Le faremo sapere

Può succedere a chiunque, in qualsiasi momento della vita. Che siate giovanissimi o 29enni bugiardi e recidivi, come me, che abbiate una preparazione formidabile e competenze assai richieste o un’affascinante quanto inutile laurea in storia del costume, come la mia, lasciata a marcire in qualche cassetto della segreteria dell’Università. Che siate poco abituati agli scossoni professionali e a rimettervi in gioco ogni due, tre anni o ormai rassegnati, al pari del sottoscritto, a cercare di far fronte alle spese quotidiane con spericolati equilibrismi che richiederebbero il dono dell’ubiquità. Può succedere a chiunque, dicevo, di trovarsi improvvisamente o di nuovo senza più un lavoro e di doversi rimettere a capo chino a cercare un altro posto o un altro impiego, una sfida che può diventare ogni volta più sfiancante e temibile della precedente. Esattamente quello che sto vivendo io da qualche mese, da quando, dopo aver rifiutato con un moto di orgoglio e di incoscienza, un gratificante ma sottopagato incarico professionale svolto negli ultimi tempi, ho ricominciato a inondare il web di curriculum e proposte di collaborazione, migliaia, a cui sono arrivate risposte (poche) più o meno incoraggianti. Quella che segue è perciò la sintesi semiseria, in forma di dialogo, degli strampalati ma reali incontri con i vari personaggi che hanno dimostrato un minimo d’interesse alla mia nuova e coraggiosa richiesta di un lavoro. Buon divertimento:

- Responsabile comunicazione azienda di moda: “Sarò sincero, è difficile inquadrarla all’interno di un’azienda, ha avuto tante esperienze così diverse. Il suo curriculum sì, è piuttosto interessante, però è, come dire…” “Eclettico? (boh, gli butto lì un aggettivo, magari gli è di aiuto!)” “Sì, eclettico, stavo quasi per dire schizofrenico, ma eclettico può andare. Ecco, e lei lo è?” “Schizofrenico? (ma che gli sembro matto?)” “Intendevo dire eclettico” “Ah, scusi, non avevo capito (e niente, con questo tizio non c’è proprio feeling)”.

- Responsabile comunicazione azienda di moda 2: “E mi dica, Alessandro è più veloce o più preciso?” “(ma ora perché parla di me in terza persona? e che razza di domanda è? Di sicuro è un trabocchetto, proviamo a pensarci un attimo. Però ci sto impiegando troppo tempo a rispondere, non posso mica più dirgli “veloce”, sembra quasi lo prenda in giro) Beh, direi più preciso!” “Ok, però si ricordi che anche la tempestività è importante nella comunicazione!” “Quindi avrei dovuto rispondere veloce? (lo sapevo, era un trabocchetto).

- Responsabile progetti digitali agenzia eventi: “Le va di parlarmi dei suoi genitori?” “(e questa poi? mica sarò finito, senza saperlo, dallo psicoanalista? Qui c’è qualcosa che mi puzza, proviamo prima a tastare un po’ il terreno) Certo. Potrei solo sapere, per curiosità, perché me lo sta chiedendo?” “Serve per valutare la sua reazione emotiva. Un’altra candidata, per esempio, alla stessa domanda mi è scoppiata in lacrime” “Ah, capisco (oddio, mica tanto). Ma non si preoccupi, non è mai successo che abbia pianto parlando dei miei. Forse, di questi tempi, è più probabile il contrario. Ma dovrebbe chiedere a loro!

- Agenzia di lavoro interinale: “Vedo dal suo cv che la sua conoscenza dell’inglese è ad un buon livello. Al punto che potremmo continuare questa nostra conversazione in inglese?” “Beh, sì, se vuole (capirai, fino adesso abbiamo parlato solo delle stranezze del tempo e di quanto faccia caldo oggi)!” “Ah, no, si tratta di una semplice domanda di routine. Si figuri, io poi ho studiato francese!” “Quindi la sua valutazione del mio livello d’inglese è, diciamo così, basata sulla fiducia? (averlo saputo prima mi sarei spacciato per madrelingua!).

- Agenzia di lavoro interinale 2: “Però, ha lavorato anche in tv. Ma non mi sembra di averla mai vista! “(Eh? Ho capito male. Cioè, sta pensando sul serio che comparissi davanti alle telecamere? E chi mi crede, Gerry Scotti?) Ecco, vede, lavoravo in una redazione tv. Significa che scrivevo testi e curavo dei pezzi per una piccola trasmissione, ma dietro le quinte, diciamo” “Ah, sì, infatti nel suo curriculum ha messo “redattore” “Appunto. Era quello che facevo. Sennò avrei scritto “conduttore” (o valletta. Questa però è scema forte).

- Addetto comunicazione casa di produzione (via e.mail). “Gentile dott. Guasti, avremmo bisogno, per fissare un colloquio conoscitivo, anche di un suo curriculum più “motivazionale” (scritto proprio così, tra virgolette). Ad esempio, cosa l’ha spinta a cercare una collaborazione qua da noi”. “Gentile dott. Vattelappesca, direi innanzitutto la mia voglia di misurarmi in un ambiente di lavoro stimolante, la curiosità verso un’azienda qualificata come la vostra…(e giù un’intera e.mail di salamelecchi e false carinerie)”. La data del colloquio ovviamente non è mai più stata fissata. Colpa mia: forse avrei dovuto allegare anche l’ultima bolletta del gas da 634 euro. Sarebbe sembrata di certo più “motivazionale”.

- Titolare studio comunicazione (via e.mail): “Gentile dott. Guasti, potrei incontrarla per un colloquio conoscitivo appena avremo terminato i lavori per un nostro cambio di sede. Mi ricontatti alla fine del mese”. Dopo un mese “potremmo fissare un giorno al mio rientro dalle ferie. Mi chiami tra due settimane”. Dopo altre due settimane “Mi dispiace, ma ho avuto un piccolo infortunio alla gamba, non so dirle quando potremmo incontrarci”. Ora, non so se quell’infortunio sia vero. Posso dire che da una parte me lo auguro tanto?

- Titolare ufficio stampa: “Leggo qui che ha anche un blog. E di cosa scrive?” “E’ solo un piccolo progetto personale, mi diverto a scriverci un po’ di tutto, di moda, di costume, delle varie notizie che mi colpiscono e della mia vita privata. Scrivo tante cretinate, soprattutto” “Ah. Immagino che lo utilizzerà anche per togliersi qualche sassolino dalle scarpe” “In realtà no, finora non è mai successo. Però lo sa che mi ha appena dato un’ottima idea?”

Le mille bolle blu

Dopo aver attentamente seguito con i suoi fratelli, dall’alto della cancellata che sovrasta il parcheggio, quelle due o tre manovre svogliate e audaci con cui finisco per posteggiare l’auto sempre e solo dal lato sinistro (d’altronde soltanto così mi riesce), il primo a rivolgermi la parola è Davide, 7 anni, occhi enormi e indagatori, i capelli venati di un simpatico colore rosso, proprio come il manto di certi scoiattoli che talvolta si vedono scendere giù dagli alberi. “Me lo dici come ti chiami?” gli faccio io subito dopo averlo raggiunto, ricambiando quel suo sguardo liquido e dubbioso, ed eccolo finalmente allargarsi in un primo, disarmante sorriso, per rispondere con prontezza inaspettata alla mia domanda “No!”. Appunto. “Lui è Mister No!” esordisce d’un tratto Giancarlo, un anno più piccolo, stessa aria svelta e furba del fratello, di chi ha imparato troppo presto a cavarsela da solo, mascherata però da un aspetto più mite e angelico, corredato di capigliatura biondissima ed occhi chiari e scintillanti. “Io mi chiamo Renata” aggiunge infine, con una dolcezza irresistibile, l’unica femminuccia del gruppo, sorella di entrambi e gemella di Giancarlo, come conferma l’identico sguardo luminoso e felino, incorniciato da un viso lievemente più paffuto, su cui svetta un piccolo tocco di civetteria, un minuscolo fermaglio a scostare dalla fronte qualche ciuffo di capelli. La temuta fase di presentazione, penso io, è andata meglio del previsto: tenuto a bada quel capriccioso groviglio di emozioni, causa di improvvise e inarrestabili lacrime che spesso si affacciano nei momenti meno opportuni, faccio finalmente la conoscenza della nuova, numerosa e scoppiettante, formazione familiare dei miei amici Silvia e Marco. Tra le pochissime e insostituibili persone su cui posso fortunatamente contare nella vita, di quelle che potresti svegliare nel cuore della notte certo che accorrerebbero senza porsi troppe domande, Silvia è senza dubbio la più indipendente, la più imprevedibile, quella dotata di una risata così fragorosa e coinvolgente da riuscire a trascinare chiunque in ore e ore di singhiozzi incontrollabili e divertiti. “Ho conosciuto un uomo interessante” mi confessò all’improvviso una sera d’inverno di qualche anno fa, lei che non aveva mai apertamente incluso la vita di coppia tra le sue priorità, “E? Dimmi di più!” la incalzai, “Beh, è riservato, ironico, molto piacevole…forse brutto!” “Brutto? Come brutto? Tipo Danny de Vito?” “Direi più Giancarlo Magalli!”. Ovviamente Marco, quell’uomo speciale di cui Silvia era rimasta allora così colpita, non assomiglia neanche lontanamente (e per fortuna) al nostro Magalli. Ovviamente, dopo poco più di un anno da quell’episodio, mi ritrovai piuttosto brillo e forse ancora incredulo a brindare al loro felice matrimonio.

Qualche mese fa, con la stessa consueta naturalezza con cui pochi minuti prima a tavola, durante una delle loro superbe e ipercaloriche cene che spesso preparano per me e il mio amore, ci avevano rivolto frasi cordiali del tipo “Prendi pure dell’altro arrosto. Vuoi ancora un po’ di vino?” Silvia e Marco ci confidarono, quasi all’unisono, dopo un breve sospiro: “Abbiamo deciso di adottare dei bambini!”. Silenzio. Stupore. Stavolta piango. “Bambini? Plurale? Più d’uno, quindi?” riuscii, non so come, a balbettare. “Sì, tre!”. Di nuovo silenzio. E mille parole saltar fuori all’improvviso e rincorrersi tra le pareti della testa. Coraggio. Incoscienza. Attesa. Follia. Amore. Soprattutto amore. Perché non credo esista un’altra e più plausibile ragione che possa spingerti ad affrontare mesi, forse anni, di lungaggini e asperità burocratiche, di continue e concrete speranze spesso rinviate o disattese, di momenti stancanti e precipitosi in cui sei chiamato a rivoluzionare tutta la tua vita per far spazio alle esigenze affettive e materiali di chi d’ora in poi diventerà tuo figlio. E poi tutte le domande, i dubbi, le paure talvolta paralizzanti con cui chi si appresta a diventare genitore deve fare necessariamente i conti, complicate da quel periodo delicatissimo e imprescindibile di contatto, conoscenza e confidenza da dover consolidare in un lungo soggiorno nel paese d’origine dei bambini, spesso uno Stato lontano, di cui è facile ignorare la lingua come le abitudini più elementari. “Stanca? No, perché?” fu la risposta immediata e serena di Silvia, contattata via Skype la prima volta, in una situazione che avrebbe fiaccato chiunque alla sola vista, i tre bambini a scorrazzare su e giù per casa e a salirle in braccio a turno, di sottofondo un escalation di richieste alla rinfusa, immancabilmente concluse con un emozionante coro di “mamma, mamma”! “Sono bellissimi, gioviali, ubbidienti e impazziscono per le bolle di sapone” fece inoltre in tempo ad aggiungere: un’informazione importante a cui sono ricorso per il mio primo regalo, tre coloratissime pistole sparabolle a pile, corredate di tre lacci per maxi-bolle, più una buona scorta di sapone. Risultato: dopo solo venti minuti dal nostro primo incontro, Davide, Giancarlo e Renata non solo avevano i capelli fradici, le mani tremendamente appiccicose e gli abiti pieni di aloni ma avevano soprattutto sepolto il giardino di casa sotto un infinito e surreale tappeto di bolle. “La prossima volta cerca di presentarti con un peluche” mi fa Silvia con un sorrisino sarcastico, incrociando complice lo sguardo di Marco in un puro momento di felicità. Perché diventare genitori è sempre un’esperienza speciale: in qualche caso, semplicemente, un po’ di più.

Saldi subito!

“Chiedo a lei?” mi domanda, senza un filo di cortesia, dopo essermi giunta in silenzio alle spalle, come in un agguato bellico, una biondissima signora più appariscente che elegante, troppo botox sul viso e troppe sigarette nella voce, entrata d’improvviso nel negozio dove mi trovavo, accompagnata a poca distanza dal marito visibilmente rassegnato, la cui espressione spenta tradiva con chiarezza il desiderio di essere ovunque, tranne che lì. “No, mi spiace”, replico io un po’ imbarazzato, cercando nel frattempo con gli occhi la commessa che avevo intravisto poco prima e che forse era riuscita miracolosamente a squagliarsela o a svanire nel nulla a dispetto di tutto l’inferno di persone là intorno, “non lavoro qua”. “Ma se stava piegando tutte quelle magliette!” incalza di nuovo la tenace signora, direi poco convinta dalla mia risposta, tentando inoltre l’epica impresa di aggrottare la fronte senza però piegare alcun muscolo facciale (“a me sarebbe già sbucato un solco profondo come un canyon”, pensai), e congedandosi subito dopo con un “bah” di stupore, ancora in preda però ai suoi legittimi dubbi, tutt’altro che placati dal mio fiacco “Ehm, si lo so…ma vede, ce l’ho di vizio”. Il fatto, più drammatico che buffo se vogliamo, è che davvero, tra le mie mille stramberie e pulsioni maniacali, annovero anche una sorta di intolleranza visiva agli oggetti ammassati alla rinfusa o temporaneamente vacanti dal proprio posto, e così, per placare quest’illogica, sgradevole, sensazione e forse bilanciare il mio assiduo disordine interiore, provo almeno ad arginare come posso quello esteriore, riposizionando nel modo giusto tutto ciò che mi sembra finito fuori da un più naturale e prestabilito schema. Ed è ciò che mi succede ad esempio al supermercato, quando abbandono il mio amore in fila al banco della gastronomia, sotto il suo sguardo comprensibilmente sgomento, per andare a riallineare quei cinque o sei flaconi di detersivo rimasti secondo me troppo indietro o per riportare di nuovo accanto ai suoi simili quella povera confezione di patatine abbandonata sullo scaffale sbagliato. Inutile aggiungere come anche tra le mura di casa lo stesso bislacco e rigido sistema venga dal sottoscritto applicato indifferentemente ad oggetti di ogni tipo, piatti, bottiglie, saponi per il bagno, libri (rigorosamente divisi tra l’altro per argomento e altezza su diverse mensole), camicie e t-shirt (radunate invece per modello e colore), decine di calzini e biancheria intima, perfino lenzuola ed asciugamani. Pensate quindi che cosa significhi per la mia testa stramba doversi aggirare nell’insostenibile caos di milioni di capi spostati e maltrattati da orde di acquirenti che assaltano i negozi di abbigliamento durante i saldi: un’infinita, continua, martellante tortura.

Se a tutto questo si aggiunge inoltre la mia più totale e pressoché inspiegabile indifferenza al piacere personale dello shopping, a dispetto dei quasi 15 anni professionali spesi ad occuparmi esclusivamente di moda in varie redazioni, showroom, scuole e musei, vi sarà forse più chiaro quanto mi atterrisca e mi getti nello sconforto l’urgente necessità di rinnovare il mio guardaroba a causa di un lieve (e sottolineo lieve) ingrassamento e di una serie di appuntamenti più o meno eleganti e mondani in programma. Perché, per quanto mi diverta e mi mandi in fibrillazione l’ipotesi di andare in cerca dell’abito o dell’accessorio più adatto per qualche parente, collega, amico/a da accompagnare nei suoi acquisti e da sommergere di consigli e di dritte in materia, quando si tratta della mia stessa pelle perdo invece di smalto e di obiettività. Dover scovare, provare, comprare vestiti è in altre parole la mia sola, annichilente kryptonite: difficilmente mi vedo qualcosa bene addosso, m’innamoro di capi che una volta in camerino si trasformano in drammatici sbagli o profonde umiliazioni, di rado azzardo qualche follia (di cui poi mi pento all’istante), più spesso mi irrito dopo pochi minuti e finisco sempre per portarmi a casa i soliti modelli, i soliti colori, la solita, ennesima, inutile, camicia bianca (ne ho una collezione paragonabile solo a quella di Renzi). E sarebbe finita di sicuro nello stesso modo anche stavolta se non mi fosse arrivata quel giorno in soccorso tutta l’incontenibile energia ed esuberanza di Giancarlo. Se il mio amore si decidesse finalmente a coronare la nostra felice e ventennale storia con un’inarrivabile seppur gradita proposta di nozze (e dopo i dettagli sulla mia psiche narrati in questo come in altri post capite perché non lo faccia) Giancarlo diventerebbe tecnicamente mio cognato. Per adesso si limita invece a istruirmi, piuttosto invano in realtà, su quel mondo a me ostile e sconosciuto dello sport, della salute e della forma fisica: è solo grazie a lui che ho scoperto l’esistenza, altrimenti ignorata, delle proteine spray sublinguali, degli antiossidanti naturali come la bacche di Goji (dal gusto terribile, non le provate), di tutta una serie di massacranti ma efficaci espedienti domestici per tonificare muscoli e perdere peso. Ma è soprattutto un vero fuoriclasse dell’acquisto in saldo, un maratoneta dello shopping estremo: è con lui che ho rastrellato interi reparti di negozi a cui da solo non mi sarei mai neanche avvicinato, è merito suo se sono finalmente riuscito a sperimentare su di me tagli, tinte o fantasie che non indosserei mai nemmeno se mi trovassi dall’altra parte del pianeta al riparo dai commenti ipercritici di amici e conoscenti. Mostrandomi alla fine il lato più scanzonato e divertente nel trascorrere ore e ore di shopping: anche se neanche lui ha saputo però farmi desistere dal comprare un altro paio di semplici, classici, banali pantaloni blu.

Sarà la nostalgia…

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Sarà che l’estate vola via. E dai, non facciamo tanto i precisini, lo so anch’io che tecnicamente la bella stagione prenderà l’avvio solo domani, e stare a disquisire adesso sulla rapidità del suo passaggio, dopo mesi di attese, burrasche e tentennamenti meteorologici, soprattutto a poche ore dal suo sospirato inizio, sarebbe, a dir poco, inopportuno. Era soltanto per prolungare nell’incipit la citazione canora presa in prestito per il titolo. Ah, no, di quale brano si tratti di preciso non ne ho proprio idea. Sarà sicuramente una di quelle vecchie canzoni melodiche nostrane, le cui rime baciate cuore-amore mare-nuotare-pescare rimangono da sempre incollate come francobolli alla memoria a dispetto della tua ostinata volontà di sbarazzartene. Sarà che ad ogni benedetto Giugno sento l’anima soffrire e scalpitare sotto il peso dell’afa cittadina, per supplicarmi in ginocchio di fuggire, il prima possibile, nella selvaggia solitudine di qualche lido sperduto, di quelli zeppi di tronchi ricurvi e biancastri finiti chissà come sulla riva, accarezzati dalla freschezza delle onde, la stessa che sembra rigenerare anche te non appena arrivi a sfiorarla con i piedi. Sarà che invece per il momento non mi è sembrato abbastanza regalarmi un fugace week-end all’isola del Giglio, dove, tra l’altro, provato da un decennio di nullafacenza sportiva e dall’età, quella vera, che difficilmente confesso, mi sono sentito in buona compagnia alla vista un relitto (e se vi sembra di cattivo gusto una battuta sulla tragedia della Concordia, dovreste vedere i centinaia di babbei che ancora fremono sin dall’arrivo in porto per immortalarsi in un selfie con la nave naufragata). Sarà che implacabile, sulla bilancia, è comparsa esattamente quella cifra reputata un tempo irraggiungibile, stabilita come limite teorico oltre il quale avrei ripreso a prendermi cura del mio fisico in prolungato stato di abbandono, e fedele alla promessa a me stesso (accidenti alla coerenza) ho sfidato pigrizia e pubblica ridicolaggine per provare a correre di nuovo, ogni giorno, anche solo per pochi minuti, sufficienti però per farmi sentire a posto con la coscienza e, più spesso, a un passo dalla morte. Sarà che mi rendo conto da solo di avere un’inguaribile tendenza all’esagerazione, in tutto, e so benissimo che il mio nuovo peso potrebbe rientrare tranquillamente nei canoni di una buona forma di un uomo adulto di 1.75 m di altezza, eppure continuo a pensare che ritrovarsi nei panni di Giuliano Ferrara a questo punto sia un attimo (Apro bislacca parentesi sull’altezza. Sì, sono 1.75 m, secchi. Non cominciamo con quel “no, ma via, sarai di più, almeno 1.80″. No. Non vedo la necessità di barare sull’altezza, io. No, perché più di una volta mi sono ritrovato in discussioni del tipo “Ma non è possibile, sarai più alto. Ma se sono io 1.68 m, ce l’ho scritto anche sulla carta d’identità”. Già, come se l’impiegato comunale dell’anagrafe fosse stato lì a misurarvi davvero centimetro per centimetro, o come se non vi foste appositamente presentati quel giorno col tacco 12 o in punta dei piedi). Sarà che in questi giorni è un gran parlare dappertutto di esami di maturità, e nonostante dal mio siano trascorsi quasi due decenni (e della tanto decantata “maturità” in questa vita, neanche una pallida ombra), stuzzicato nei ricordi della mia adolescenza irrequieta e spensierata, ho trascorso ore al telefono con quei vecchi compagni di scuola con cui sono ancora in contatto, a sostituire i nostri vecchi e infinti arrovellamenti su interrogazioni e compiti da copiare con il progetto concreto di una cena tutti insieme, con le ultime novità su bebé in arrivo, crisi professionali e complicazioni sentimentali. Sarà che ho sempre evitato con attenzione di comparire sui social o di farmi taggare in quelle tristi foto ingiallite risalenti alla mia infanzia, eppure quando la mia storica e preziosissima amica Loredana ha ritrovato e pubblicato quella che vedete qui, datata (ahimé) 1979, che avevo visto una sola volta, alle medie, ho rischiato sul serio di commuovermi. Sarà che trovo così teneramente buffo il mio aspetto di allora, i capelli con la frangia sbilenca che mi facevano tagliare da mia zia (perchè poi?), le orecchie grandi e a sventola (no, non le ho rifatte, nel caso vi fosse venuto il legittimo dubbio, sono andate a posto da se’. Il destro però è rimasto più grande e sporgente), quell’aria fuori luogo da bambino pseudo-iracheno ritratto in mezzo a una famiglia norvegese, tutti più o meno biondi, quasi tutti sorridenti, tranne me. Forse sarà quel medesimo e mai sedato senso di inadeguatezza, di spaesamento, di perfettibilità che, beffardo e puntuale, provo anche oggi. O forse, davvero, sarà solo un po’ di nostalgia.

Questioni di (lato) B

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Bene. Sono appena le 9.44 del mattino. E questa che mi accingo a fare è già la terza, estenuante, fila. Deve esserci un qualche crudele piano divino, penso ogni volta, in questa situazione. Perchè ho scelto, a suo tempo, di vivere qui con il mirato scopo di recuperare tranquillità, energie, una placida e flemmatica dimensione quotidiana. Piuttosto alla larga dalla schizofrenica routine cittadina. Tutti vantaggi, credevo, che solo un microscopico e sconosciutissimo centro urbano, difficilmente rintracciabile anche sulla cartina, potesse davvero regalarmi. Poco meno di tremila abitanti, si dice, anche se dubito che il numero effettivo delle persone realmente residenti in questo rustico paesino, al confine tra ultima periferia e piena campagna, abbia mai superato i tre zeri. Che poi sono le stesse, tutte, (si metteranno d’accordo sull’orario?) che riesco a beccare ogni volta in una qualsiasi coda interminabile in cui mi trovo ad attendere il mio agognato turno. C’è la simpatica ultraottantenne con i suoi perenni occhiali da sole alla Keanu Reeves in Matrix, che si sbraccia di saluti, bastone alla mano, con chiunque inchiodi con l’auto per evitare i suoi attraversamenti selvaggi di strada. C’è l’irrudicibile signore di mezza età, ciuffo brizzolato e coraggioso abbigliamento da teenager, convinto, nonostante le mie dettagliate spiegazioni in proposito, delle mie origini romane, al cui ennesimo “A Roma che si dice, tutto bene?” mi limito ormai a rispondere “B – bene, grazie!”. C’è la matura e scoppiettante primadonna della piazza, un vago accento spagnolo che scappa fuori qua e là nella sue rumorose conversazioni, sempre vestita di azzurro, in ogni stagione, come una sorta di fata turchina in salsa tosco – iberica. Bene. E poi ci sono io, che mi aggiro silenzioso, con cordiale distacco, in questa località divenuta adesso familiare, in cui faccio ancora fatica a sentirmi a casa. E che, per ingannare il tempo da spendere nei miei soliti giri, mai così brevi come desidererei, passo in rassegna, osservo, ascolto la solita gente che, al solito, mi farà fare tardi. Proprio come oggi. Prima alle Poste, dove sono tornato con rassegnazione dopo che un improvviso black-out ai terminali mi ha fatto buttare via l’intero pomeriggio di ieri. Poi al supermercato, dove anche dirigersi alla cassa automatica per sbrigarsi è del tutto inutile perche la signora davanti a me l’ha inceppata con un numero elevato e sospetto di tavolette di cioccolato. Adesso anche in edicola, dove in genere ritiro con una rapidità da guinness tutte le riviste e gli allegati che lo zelante giornalaio mi mette da parte, fingendo un po’ che interessino a qualcun altro, oltre a me. In genere. Non oggi. Bene.

Ed è qui, tra lo sconforto di una nuova attesa che si fa sempre più evidente e i capricci indomabili della bambina che al supermercato, pochi minuti prima, ha fatto il diavolo a quattro con la mamma per delle patatine e che adesso replica la stessa pietosa scena per l’album di Peppa Pig (signora, sono con lei, non ceda) che mi accorgo di una novità significativa. Bene. B la nuova avventura editoriale di Barbara d’Urso, un magazine fiammante tutto ideato da una delle signore più influenti e presenti della nostra tv, colei che, a scanso di equivoci, campeggia in copertina con un sorriso stratosferico (già visto, a dire il vero, qualche anno fa, in una pubblicità per uno studio dentistico di cui era testimonial) e una pelle luminosa e levigatissima, paragonabile solo a quella di mia nipote di tre anni. Colei che su uno smisurato repertorio di faccine, bacetti-smack-smack ed espressioni crucciate, che elargisce con abbondanza ad ogni sua intervista, sia l’interlocutore un ex premier o una ragazza madre rapita dagli alieni (perché l’ospite in studio deve raccontare storie al limite del credibile) ha costruito una delle più felici e criticate carriere catodiche. E che adesso prova ad allargare il proprio impero di consensi e di oppositori sbarcando in pompa magna in edicola, con una rivista che si preannuncia come l’ideale proseguimento cartaceo della sua, già consolidata, fama di sguazzatrice nel torbido delle notizie. I titoli non deludono le aspettative: l’incredibile e paradossale avventura della signora che ha partorito sul divano (scioccante, vero?), tutta la verità di Manuela Villa (che però ha cambiato taglio e colore di capelli) su suo padre (ancora?), e poi milioni di imperdibili consigli per evitare i disastri della prova costume, su cucina, bellezza e make-up, in un crescendo di argomenti e soggetti in bilico tra prevedibilità e trash. Avrà successo? Temo proprio di sì. E per una ragione molto semplice. C’è un po’ di B in ognuno di noi. Noi che per distrarci dalla piattezza della nostre giornate rovistiamo nell’apparenza delle esistenze altrui, pronti a sparare a zero su tutto. Noi che ci definiamo con orgoglio creativi per poi riuscire solo a fabbricare obbrobri inguardabili e dozzinali (come, ad esempio, la lampada coi cucchiai di plastica spiegata proprio nella rivista). Noi che attribuiamo a ipotetici talenti o sacrifici la nostra posizione, i nostri successi, la nostra carriera, quando sappiamo benissimo essere stata spesso una mera questione di scelte casuali, compromessi, mezzucci o spintarelle. O, in numerosissimi casi, di sfacciata fortuna. E’ per tutti noi c’è da oggi proprio B. E quel B starebbe per Barbara. Nel caso vi fosse venuto il dubbio che c’entrasse qualcosa una botta di lato B.