distruttivo sul mio corpo): iscritto a un semplice corso di nuoto, il mese successivo ero in vasca, ogni giorno, anche il sabato, a dimenare bracciate come un forsennato per ore e svariati chilometri. Quando poi mi sono dato alla corsa, ho sfidato quotidianamente strade sconnesse, salite e intemperie, ma non riuscivo a rinunciare neppure di fronte alla follia di un giro in pieno inverno, sotto la pioggia scrosciante, a orari adesso improponibili. Per non parlare del cibo: capacissimo, ancora oggi, di divorare in pochi minuti e senza pentimenti, intere scatole o stecche di cioccolato (meglio se fondente), quando poi decido di mettermi a dieta arrivo a perdere peso al ritmo di 5/6 kg al mese (mai più preso un simile slancio però, neanche ora che ne avrei un gran bisogno). Inutile aggiungere che simili pulsioni, di colpo, vengono poi impunemente abbandonate dal sottoscritto da un giorno all’altro, senza peraltro una vera ragione. Non si tratta ovviamente di tirar fuori un improvviso e salvifico rigore, qualità del tutto assente in questo mente bizzarra, né di forza di volontà, mai posseduta neanche a sprazzi, né tantomeno di self control, risorsa preziosa di cui avrei invece disperata necessità ogni volta che mi sfuggo. Più banalmente, a un certo punto, mi stufo. E ciò che fino a un minuto prima mi appariva così insostituibile o irrinunciabile esaurisce dunque il suo potere magnetico ai miei occhi, i quali di sicuro andranno altrove in cerca di qualcos’altro con cui rimpiazzarlo. Circostanza che al momento aspetto accada con la mia attuale passione culinaria, la marmellata di zucca, che, manco a dirlo, divoro barattolo dopo barattolo, e che mi ha reso di nuovo, come in tutti i casi precedenti, una creatura quasi del tutto monofaga.

Sul podio delle mie recenti ossessioni di questi anni, che almeno non incidono sull’ordine degli acquisti al supermercato o sulle mie drastiche oscillazioni di peso, è salita con sorpresa un’irrefrenabile quanto al momento totalizzante dipendenza da social network e app. Eppure non mi ritengo un essere particolarmente predisposto o dedito in generale al mondo della tecnologia: ho imparato a fatica a far funzionare un pc, a suon di imprecazioni e “fatal error”, e compro un nuovo telefonino solo in caso di necessità, dopo uno smarrimento, un furto o quando di sua iniziativa decide di tuffarsi nella pozzanghera più profonda di tutta la provincia (il tutto ovviamente già accaduto). Ma dal giorno della mia sciagurata iscrizione a Facebook, ad esempio, da cui non sono riuscito a staccarmi più di dieci minuti, anche la notte, per le prime tre settimane, continuo imperterrito a condividere con i miei amici frasi sceme, link musicali e foto di dubbio gusto con un ritmo spasmodico, che ha del preoccupante. Poi è arrivato il momento di Twitter: che mi aveva stimolato con l’illusione di poter conversare o interagire con personaggi noti o che ammiro profondamente, i quali, in tutta risposta, nel migliore dei casi invece mi ignorano, nel peggiore riescono perfino a mortificarmi o massacrarmi in soli 140 caratteri. Capitolo a parte merita la mia ultima mania, lo scambio di messaggini tramite Whatsapp: piattaforma con cui divulgo informazioni basilari (come la lista della spesa o i milioni di inutili emoticon che inoltro al mio amore), oppure tengo monitorata, tramite assillanti richieste di foto, la crescita dei figli dei miei amici, soprattutto vengo sommerso da quel disgraziato di mio cognato da una quantità impressionante di video, spesso hard, che cancello all’istante prima che mi partano a tutto volume in bus o in treno. Con il risultato che ad ogni vibrazione vera o presunta che pare giungermi dalla borsa, arrivo a controllare compulsivamente, ogni sei secondi, il telefono, in attesa di quel simpatico dischetto verde foriero di un qualche nuovo messaggio in arrivo. E adesso che l’app è stata acquistata qualche giorno fa dall’onnipresente Marc Zuckerberg, artefice dello stesso Facebook, per la modica cifra di 19 miliardi di dollari (http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/economia/2014/02/19/Facebook-compra-WhatsApp-19-miliardi-dollari_10109224.html) operazione che l’ha reso, di fatto, il proprietario di tutto ciò che possiedo sul mio cellulare, ad eccezione di agenda, calcolatrice e sveglia, ho come l’impressione che dovrei moderare o  troncare del tutto la mia dipendenza, per evitare di dare in pasto ulteriori dettagli sulla mia vita privata a qualche squalo della comunicazione. Sarà ormai troppo tardi? Anche per iscrivermi di nuovo in piscina?

Dangerously in love?

Nessuno che si sia azzardato a sbilanciarsi ammettendo di averci creduto, anche solo per poche ore, nessuno che abbia voluto dichiararsi così ingenuo, sprovveduto, boccalone (termine che forse non comprenderete tutti, perché molto in auge nella mia Maremma ma difficile da trovare così spesso altrove. Però esiste sul serio, già verificato sul dizionario) da non capire che si sia trattato soltanto dell’ennesima bufala mediatico – sentimentale “tirata sicuramente fuori per fare un po’ di pubblicità a San Valentino, che da quando c’è la crisi non lo considera più nessuno” (interessante teoria sostenuta con fermezza dalla cassiera del mio supermercato di fronte a tre anziane e inorecchite clienti). Però concedetemi di insinuarvi il dubbio: e se fosse semplicemente vero? Non voglio dire che lo sia, so bene quanto voi che il presidente degli Stati Uniti, l’uomo forse più potente e più minacciato al mondo, si trovi già abbastanza costretto a fare i conti con una tale e asfissiante valanga di impegni che il riuscire a includervi anche un’amante, da tenere poi necessariamente ben nascosta alla consorte, alle figlie, ad altre centinaia di persone che si aggirano di continuo alla Casa Bianca, sarebbe un compito più gravoso dell’intera lotta al terrorismo internazionale. Soprattutto se l’amante in questione non fosse stavolta una banale seppur giovane stagista, alla Monica Lewinsky per capirci (e non veniamo a cavillare sul fatto che non sia neppure corretto usare per la signorina Lewinsky la definizione di amante “tout court”. Non è che lei e Clinton trascoressero il tempo nella stanza ovale giocando esattamente a freccette), ma nientepopodimeno che una supersexy e altrettanto celebre, se non di più, popstar mondiale. (Perdonatemi ma qui devo aprire per forza un’altra parentesi su mio padre, che l’altra sera mi ha chiamato appositamente per chiedermi “Ma chi è ‘sta Beyoncé? E’ famosa?” e io “Certo, è quella…” e giù con tutte le indicazioni possibili per fargli focalizzare la fanciulla. “Ah, ho capito”, mi fa dopo venti minuti di spiegazioni dettagliate al telefono “ma non si chiamava Rihanna?”).

Dicevamo: lo strombazzatissimo ed esplosivo gossip, sgonfiatosi poi come un paracadute al suolo nel giro di meno di 24 ore, del presunto, segreto e scottante flirt fra l’attuale presidente Usa Barack Obama e la ex Destiny’s Child Beyoncé Knowles, che ha tirato perfino in ballo autorevoli testate giornalistiche (come il Washington Post, affrettatosi difatti a smentire) e provocato imbarazzanti dietrofront dei suoi assertori (il paparazzo francese Pascal Frontain) per quanto chiaramente inconcepibile, è però riuscito ad eclissare di colpo su qualsiasi sito o social network tutte le altre ben più (importanti e) fondate notizie (http://www.ansa.it/web/notizie/photostory/primopiano/2014/02/10/Scoop-Usa-relazione-Obama-Beyonce_10047355.html). Per un semplice motivo: sarebbe una coppia davvero perfetta. E non fingete di non averci neppure pensato. Sì, d’accordo, c’è il  dettaglio, tutt’altro che trascurabile, che entrambi siano già (pare) felicemente coniugati e peraltro arricchiti di graziosa prole di contorno. Poi, insomma, Michelle è una tipa senza dubbio in gamba, piace (soprattutto alle donne), osa (soprattutto nel look), era inoltre da tempo che una first lady non riusciva ad ottenere un consenso così ampio ed unanime da parte di stampa e cittadini. Mentre Jay – Z, il rapper passato nel 2008 dallo status di storico fidanzato a quello di amorevole maritino della sensualissima Beyoncé, per quanto entrato di diritto nella top ten dei cantanti più famosi e pagati negli States, in quanto ad avvenenza e carisma è sempre rimasto un gradino (ma anche due o tre) dietro alla più affascinante consorte. Obama invece, con quel diretto e bianchissimo sorriso buca-schermi, quei modi così sicuri e disinvolti, quella sottile fierezza tipica di chi è arrivato in alto ma ci tiene ad apparire modesto, sarebbe, almeno come impatto estetico, all’altezza della presupposta e procace amante. Anche perché, diciamocelo, tutti i precedenti (e anche recenti) casi del genere su questo punto mostravano sempre un evidente squilibrio di immagine a svantaggio, ahimè, della parte maschile; cominciando proprio dall’algida Carla Bruni, che forse non eccellerà in simpatia, ma, anche se adesso sospettosamente ritoccata, non si può negare superi nettamente in bellezza (e in altezza) il marito, l’ex – presidente francese Nicolas Sarkozy. Per non parlare poi di François Hollande, attualmente in carica all’Eliseo, che sembrava sparito dalle pagine dei nostri giornali fino a quando la stampa scandalistica ne ha intercettato la relazione clandestina con l’attrice Julie Gayet (più giovane di 18 anni e naturalmente incantevole) a scapito della compagna Valérie Trierweiler (per la quale aveva lasciato, dopo 30 anni e 4 figli, Ségolène Royal. Un recidivo). So che non sarebbe sufficiente questa congettura superficiale per avvalorare l’eventuale relazione tra Obama e Beyoncé, che suona assurda almeno quanto un flirt casereccio tra il nostro Napolitano e Orietta Berti. Ma assurdo per assurdo: proprio in questi giorni Hollande è in visita ufficiale alla Casa Bianca, sicuri che sia soltanto una coincidenza?

Nonsoloblogger…

Non è una caratteristica particolarmente edificante, e farei di sicuro una figura migliore a non parlarne affatto. Ma dato che spesso sono già uscito allo scoperto qua sopra raccontandovi (gran parte de)i miei difetti, che il lunedì grigio e l’umore di una tonalità del tutto simile non mi sono di aiuto nella riuscita di un incipit come si deve, comincerò rivelando  onestamente quello che è il mio rapporto con la lettura. Un disastro. Per quanto non riuscirei a tollerare la mia esistenza se privata della scrittura, per quanto le parole rimarranno in eterno la mia passione e la mia dannazione, per quanto vada considerando da quasi 15 anni quello di fashion contributor (che detta così fa fighissimo, a dispetto di una ben più squallida realtà) per alcune redazioni, a volte anche prestigiose, il mio principale lavoro (e calerei un pietoso velo su tutti le altre professioni che nel tempo mi hanno permesso di pagare affitti e bollette), non sono e non potrò mai essere un buon lettore. E’ sempre stato così, sin dai tempi della scuola, da quando la mia prof di italiano al ginnasio (di nome Lolita, in contrasto con un’immagine e un’età tutt’altro che da ninfetta) mortificava le mie aspirazioni adolescenziali di scrittore schiaffando sistematicamente un’insufficienza ai miei temi e aggiungendo, con un pizzico di perfidia, “Ti prendi troppe libertà. Leggi di più, i classici soprattutto. Guarda lì come bisogna scrivere”. Ma, insofferente già da allora a certe imposizioni e incapace di appassionarmi a ciò che avvertivo come distante dalla mia realtà di sedicenne (e Manzoni o Carducci lo erano abbastanza), ho sempre finito per abbandonare, in genere dopo poche pagine, quei testi, seppur importantissimi (ci mancherebbe), consigliati a scuola, in favore di letture che Lolita non avrebbe mai approvato (le riviste di moda, ad esempio). Riassumendo, ancora oggi, pur riconoscendo il valore di un buon libro, di un pilastro della letteratura o di un semplice bestseller, impiego a volte perfino mesi a scovare un volume che riesca davvero a concludere, mentre rimango un consumatore avido di magazine e giornali, che conservo disseminati in pile sbilenche, sparse ovunque per casa, dal bagno alla dispensa, e che vado consolando da anni con frasi del tipo “non temete, vi troverò una sistemazione adeguata, è una promessa!”.

E’ stato proprio grazie a questa, forse insana, mania, che circa tre anni fa faccio la conoscenza di una nuova rubrica, pubblicata su di un noto settimanale (uno dei più noti, peraltro) tenuta da una giornalista che nasconde, nella foto, parte del volto dietro un notebook aperto e la sua identità dietro il buffo nickname di Elasti. Una folgorazione. Rimango subito colpito dall’ironia del suo stile, dal suo lessico accessibile eppure ricco, dalla particolare sensibilità che traspare in ogni sua singola parola. Devo saperne di più: indago, cerco in rete, scopro che Elasti (al secolo Claudia de Lillo) è da qualche tempo l’autrice di un blog seguitissimo, nonsolomamma (http://www.nonsolomamma.com/), in cui narra le prodezze quotidiane della sua vita rocambolesca divisa tra tre piccoli figli maschi, un marito economista marxista “pendolare” a Londra e un lavoro di giornalista finanziaria part – time. A quel punto credo di non aver fatto altro, per una decina di giorni, che rileggermi per intero il suo blog, dal principio, giorno e notte; come ho continuato a fare, da quel momento, ogni mattina. Perché non rientrerò esattamente nei canoni del suo pubblico (composto principalmente da donne e mamme), ma c’è qualcosa di così attraente nei suoi post, la capacità di dar voce a certi meccanismi umani universali innanzitutto, di descrivere con esattezza certi grovigli emotivi, di porre e di porsi con insolito coraggio certe domande, così piacevole inoltre, singolare, commovente, che attraversare il suo blog è un’altalena di sensazioni da consigliare a chiunque. Solo due giorni fa, finalmente, il nostro primo incontro di persona: dal suo account Twitter, in cui la seguo con l’assiduità dello stalker, scopro che Elasti sarà a Campi Bisenzio, vicino Firenze, per l’inaugurazione di un circolo ricreativo culturale, il Porto delle Storie, (http://www.portodellestorie.it/). Butto all’aria i programmi già fatti da tempo per il week-end, obbligo il mio amore a seguirmi cercando il posto dove è previsto il suo intervento e dove arriviamo con mezz’ora di anticipo (“perché con me sei sempre in ritardo?” mi chiede difatti la mia dolce metà). Elasti è già lì. Minuta, sorridente, gli occhi enormi pieni di riflessi come solo nei vecchi cartoni animati giapponesi tipo Candy Candy. Vinco le mie resistenze di ex – timido, le vado incontro, mi presento, la saluto, lei ricambia con il calore di una vecchia amica che non vedo da tempo. Parliamo fitto per alcuni minuti, delle nostre famiglie, di lavoro, dei nostri progetti, anche di quelli zompati per il week-end. Ogni sua frase conferma le qualità già dimostrate nel suo blog: quelle di una persona umile, spiritosa, di talento. Tutto ciò che ogni blogger vorrebbe e dovrebbe essere.

Passioni in estinzione

Lo spunto, come già in passato per alcuni miei post, me l’ha fornito quella meravigliosa e insolente creatura che è mia nipote Giulia, quasi tre anni e una lingua che si è improvvisamente sciolta in frasi da fiabe d’altri tempi e un po’ direttive, del tipo “non tornare tardi, non tornare buio, non passare bosco!”. E se mai vi sfiorasse il dubbio che l’ultimo consiglio, quello relativo cioè al bosco, sia esclusivamente frutto di una fantasia visionaria, tipica alla sua età, o di una fascinazione improvvisa per Cappuccetto Rosso, la colpa in realtà risiede in parte nel suo credersi con fermezza l’incarnazione di Robin Hood, in parte nel suo abitare sul serio, secondo una poetica quanto scomoda scelta di mia sorella, semi-circondata da un vero bosco, dove, per raggiungerla, solo in questi ultimi mesi ho evitato di investire con l’auto tre caprioli, un cinghiale, un istrice, un fagiano (per il rospo saltato in mezzo alla strada all’ultimo minuto, invece, non c’è stato purtroppo niente da fare). Dicevo, mia nipote, oltre a quell’indiscusso potere diffuso tra i bambini di trasformare i propri nonni da persone autorevoli in esseri quasi ridicoli (per esempio, l’altro giorno ho beccato mio padre, in genere serissimo, travestito da pirata, con tanto di benda sull’occhio, mestolo di legno a mo’ di spada e custodia del rum spacciata per scrigno del tesoro), ha la consuetudine di uscire sempre di casa (attraverso il bosco, appunto) con qualcosa di diverso ben stretto tra le mani, un qualsiasi oggetto, un giocattolo, un regalo, che per tutta la giornata poi non abbandona mai, eleggendolo a compagno prescelto e inseparabile per le sue ore all’aperto. Al di là dell’assenza di un criterio nella designazione del “favorito del giorno”, che può essere indifferentemente un tubetto di dentifricio, un panetto colorato di Didò, una scarpa di una bambola o l’arco di Robin Hood (modellato, manco a dirlo, da mio padre in persona), quello che mi stupisce ogni volta è il suo trascinarsi con cura ovunque vada il  momentaneo prediletto, senza necessariamente coinvolgerlo nei suoi giochi, quasi fosse tranquillizzata, rassicurata, dalla sua sola presenza, dalla consapevolezza di poterlo avere sempre con sé.

E noi adulti? (vorrei sottolineare che nonostante l’evidente immaturità del soggetto mi sarei inserito anch’io nella categoria, ma solo per motivi anagrafici). Mi chiedevo: avvertiamo ancora anche noi lo stesso bisogno di affidarci alle cose, di vedere l’indispensabile nell’inutile, di rifugiarci dietro una nostra copertina di Linus (senza il dito in bocca, spero), o gli anni che passano ci lasciano indifferenti al valore protettivo, consolatorio, scaramantico, degli oggetti? Beh, sarà per la mia, più volte dichiarata, stramba personalità, incline al maniacale, o per un conclamato difetto genetico che mia nipote al momento dimostra ma che mi auguro le svanisca in futuro, fatto sta che devo ammettere di possedere anch’io un caro e irrinunciabile oggetto, senza il quale mi sentirei nudo: la mia agendina. Una piccola e classica agenda cartacea, che all’inizio di ogni anno scelgo con attenzione, nel colore (che può variare dal rosso all’arancio, ma insomma deve essere sempre caldo), e nella forma (la solita, tascabile, così da poter inserire la vecchia lista di numeri di telefono scrupolosamente ricopiati negli anni, dopo che un dannoso furto di cellulare mi ha privato di colpo di qualcosa come 300 contatti). Che per me è molto di più di un banale supporto mnemonico dove annotare quotidianamente appuntamenti e scadenze, anniversari e compleanni, oscillazione di peso (ultimamente in ascesa) e cambio di password, ma un necessario strumento di pianificazione della mia vita, la fonte dell’illusione di un’esistenza organizzata e disciplinata a dovere. Non mi separo da lei neanche quando passo di stanza in stanza in casa, la poggio sul comodino ogni sera prima di spegnere la luce e la riapro appena sveglio il mattino seguente, la sfodero come un’arma in treno o in bus per annotare le parole che mi colpiscono nelle conversazioni altrui, sicuro che in futuro mi torneranno utili in qualche modo. “Cosa ci scriverai mai?” mi prendono spesso in giro amici e colleghi (che nei miei anni professionali a Roma mi avevano appunto ribattezzato “agendina”, per sottolineare anche la mia “g” debole toscana): ma io, indifferente alla sua fama di oggetto preistorico o inutile, perché soppiantato dall’avvento della tecnologia (http://www.ilgiornale.it/news/interni/2014-vecchia-agenda-addio-979642.html) continuo imperterrito nella mia passione. Irrazionale e incomprensibile, forse. Come un vecchio amore, impossibile da sostituire.

La prima candelina

“Sembra soltanto ieri” non mi pare l’incipit adeguato. Innanzitutto perché sarebbe di un’evidente e mostruosa banalità, caratteristica che in questo primo anno da blogger ho cercato di rifuggire il più possibile (non sempre riuscendoci, a dire il vero). In secondo luogo perché, dal 19 Dicembre 2012, data memorabile che ha visto nascere questo personalissimo e strampalato progetto, a me non sembra affatto trascorso soltanto un giorno, ma una vita intera. Anzi, vi dirò di più, a volte ho l’impressione che nella mia vita recente non abbia fatto altro: perché scrivere qui sopra per dodici lunghi mesi (con una frequenza bislacca, lo so, alternata a brevi fughe e momenti di piattezza) affidare ai miei primi 120 post (120 esatti) i pensieri, le emozioni e le vicende più varie e bizzarre succedutesi in questo anno, trovare il tempo di leggere e commentare (e apprezzare) le vostre risposte, è diventato molto di più che un piacevole appuntamento, un vero e proprio impegno continuo e gratificante, quasi un chiodo fisso. E sono io il primo a sorprendermi di aver resistito un anno, perché da persona incostante, discontinua nelle proprie passioni, perennemente di corsa dietro a fuochi di paglia, avevo aperto questo spazio online senza pensare minimamente quanto e come sarei andato avanti, se avrei trovato lo stimolo e le energie per farlo, se la delusione, la pigrizia, il tran tran quotidiano avrebbero definitivamente arrestato la mie velleità di tuttologo da strapazzo. Fatto sta che non è successo (e non saprei dire se sia un bene o male) e oggi, a 365 giorni esatti dalla pubblicazione di quel primo post che avevo scritto in pochi minuti e che aveva già caratterizzato come insensata valvola di sfogo il volto del mio blog, rimango deciso più che mai a proseguire. Merito (o colpa, se vogliamo) dei quasi 11.000 diversi utenti che hanno deciso, spinti chissà da quale discutibile impulso, di seguire, più o meno costantemente, i miei sproloqui virtuali e le mie, assai frivole, considerazioni: una folla affezionata ed eterogenea (a tratti masochista), un numero esorbitante di lettori che un anno fa non avrei neanche lontanamente immaginato di raggiungere, e che ci tengo a ringraziare con tutto il cuore (e che da oggi può continuare anche a seguirmi sul mio nuovo account Twitter, @AleTempiGuasti, sempre che riesca a capire come funzioni).

Permettetemi perciò ancora di annoiarvi con degli ulteriori, doverosi, ringraziamenti. Grazie al mio pazientissimo amore, che si irrita solo a sentirsi definirsi tale su questo blog e che troppo spesso, a suo avviso, chiamo in causa nei miei racconti (e che si è degnato di manifestarsi solo in un paio di striminziti commenti). Grazie alla mia famiglia, i miei genitori e mia sorella, che mi offrono di frequente, inconsapevolmente, materiale prezioso a cui attingere per il contenuto dei miei post. Grazie a Valentina, insostituibile e fondamentale supporto tecnico nella gestione pratica di questo blog, con cui troppe volte mi sono scontrato. Grazie a Carla e massiva006, i miei commentatori più fedeli, che, ci tengo a chiarire, non ricevono alcun compenso per l’assiduità dei loro interventi. Grazie a Giuseppe che mi scrive subito dopo la pubblicazione di ogni post segnalandomi errori (anche grammaticali) e refusi e mi evita così la figuraccia dell’ignorante. Grazie a Claudia, che è comparsa in ben tre dei miei diversi pezzi, sintomo preoccupante che la nostra frequentazione sia diventata un’amicizia a tutti gli effetti. Grazie a Serena, Loredana, Giulia, Annarita e Sara, che condividono con una rapidità da guinness i link del mio blog che vado spargendo come volantini su ogni social a cui sono iscritto. Grazie a Silvia, alias lascottotour, che è l’unica a cui abbia censurato alcuni commenti (e sai bene il perché). Grazie ad Andrea, che sua moglie Chiara obbliga a leggere questa pagina ad ogni nuovo aggiornamento (anzi, forse sarebbe meglio ringraziare Chiara). Grazie a Caterina, che costringe i suoi studenti (in cambio di qualcosa?) a votarmi nel concorso di Grazia.it a cui sono iscritto. Grazie ad Ilaria, che quando va in vacanza, senza avere internet, si stampa in anticipo i miei post per poi poterli leggere in tranquillità (no, dico, ti rendi conto?). Grazie ad Antonino, che tenta, invano, di convincermi a girare dei video, perché nei miei scritti teme che io possa apparire più presuntuoso che nella realtà. Grazie a Gabriella, a cui va il premio “reazione inaspettata” per aver un giorno voltato le spalle e abbandonato il pc dopo la lettura di un mio post. Grazie a Martina, che so esporsi con difficoltà qui sopra, ma che non rinuncia comunque a farlo. Grazie a Chiara, Simona e Paola per i loro complimenti e le loro affettuose e.mail. Grazie a Roberto, che avevo salutato con la promessa che avremmo prima o poi collaborato, ma che l’impegno, sempre crescente, di questo blog, ce l’ha, al momento, impedito. Grazie ad Adriana, Daniele, Elena, Eleonora, Enrica, Fabiana, France, Fruffrù, Monica, Raffaele, Stefano, Viola e tutti gli altri miei commentatori, qualcuno dei quali avrò sicuramente dimenticato e che qui sotto scriverà furibondo “non m’hai ringraziato!”. Grazie a quanti, durante tutto quest’anno, ho conosciuto, incontrato, rivisto e sono diventati, loro malgrado, fonte d’ispirazione per i miei post.

Grazie infine a tutti coloro che non conosco personalmente e che comunque hanno avuto il fegato di transitare in questi mesi sul mio blog. Grazie al mio fedele lettore americano che riesce sempre per primo a cliccare il “mi piace” di Facebook (potrei sapere almeno chi sei?). Grazie al mio utente israeliano che con la sua costante presenza ha fatto sì che il suo paese risultasse tra i più attivi nella classifica internazionale. Grazie a chi ogni giorno compare, in maniera anonima, e che giustamente, ci tiene a tenere nascosta la propria identità (venisse scoperto a leggere questi pezzi, sai che vergogna). Grazie ai due hacker che sono riusciti a intrufolarsi nella pagina di gestione, senza creare danni per fortuna, e che mi hanno obbligato a scegliere una password così complicata, che perfino io talvolta non riesco ad accedere al mio stesso blog. Grazie a chi è capitato per sbaglio perché cercava altro su un motore di ricerca, come “pareri autorevoli sugli abiti firmati” (chissà che delusione una volta giunto qui), “ridare vita a un maglione infeltrito” (suggerimenti utili?) oppure, ed è la mia preferita, “escort specializzate in anziani” (esistono sul serio?). Grazie, grazie a tutti voi, perché è solo grazie a voi, che i Tempi Guasti, (purtroppo?) continuano.