Vita (quasi) nuova!

Intravisto e poi di nuovo sparito, come un treno di passaggio che sfreccia troppo veloce davanti agli occhi fissi sul binario, quel briciolo di relax strappato con caparbia ostinazione alla maratona delle vacanze natalizie, rimasti in balìa di quegli odiosi chili da smaltire, dell’albero con qualche pallina ammaccata da smontare, dei primi, pessimi acquisti in saldo da rinchiudere nell’oscurità dell’armadio insieme ad altri simili sbagli conservati “perché, non si sa mai, potrei sempre indossarli”, rieccoci qui a fare un’altra volta i conti con tutti i nostri, puntuali quanto campati in aria, progetti e le nostre richieste più balzane che abbiamo già affidato speranzosi all’ignaro 2015. Il mio, a dire il vero, è cominciato con qualche stranezza di troppo che non dovrebbe peraltro più stupirmi, dato il generale andamento oscillante di questa mia testa liscissima fuori e intrigatissima dentro che, volenti o nolenti, si trova a gestire corpo (in espansione) e anima (da dannazione). Placata da qualche tempo, grazie a una piacevole e intima chiacchierata a tavola con il mio omonimo amico Alessandro, quell’ansia mista a panico che spesso si manifesta nella notte accompagnata dal placido pensiero “oddio, stavolta muoio”, riscontrati nelle sue parole gli stessi identici sintomi e le stesse, preoccupanti e infondate, paure, le mie nevrosi, persa forse quell’aura di esclusività che pensavano di possedere, hanno visto bene di migrare altrove, ricomparendo sottoforma di improvvisi attacchi claustrofobici che mi colgono in un qualunque spazio, a mio avviso sempre troppo denso di mura o di persone. Circostanza poco piacevole che di fatto mi costringe ultimamente a sgattaiolare fuori dalla metro tipo tre/quattro fermate in anticipo rispetto a quella più vicina alla mia meta, che tento poi di raggiungere con una non programmata (e talvolta lunghissima) passeggiata all’aperto, oppure ad uscire di corsa, sudaticcio, dal posto in cui sto mangiando, e senza neanche consumare il caffè (già pagato), perfino a dileguarmi dall’ufficio per rinchiudermi rapido in bagno ad affacciarmi snervato alla finestra, dove immancabilmente vengo intercettato dagli operai al lavoro sui ponteggi che ormai saluto con un gesto della mano, come fossero vecchi amici. Ma perché tormentarsi, in fondo anche quest’ultima manifestazione di scarso equilibrio psichico, ne sono certo, sparirà proprio come tutte le altre, magari stavolta senza essere neanche rimpiazzata da nuovi e più paralizzanti timori: in fondo l’anno con le sue stimolanti incognite è appena cominciato, l’oroscopo pare sorridere al mio segno e non sono neanche riuscito ad introdurre degnamente la mia scrupolosissima lista di buoni propositi per il 2015 che avevo intenzione di propinarvi in questo post e che vado di seguito ad aggiungere:

- Studiare un po’ di norme pratiche e legali di navigazione, perché pur discendendo da una famiglia di marittimi da generazioni non ho mai provato a cimentarmi nell’ambito, perché nonostante quel mare dove sono cresciuto, che tentavo da bambino di disegnare consumando tutti i pennarelli blu, sia l’unico posto in cui mi senta veramente a casa, so a malapena tenere in mano due remi, e perché un domani vorrei anche acquistare una barchetta con cui scendere a pescare nelle sere d’estate.

- Sperimentare dei piatti che mi richiedano un maggior tempo di preparazione e che mi facciano finalmente scoprire il piacere della cucina, io che mi spazientisco sempre troppo di fronte ai fornelli, che reputo ore sprecate quelle in attesa dell’acqua che non sembra mai bollire o del dolce infinitamente lento nel cuocere, e che mi rassegno a guardare i miliardi di programmi tv sull’argomento con lo stesso vivace interesse che di solito mi suscitano i necrologi sui quotidiani.

- Accettare serenamente il fatto che 29 anni (giorno più, giorno meno) non sono mica più 19, che le energie soprattutto non sono le stesse, che se nella medesima giornata mi ostino a volerne far troppe poi non è un delitto rincasare e rimanere almeno un’ora a guardare il soffitto, stremato, senza sensi di colpa perché non sono più riuscito ad andare a correre, ora che sto esaurendo tutte le possibili scuse al riguardo (il freddo, quel dolorino fastidioso al ginocchio, le scarpe troppo basse, etc).

- Smetterla di irritarmi se in un posto in cui entro per la prima volta mi si rivolgono subito con il tu, perché forse siamo rimasti in pochi ad apprezzare quella desueta e distante educazione del lei, che fa un po’ secolo scorso in certi locali pubblici. Cercare anche di non arrabbiarmi se dopo mezza parola pronunciata, fosse anche “salve” o “ciao”, mi puntano subito tutti sorridenti l’indice, aggiungendo “toscano, eh?”, e poi attaccano soddisfatti quella noiosissima solfa della “Coha – hola con la hannuccia horta horta”. Ah, e imparare a chiedere da bere una Pepsi, che almeno non ha le C.

- Trovare una nuova definizione, meglio se inglese, per il mio settore professionale e per le mie competenze, perché alla domanda “tu cosa faresti/saresti?” la risposta, per quanto corretta, “lo storico del costume” suscita sempre sguardi compassionevoli, perfetti se rivolti a un animale in estinzione, che so, un cucciolo di panda. Evitare però le formule Fashion expert o peggio Fashion blogger che nell’opinione comune equivalgono sempre al “vagabondo/mantenuto/nullafacente”, “bravo sì, facile occuparsi di moda, sì, con tutti i veri problemi che ci sono in questo Paese!”

- Trovare un nuovo lavoro, meglio se in linea con il mio settore professionale e le mie competenze, ora che, giunto quasi alla conclusione di questa ultima, imprevista e soddisfacente esperienza milanese, mi sento pronto come non mai a rimettermi in gioco, grazie all’energia ottenuta dal misurarmi con una città e con un ambiente in cui credevo di non riuscire a sopravvivere per più di un giorno o due. E soprattutto spostare questo proposito in cima alla lista, che la tanto sognata barchetta per pescare, in qualche modo, un domani, la dovrò pur riuscire a pagare.

Stra(na)Milano

Ennji ha origini coreane, il dono naturale di infondere un’irresistibile dolcezza in ogni parola o movenza, la rara eleganza di chi sa distinguersi anche solo indossando una maglia a righe marinare e pantaloni spruzzati qua e là d’oro, oltre a qualche dubbio sulla mia vera età, che mi fa ripetere almeno tre volte appena mi siedo di fronte a lei, conquistandosi così da subito tutta la mia totale e vanitosa simpatia. Giorgio, suo marito, nome ribadito da una buffa scritta campeggiante su un berretto di lana che arriva a nascondergli le sopracciglia, parla velocemente e con un curioso accento del nord, inconsueto per le mie orecchie, mentre ci tiene a precisarmi che la zona dove ci siamo conosciuti per caso durante il mio primo ape milanese (che sta per aperitivo, perché qui tutte le parole si abbreviano, ma è un concetto su cui torneremo) è la più in voga al momento per i giovani dediti alla movida cittadina, forse dimenticando la mia non più esatta appartenenza alla categoria e ignorando di sicuro la mia profonda natura pantofolaia, piuttosto refrattaria alla folla. Gigi invece, maremmano come me in trasferta per lavoro nel capoluogo lombardo, ha parole di entusiasmo nel descrivermi la sua nuova vita quassù “perché poi, nel week-end, con un’ora di auto sei già in montagna o al mare” lasciandomi così intendere che il suo apprezzamento è rivolto soprattutto alla possibilità di pianificare delle fughe frequenti dalla grigia e snervante piattezza di questo cielo, spesso del medesimo colore denso e opaco che ha l’acqua nel secchio una volta lavati i pavimenti. Melisa, gentile e colta giornalista che nel nome sembra già riassumere la sua straordinaria e raffinata sensibilità, tenta di confortarmi con la sincera ammissione di tornare con piacere da queste parti dove ha vissuto per lungo tempo e dove ha conosciuto persone ancora oggi fondamentali nella sua vita, placando così in parte quella mia smania insensata di trovare in breve tempo nuovi amici, tarlo che si accompagna ai miei lunghi e detestabili momenti di solitudine, spesso arginati con dannose quanto consolatorie dosi massicce di cioccolato fondente. Tra questi pensieri strampalati dunque, rivolgendo a chiunque incontri quello stupido ma per me essenziale quesito “cosa ami di Milano?” mi butto già alle spalle il primo, faticoso, mese in questa città, la terza nel giro di soli cinque anni in cui mi trovi, quasi per caso, dopo Roma e Firenze, a soggiornare e a lavorare, con un preoccupante movimento ascensionale che mi fa temere di dover riscuotere un giorno la mia (magra) pensione in un qualche paese scandinavo dalle temperature rigide e dalla fioca e deprimente luce diurna, io che al contrario ho sempre sognato una serena e soleggiata vecchiaia in costume e ciabatte, in riva al mare.

Non che poi mi manchino i motivi per apprezzare Milano, sia chiaro: a cominciare dalla sua proverbiale ed indiscutibile efficienza, estesa, ad esempio, a tutti i mezzi pubblici, la stessa che mi fa sgranare gli occhi di fronte all’affermazione scandalizzata della signora che sbotta indignata alla fermata dell’autobus “è una vergogna, dieci minuti e ancora niente!”, io che, memore di interi pomeriggi nel resto d’Italia buttati in attesa di un qualsiasi mezzo puntuale, sarei ormai rassegnato ad ingannare quel tempo familiarizzando con gli altri speranzosi individui incontrati sotto i tabelloni degli orari. Più incomprensibile, semmai è il ritmo forsennato che tutti sembrano tenere senza batter ciglio, sin dalle prime ore del mattino, correndo letteralmente su e giù per i marciapiedi senza sosta, lo sguardo fisso verso l’infinito o in basso ipnotizzato dallo smartphone, come se non esistesse altro modo di spostarsi in città, che sia un tantinello più rilassato o anche solo umano. Macché, niente, avanti, si trotta, e guai a intralciare il passo altrui con un’andatura non altrettanto rapida, si rischia di essere travolti o scalzati del tutto, soprattutto nella necessaria operazione di assalto all’affollatissima scala mobile della metro, pericolosa pratica collettiva, per adeguarmi alla quale, arrivo sempre al lavoro con troppo anticipo e sono costretto a fare due giri a vuoto dell’isolato, perché di fermarsi in strada alcuni minuti, ed essere così additato come il vagabondo di turno, non se ne parla. Senza considerare poi che il mio ufficio si trova nei pressi di via Montenapoleone, in pieno quadrilatero della moda, zona pullulante di creature impeccabili e impomatate, quasi sempre vestite di nero (“te l’avevo detto di indossare solo black minimal!” tuona infatti la mia amica Chiara al telefono), mentre io, aggirandomi fra loro con ancora l’impronta del cuscino sullo zigomo, i miei maglioncini verde menta o rosa salotto di Barbie, le camicie a quadri da taglialegna appena stirate, sembro piuttosto un clown intrufolatosi per dispetto in un corteo funebre. E poi c’è la stramba parentesi linguistica: perché il tempo, risorsa da non sprecare mai nei propri spostamenti, pare vada risparmiata anche nel pronunciare le parole, quelle maggiori di due sillabe irrimediabilmente troncate a metà. Ho assistito dunque inerme a espressioni del tipo “sono in para(noia)”, “non mi fare una svioli(nata)”, con apoteosi finale incarnata dalla fanciulla che mi sale per sbaglio su un piede con il suo stivaletto dal tacco rinforzato e poi si scusa con un “oh, mi disp(iace)!” affermazione che non sono riuscito a controbattere, in parte per il dolore, ma soprattutto per la sua spiazzante incomprensibilità. Per il resto dei termini, va da sé, è preferibile accantonare l’italiano e servirsi del corrispettivo inglese, anche solo se ci si trova a parlare di description, action o qualunquealtradannatacosapurchéfiniscainition, con una predilezione per l’acronimo a.s.a.p. (as soon as possible), diffusissimo tra chi, come chiunque del resto a Milano, ha fatto della fretta la propria intima cifra stilistica. “Sei un fashion blogger anche tu?” mi chiede infine Maddalena, mamma, giornalista, scrittrice, professionista insomma dalla tipica propensione al multitasking, forse prezioso appannaggio di chi nasce e cresce lungo i Navigli, “beh, non così fashion, a dire il vero, il mio blog non ha tutto questo appeal!” “hai detto appeal? ti starai mica adattando alla parlata milanese?” Oddio, di già?

Ricomincio da MI

“La mia impressione? Guarda, ad essere sinceri, credo proprio di non essere piaciuto. Se devo dirtela tutta, secondo me hanno già trovato qualcun altro. Si capiva chiaramente, il tono cordiale ma distaccato, le domande poi, proprio quelle di routine. No, non c’è il minimo interesse, garantito. Ho mai sbagliato?”. Puntualmente. Cioè, sempre, in ogni circostanza, ad ogni occasione più o meno meritata, elemosinata o piovuta dal nulla, quando la mia incorreggibile strafottenza arriva a rompere gli argini del pensiero per trasformarsi in parole inutili e vanagloriose, mi illudo di aver intuito con chiarezza il proseguimento della faccenda in questione, e quasi gongolo nel mettermi poi in disparte, altezzoso, a godermi il finale, perché sicuro che si svolgerà secondo quanto scrupolosamente previsto. Cosa che infatti non accade mai. Perché l’esperienza dovrebbe avermi ormai generosamente dimostrato che non possiedo affatto quella dote portentosa chiamata sesto senso, una latente e strabiliante capacità di indovinare situazioni o decisioni future, forse il solo dono che possa rivestirci della convinzione di dominare e perfino anticipare le tattiche fumose del destino. Macché, niente, mai azzeccata una sola, per quanto insignificante, previsione, mai avuto un minimo e strafottutissimo presentimento che alla lunga si sia dimostrato il più veritiero. Come stavolta, quando, dopo l’ennesimo e poco incoraggiante (credevo) colloquio di lavoro, l’ultimo in ordine di tempo aggiuntosi alla mia lunga lista di episodi paradossali, spesso tra il demoralizzante e il tragicomico, mi sono ritrovato in una Milano insolitamente soleggiata a riassumere per telefono al mio amore quello che credevo essere l’esito dell’agognato incontro. “Un altro buco nell’acqua, pazienza. Dai, meglio così, in fondo. Ci avrebbe riscombussolato di nuovo la vita”. Inutile aggiungere che a quel colloquio ne è seguito poi un altro, a breve distanza, con tanto di amministratore delegato in persona a dissezionare il mio variopinto curriculum, a soffermarsi naturalmente sul mio allettante passato da bigliettaio museale (lasciato come ultima voce a dispetto dell’insana curiosità che ogni volta suscita) e a chiedermi soprattutto, con spiazzante franchezza “Sì, ma da grande, cosa vorrebbe fare?” (io? da grande? ma l’avrà letta bene la mia data di nascita?)

Altrettanto inutile stare a specificare che, per il momento, ottenuto non so come quell’incarico provvisorio indicato con un altisonante quanto sibillino acronimo (“crm specialist” per l’esattezza, ma i dubbi sul suo significato ve li saprà chiarire meglio Google), mi ritrovo di nuovo a rincorrere la mia esistenza che pare aver preso una sua direzione del tutto indipendente dai miei più rilassati programmi e dal mio, mai celato, desiderio di una maggiore tranquillità. Per qualche mese dunque vivrò da solo a Milano, in un minuscolo e grazioso appartamento messomi a disposizione dalle salvifiche premure di un vecchio amico, che lo ha dotato di un paio di dettagli kitsch (l’asse da stiro leopardata, tre piramidi di lattine vuote a coronare i pensili della cucina) talmente assurdi da avermi fatto sentire subito a casa. Per non parlare del palazzo poi, forse per assonanza cromatica con il cielo mattutino di qui, dipinto della stesso tonalità di grigio piombo, ravvivato però da un lato da un curioso murales a forma di campanile che incornicia tre finestre cieche e dall’altro dal gigantesco e ipnotico cartellone pubblicitario del “più cliccato sito di incontri extraconiugali in Italia” (e qui si potrebbe aprire una parentesi su un mondo a me sconosciuto: esistono siti di incontri extraconiugali? sul serio? cioè, come funzionano, ti richiedono il certificato di matrimonio al momento dell’iscrizione?). Senza contare inoltre i penosi tentativi con cui fingo di aggirarmi con disinvoltura nella sede di lavoro, perché finché sei “quello nuovo” ti sembra di essere escluso da tutto, dalla complicità dei colleghi che ridacchiano su battute incomprensibili, del genere “no, non puoi capire, è una vecchia storia”, al semplice funzionamento della macchinetta del caffè (boh, questa lucina accesa che vorrà dire?), fino al momento in cui una gaffe ti declassa dalla qualifica di “quello nuovo” al rango disonorevole di “quello stronzo” quando provi a entrare in confidenza con la fanciulla dell’ufficio accanto e accidentalmente le dai più della sua età (“ahhahhahah, 29 anni, anch’io dico sempre così…invece ne hai, 32? 33? “no, ne ho davvero 29, forse stamani ho il viso un po’ stanco” + sguardo comprensibilmente carico d’odio). Un’ulteriore occasione insomma in cui scontrarsi di nuovo, nelle prime, prevedibili, notti insonni come nelle lunghe giornate in cui vago con la testa seduto alla mia nuova scrivania, con tutte quelle paure e quelle insicurezze mai del tutto superate, con quello schiacciante disorientamento che ogni nuovo inizio si trascina immancabilmente dietro, per fortuna sempre inferiore alla mia indomita e mai accantonata, voglia di ricominciare. Anche qui, in una Milano al momento da assaggiare, più che da bere.

Una certa classe…

Da quando abbiamo scoperto, per caso, di abitare a poche curve di distanza sulla medesima stradina sconnessa che si addentra semisilenziosa in questa porzione di campagna toscana, nota soprattutto agli stranieri per essere una vecchia e pittoresca via di accesso alla ben più famosa zona del Chianti, e a qualche conoscente con buona memoria e un discutibile gusto per il macabro, per una triste e sanguinaria vicenda del mostro di Firenze (“non dirmi che non lo sapevi?” “certo che no!” “ma non ti sei informato prima?” “perché, tu quando cerchi casa, indaghi su eventuali omicidi avvenuti nei dintorni?”), io e Chiara tentiamo di rivederci almeno due, tre volte al mese. Sottolineo tentiamo, perché tra i suoi mille impegni di donna soggiogata dai ritmi di una vita densa e organizzatissima (lavoro, marito, figlio, scuola, palestra e ancora palestra…ma come fa?) e il suo carattere simpaticamente inquieto, è tutto un continuo fare e disfare programmi, anche quando sono ormai stabiliti da tempo, il più delle volte rivoluzionati da messaggi dell’ultimo minuto, tipo “e se invece di andare lì si andasse di là?”, a cui mi trovo spesso a rispondere, sbuffando, quando sono già al volante, in arrivo nel posto precedentemente concordato, sempre lontano dal “nuovo” chilometri e chilometri. Daniele invece vive da tempo a Milano, con una compagna di cui ricordo soprattutto il piacevolissimo sorriso e due piccoli figli maschi che purtroppo non ho mai visto, uno dei quali, a suo dire, piuttosto somigliante a lui, come mi confessa nel momento più tenero della nostra recente conversazione telefonica, in cui a poco poco riconosco finalmente l’accento tipico del nostro paese farsi spazio tra la musicalità meneghina di espressioni che ancora fatico ad abbinare alla sua voce. Anche Francesca, nonostante le sue vecchie e contrarie convinzioni in proposito, è diventata genitore, per la prima volta da poche settimane, di una magnifica e in apparenza tranquilla bambina di nome Bianca, che mi trovo ad ammirare, commosso e divertito, in alcune foto che lei stessa mi ha inviato e che ne mettono in risalto, da qualunque angolazione le si guardi, due splendide guance perfettamente circolari, diventate adesso di sicuro l’attrazione principale della sua raffinata casa con le pareti rosse, in cui qualche volta ho cenato con gusto quando ancora lavoravo a Roma.

Poi ci sono Anna e Silvia, entrambe incontrate casualmente nei giorni scorsi, per ironia della sorte proprio nello stesso punto, e che ho visto bene di sommergere subito con la mia affettuosa smania di saluti, causa di quei soliti, lunghi e strambi discorsi che spingono il mio amore, ormai rassegnato alla mia vacua e inarginabile parlantina, a piantarmi lì, con una scusa, in mezzo alla via, per venirmi a recuperare solo molto tempo dopo (e difatti io ero ancora lì a chiacchierare). C’è Guido, che sono riuscito a riconoscere nonostante fosse di spalle, con su addosso divisa e cappello da vigile urbano, e che ho tentato di distrarre con un potente colpo di clacson che ha fatto sobbalzare un’intera piazza (tranne lui) e c’è Sara, che ha invece deciso di ridurre al minimo la sua presenza su Facebook, e così mi tocca vincere la mia nota pigrizia e chiamarla di persona per comunicarle ogni volta, per prima, come faccio da anni, le novità principali della mia vita professionale. E poi ci sono gli altri, tanti altri, che vedo o sento più raramente, alcuni dei quali a dire il vero, forse non riconoscerei più o che forse (più probabile) non riuscirebbero a riconoscere me. Qualcuno che ho perduto chissà dove, qualcuno la cui complicità si è andata affievolendo col tempo, ma la cui importanza nella condivisone degli anni lontani della scuola rimane insostituibile: gli anni in cui ogni sentimento prende corpo come un’emozione gigantesca e devastante, in cui i timori sono rumori assordanti e amplificati, le paure si mischiano indissolubilmente alle aspettative, le ambizioni si fanno smisurate almeno quanto le delusioni. Ma resta la consapevolezza che essere stati una classe, al di là dei suggerimenti e dei compiti copiati, significasse soprattutto spalleggiarsi dentro, tra i banchi, per tentare di affrontare la vita fuori, quando di vita, in realtà, non ne sapevamo ancora abbastanza. E anche adesso che, in qualche caso, conosciamo poco o nulla delle nostre reciproche esistenze, della nostra diversissima e adulta quotidianità, succede che quando ci ritroviamo, siano davvero tanti i sorrisi e la soddisfazione, perché anche se le nostre strade ingarbugliate ci hanno condotto in posti lontani da quelli che avevamo un tempo immaginato, alla fine ci piace riconoscere che sì, forse, siamo stati anche capaci di combinare qualcosa di buono.

Cambio (di) stagione

A volte basta davvero poco, il leggero entusiasmo dell’autostima in rimonta su mille inutili tormenti, minuscole vittorie strappate ad una pigrizia fin troppo radicata, un risultato modesto ma piuttosto gratificante perché ottenuto con quella testardaggine che non ricordavi più fosse inscritta nel tuo dna. Episodi intimi e trascurabili, di nessuna importanza o quasi, eppure talvolta sufficienti a regalarti quel briciolo di soddisfazione di cui avevi però esattamente bisogno per sentirti di nuovo in grado di poter ambire a mete dapprima ritenute al di fuori della tua portata. Basta poco, dicevo, per scoprirsi rivitalizzati e apprezzati, capaci di euforici slanci di energia e a tratti quasi onnipotenti: l’aver intaccato con le tue sole forze quella situazione che sembrava ristagnare da un’eternità, una commovente e affettuosa dimostrazione di fiducia siglata da un abbraccio travolgente e inaspettato, perfino il riuscire a perdere con precisione quel tot di chili di cui volevi sbarazzarti in un mese, senza sforzi colossali e senza soprattutto il costante timore di dover salire sulla bilancia con una gamba sola, a mo’ di fenicottero. E siccome il raggiungere un qualsiasi traguardo, seppur esiguo, innesca la voglia di mettersi ancora una volta in discussione tentando di alzare sempre un po’ di più l’asticella, e dato che le lunghe e grigie giornate di autunno sono lastricate di buone intenzioni molto più delle innumerevoli strade per l’inferno, ne ho approfittato per stilare la lista dei prossimi miei obiettivi avvertiti come quasi realizzabili, senza troppe esagerazioni ma con tutta la presunzione, esistente al momento, di poterli sul serio concretizzare in questa stagione (o in questa vita, mi andrebbe bene comunque):

- tenere finalmente a bada quei disatrosi effetti dovuti a un’eccessiva emotività che mi scombina spesso la voce e la mente quando mi ritrovo a parlare in pubblico o con perfetti sconosciuti, causa di fiumi inarrestabili di frasi senza senso o di ben più gravi e spiazzanti vuoti di parole, che durano solo pochi secondi ma a che a me sembrano comunque un tempo infinto, in cui mi ritrovo a grattarmi freneticamente la testa in panne e a fissare il pavimento come se i termini che vado cercando potessero miracolosamente sbucare lì proprio davanti ai miei occhi, nell’angolo scalfito di quella piastrella dove si è arenato il mio sguardo.

- sforzarmi di apprezzare le attenzioni di un qualsiasi animale domestico, senza nascondermi dietro la scusa delle mie reali e devastanti allergie, perché studi scientifici dimostrano che chi si relaziona più spesso con cani e gatti vive più a lungo e più felicemente, perché da sempre mi scontro col pregiudizio mai superato di considerare chi si circonda di animali meno capace o desideroso di volerlo fare con i propri simili, perché Ravel, il cane della mia amica Claudia, quando mi accoglie scondizolante e smanioso di salirmi in braccio pare chiedermi ogni volta con i suoi occhioni imploranti “Mbeh? Tutto qui il tuo affetto per me?”

- riuscire finalmente ad accompagnare o anche solo convincere mia madre ad entrare tutta trionfante in quel famoso e raffinato negozio di abiti che ha da sempre amato alla follia, come è evidente dai lunghi sospiri sognanti che le sfuggono di bocca ogni volta che passiamo di fronte alle sue vetrine, per farle così provare ed acquistare un nuovo vestito rosso, perché è un colore magnifico che di sicuro le starebbe d’incanto, e perché non avrebbe mai tanto coraggio da chiedere esplicitamente un regalo del genere, che invece si meriterebbe eccome.

- insegnare qualcosa di memorabile a mia nipote Giulia, che non siano soltanto quei giochi pericolosi e sguaiati con cui di solito la intrattengo, tipo lanciarci il passeggino delle bambole o fare la lotta con i cuscini, con cui ho cercato di conquistarmi furbamente la fama dello zio più permissivo. Dovrei invece spiegarle una qualche attività utile o anche solo una parola davvero indispensabile in futuro, in modo che quando si troverà ad usarla possa pensare subito “è quella di zio Ale!”, ora soprattutto che fra le nuove insegnanti di scuola, la baby – sitter, i suoi coetanei più fantasiosi e stimolanti, il timore di essere rimpiazzato è forte.

- riuscire ad organizzare con il mio amore quel benedetto viaggio, rimandato purtroppo ormai da anni, per andare ad osservare la rotta delle balene che migrano verso Sud, perché è fra i suoi desideri più grandi, anche se io, al contrario, mi sento venir meno al solo pensiero di dovermi avvicinare ad un animale di quella stazza, e nonostante la soddisfazione della sua faccia esaltata e i racconti che andremo narrando per anni sull’episodio, già so che non potrò fare a meno di pensare in quel momento che con un colpo improvviso di coda potrebbero ucciderci entrambi. Però in autunno dicono sia la stagione migliore. Per le balene, intendo. Non per avere dei pensieri così negativi.