A quelli che “ma che fine hai fatto, sei sparito da settimane, anche dal tuo stesso blog?!” eppure fatichi a ricordare una sola volta in cui si siano prodigati in un commento striminzito, un finto cenno di apprezzamento o perfino un “sì, bravino” di cortesia per una qualsiasi delle tue numerose scemenze scritte. A quelli che “ma perché, tu scrivi? ah, di moda? ah!” e poi passano rapidi a scannerizzarti con lo sguardo per assumere subito quell’espressione di insolito stupore traducibile in “avrò capito bene? ma se è vestito come un mentecatto?” A quelli che immancabilmente ti inondano di messaggi su Whatsapp per aggiornarti sulle condizioni meteorologiche del posto in cui si trovano, sui piatti che stanno fotografando da ogni lato prima di assaggiare, sui loro prossimi, irrinunciabili, acquisti in saldo e non riescono invece mai a digitare un semplice “ciao, come stai?” sulla stessa riga. A quelli che si manifestano sui social solo per condividere i propri fighissimi scatti introdotti da milioni di #cool #party #summer #thepenisonthetable #hofinitoleparoleininglese #peròtifaccioinvidia? ma con tutta probabilità in quel momento si stanno annoiando a morte, lì a testa bassa in disparte a giocherellare con l’amato smartphone. A quelli che ogni occasione è buona per poter piangere miseria e poi sugli stessi social postano quintali di selfie realizzati in pochi giorni ai quattro angoli del mondo e ti viene il dubbio che il Taj Mahal o quei mari tropicali ben visibili dietro ai loro faccini sorridenti forse siano solo degli sfondi posticci appesi alle pareti di casa. A quelli che dalle loro rubriche sentenzieranno il prepotente ritorno di moda per questa stagione del giallo pannocchia, della frangetta scalata da un lato, delle unghie dipinte con miniature di swarovski, il tutto con quel tono solenne poi, spropositato perfino per la più autorevole delle riviste scientifiche, figuriamoci per dei giornalini adatti in molti casi ad incartare il pesce al mercato. A quelli che “tu non hai figli, non puoi capire che stress sia d’estate portarli al mare, tra i giocattoli, la merenda, la sabbia, le urla per farli uscire dall’acqua” e a te viene crudelmente da pensare che se il loro maggiore desiderio fosse stato godere di lunghi periodi di relax avrebbero dovuto fare piuttosto un abbonamento annuale ad una spa e non un bambino. A quelli che “tu non hai capelli, non puoi capire che stress siano d’estate, fra il caldo, la salsedine, le docce giornaliere, la piastra” e a te viene crudelmente da invocare una qualsiasi divinità che possa darti subito ascolto e renderli così calvi all’istante, lì davanti ai tuoi occhi, in modo da poter aggiungere sarcastico di fronte al loro sgomento “un gran sollievo adesso, eh?”. A quelli che da creature caritatevoli condividono ovunque gli appelli per la realizzazione del monumento in bronzo al cane randagio cittadino o si commuovono ad ogni video di gattino dondolante dal lampadario del salotto, poi però sostengono che sia altrettanto legittimo e sacrosanto inneggiare a ruspe, maceti, distruzioni di massa programmate ai danni di altri esseri umani. A quelli che la colpa è sempre e soltanto altrui se non vengono mai ascoltati, compresi, trattati con la giusta considerazione e mai una volta che sorga loro il dubbio di non essere abbastanza originali o interessanti, perché accusare il prossimo della propria inadeguatezza è più comodo e veloce che fare della sana e necessaria autocritica. E soprattutto a me, che grossomodo dalla fine di Febbraio non faccio altro che sospirare contando ad una ad una le ore interminabili che mi separano dall’inizio dell’estate, e quando questa finalmente bussa alle porte mi ritrovo sempre troppo avvilito, stremato, scarico, non solo per gioirne appieno come vorrei ma anche per riuscire a confezionare ad un buon ritmo qualcosa di vagamente appetibile o anche solo grammaticalmente corretto sul mio stesso blog. Che la bella stagione appena iniziata ci conceda di ritrovare parte delle energie indispensabili per pensare, dire, scrivere cose di gran lunga più intelligenti o sensate. O, in alternativa, pile di buone letture o di sudoku facilitati con cui sgombrare la testa sotto l’ombrellone per fare il dovuto spazio a idee ed opinioni migliori. Che sia per tutti una magnifica estate.
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Two weeks notes
Sono trascorse soltanto due settimane dall’ultima volta che i miei pensieri bislacchi hanno trovato il loro adeguato spazio nella generale scombinatezza di questa pagina – un periodo infinfluente se messo in relazione, per esempio, con il trascorrere delle ere geologiche, ingiustificabile se confrontato invece con la rapidità con cui vengono aggiornati altri e più seguiti blog – eppure a me pare un’eternità. Non tanto per le comprensibili lamentele o tiratine d’orecchio da parte di chi, inspiegabilmente, si è così affezionato ai contenuti insensati dei miei vari post, da lamentarne in questi giorni l’evidente mancanza o arrivare a manifestarmi tramite social, e.mail o chilometrici sms di richiamo tutta la propria, apprezzatissima, preoccupazione. Quanto perché quella sfuggente e capricciosa entità che è il tempo, ultimamente è sembrata quasi provare un divertimento sadico nell’infarcire le mie giornate recenti di un’insolita concentrazione di piccole e grandi rivoluzioni, di momenti indimenticabili o al contrario drammatici, di entusiasmanti novità e trasformazioni radicali che in genere faticherei a metabolizzare anche nell’arco di un anno intero. Lasciandomi così spesso in balìa di un soffocante senso di stordimento, diviso come sono fra altalenanti attimi di euforia o di pressoché totale sconforto, ingegnandomi come posso ad inseguire la mia esistenza che attualmente necessiterebbe di un’addrizzatina o almeno di una maggiore pianficazione rispetto all’andamento anarchico che sta adesso rivendicando. Inutile aggiungere che a causa di tutto questo trambusto indesiderato sono mancate la concentrazione, la voglia e le energie occorrenti per scrivere qualcosa di vagamente appassionante o anche soltanto di logico. Ed è il motivo per cui, a quindici giorni esatti dalla mia ultima comparsa qua sopra, mi ritrovo ancor oggi privo di un qualsiasi materiale da condividere, eccezion fatta per alcune brevi annotazioni che ho buttato qui alla rinfusa nella remota speranza che potessi svilupparci, chissà quando, un post più articolato, e che vi lascio sotto forma di piccole lezioni quotidiane che ho tratto dalle numerose dis/avventure vissute.
- Credere alla forza ostinata dei propri sogni, infischiandosene di pressioni o ansietà inutili, perché non è mai troppo tardi per cominciare un nuovo percorso, per chiudere un vecchio capitolo, per concretizzare le nostre più intime aspirazioni, perché, come mi ha dimostrato il mio amore, per quanto possano essere alti gli ostacoli posti dalla vita, l’importante è continuare a voler raggiungere il proprio traguardo.
- Ascoltare con la dovuta attenzione chi ti siede, anche casualmente, a fianco, perché le parole altrui sono finestre spalancate su mondi che non pensavamo mai di esplorare, perché le storie e le passioni incarnate dagli altri, fossero anche lo studio del sanscrito o la danza acrobatica con i tessuti, anche se lontanissimi da noi, possono trasformarsi in un arricchimento improvviso ed impensabile per i nostri limitati orizzonti.
- Coccolare i propri ricordi, senza intenti nostalgici o struggenti rimpianti, perché il passato può sempre decidere di ribussare piacevolmente alle nostre porte, perché ritrovare un vecchio affetto o un rapporto d’amicizia trascurato o dimenticato è una magnifica occasione per un altro, inaspettato inizio, o perché dover dire addio a chi a suo tempo ha riempito le tue giornate con la sua risata fragorosa può diventare meno devastante.
- Ringraziare chi decide di coinvolgerti d’un tratto nella sua vita, magari travolgendoti con la disperazione di uno sfogo imprevisto o affidandoti la preziosità di una più intima confidenza, perché per alleggerire ciò che sembra insormontabile a volte è sufficiente solo un cenno col capo, un caffé o un abbraccio. E perché poi un semplice grazie ha un suono bellissimo, e non costa nulla.
(Ap)punti di lavoro!
Non è il dettagliatissimo mansionario, pochi ma densi fogli contenenti la spiegazione scrupolosa di tutti i miei numerosi compiti da svolgere, che mi ritrovo a rileggere ogni sera con la necessaria calma prima di addormentarmi e con cui ho inevitabilmente finito per rimpiazzare il libro che tentavo invece di concludere da settimane, abbandonato per il momento senza riserve al capitolo sette. E neppure l’improvvisa e magnetica bellezza che si spalanca di fronte ai miei occhi increduli ad ogni angolo o passaggio segreto, in genere vietato al pubblico, esistente nello straordinario e secolare edificio in cui sono capitato, che il mio ultimo quanto inaspettato incarico mi permette al contrario di poter ammirare. La prima cosa su cui sono rimasto a riflettere per pochi minuti, in silenzio, nel mio nuovissimo ambiente di lavoro, l’ennesimo in cui a 29 anni suonati (da tempo) inauguro un’ulteriore tappa della mia incomprensibile e variegata carriera, è, al solito, il cartello ben visibile e un po’ singolare che trovo appeso nel bagno, e che recita “si prega di usare poca carta igienica” (come poca? cioè, uno ne usa quanto crede di averne bisogno, no?), insolito ma sicuramente migliore di quello che ricordo di aver visto una volta nella toilette di in una redazione e che esortava invece ad usare “esclusivamente” la carta igienica (come “esclusivamente”? cioè, non è che uno preferisca altre tipologie di carta per certi scopi, no?): dettagli in teoria insignificanti che però la dicono lunga su cosa catturi in realtà la mia bizzarra attenzione e rimanga poi impresso a lungo nella mia memoria, occupando il posto di tante altre informazioni sicuramente più utili. Ma tant’è: accantonata per il momento la pur gratificante esperienza milanese che avrei dovuto replicare proprio in questi giorni e optato al contrario, con serenità, per un ritorno nel più familiare ambiente museale fiorentino, ecco che mi trovo ancora una volta fare i conti con tutte le incognite, le perplessità e le speranze che un nuovo inizio professionale necessariamente comporta, cercando come sempre di tenere bene a mente i soliti buoni propositi che, conoscendomi, disattenderò in tempi brevi e che vado subito ad elencare:
- provare a placare quell’ansia insostenibile che mi tiene compagnia sin dal risveglio e che mi avrà pur impedito, in questa vita quasi trentennale, di essere giunto in ritardo una sola volta in tanti anni di lavoro, ma che attualmente mi obbliga a rimanere per alcuni interminabili minuti fermo come un baccalà a fissare la macchinetta dove strisciare il mio badge finché non scatta l’ora esatta prevista per l’inizio del mio turno.
- evitare a casa di radermi il viso mentre ascolto e canticchio la mia playlist di vecchi successi dance anni ’70, tipo Diana Ross o Donna Summer, perché poi la tentazione di ballarci sopra è sempre tanta e puntualmente va a finire che mi procuro piccole ma profonde ferite alla gola e al mento, che destano sempre un’insana curiosità sul lavoro e che non posso stare a spiegare senza risultare nell’opinione altrui un po’ picchiatello.
- riuscire a mentire anche con il volto, o almeno, ad accordare quel “no, figurati, nessun problema” che la mia voce riesce, non so come, a pronunciare alla perfezione, con un’espressione facciale che sia un tantinello più adeguata, perché è al momento prematuro mostrare in certi casi tutto il mio disappunto, che al contrario sembra sempre affiorare con chiarezza come se l’avessi tatuato a caratteri cubitali sulla fronte.
- vincere la mia personale resistenza all’uso delle chiavi minuscole che ho sempre detestato, tipo quella della cassetta della posta relegata da anni chissà poi dove, perché le bollette e le lettere le ho sempre recuperate infilando audacemente le dita con manovre serpentine e perché al lavoro invece devo riordinare e riconsegnare qualcosa come una dozzina di odiosissimi mazzi diversi.
- ripassare mentalmente tutti i nomi dei numerosi nuovi colleghi, che carinamente si sono presentati sin dal primo giorno mentre io ero troppo assorto a scrutarne i visi con tutti quegli interessanti particolari su cui in genere mi soffermo (la forma delle sopracciglia, il taglio di capelli, ecc.), e così mentre loro mi salutano già da un po’ con un affettuoso “Ciao Alessandro” io riesco solo a replicare più banalmente “Ciao…ehmm, mmmh..(come accidenti si chiama?)!”
- evitare soprattutto di affezionarmi, come spesso mi succede, proprio agli stessi colleghi appena menzionati, anche se mi ci vorrà ancora qualche settimana per impararne i nomi ma non per dar loro maggiore confidenza, perché in alcuni già riconosco persone a cui posso voler bene all’istante e perché tanto tra sei mesi, con tutta probabilità, dovrò ricominciare, in un altro posto, con altri, personalissimi e strampalati, buoni propositi da non rispettare.
Se per caso cadesse il mondo…
Non ricordo il momento esatto di quella drastica e, speravo, salvifica decisione, ma non escludo che possa essere avvenuto in treno. A pensarci bene la colpa è forse proprio di quegli ultimi due faticosissimi anni vissuti da pendolare, la sveglia da sintonizzare ogni sera a ridosso dell’alba, le corse forsennate al mattino per raggiungere quanto prima la stazione, il sonno ancora così insistente sulle palpebre mischiato al timore quotidiano di perdere il convoglio in partenza. E poi tutto il tempo trascorso inutilmente lungo i binari, al riparo dal vento, maledicendo i continui e sfiancanti ritardi, e ancora quello speso invece sui vagoni ad osservare l’umanità variegata e stanca toccata dalla stessa, poco invidiabile sorte, a rimuginare soprattutto, nelle tre ore giornaliere di viaggio, sull’andazzo scriteriato e poco gratificante che la mia esistenza aveva allora irrimediabilmente assunto. Abitavo, o meglio, vivacchiavo in una città e lavoravo in un’altra, vittima io, come molti altri, di quegli spericolati equilibrismi con cui tentiamo, alla meno peggio, di tenere ugualmente in piedi vita sentimentale e professionale, penalizzando in molti casi l’una e annaspando nell’altra, perennemente in cerca dell’entusiasmo necessario alle nostre giornate, smarrito tra la confusione di una testa sempre altrove, indaffarata al contrario a pianificare, recuperare, centellinare ogni attimo di una realtà così serrata. Semplicemente, ad un certo punto, non ho più retto. E mi sono allora illuso di poter individuare il colpevole di tanto insopportabile sfinimento al di fuori di me, in quel mostro vorticoso e fagocitante di energia che è la città con i suoi meccanismi astrusi, la sua umanità distante, la sua labirintica e spersonalizzante facciata, giudicata schiacciante per le mie forze modeste. Prova a fare un passo indietro perciò, mi dissi, guarda bene a fondo ciò che davvero sei e da dove vieni, alla fine sei rimasto quel ragazzotto (?) di provincia che non si affrancherà mai dal costante senso di inadeguatezza che ti suscita ogni volta il dover fare i conti con la frenesia della vita metropolitana. Sei cresciuto scorazzando nei vicoli di un piccolo centro che gli anni, la nostalgia e la lontananza hanno a poco a poco mutato in un posto avvertito come meno soffocante di un tempo, in cui tutti gli altri conoscono in parte la tua storia o almeno il tuo nome, in cui il tuo disperato bisogno di radici e di sentirti totalmente a casa non è stato mai altrettanto appagato altrove. La possibile soluzione, credevo, poteva essere liberarsi con urgenza dalla mia movimentata quotidianità, divenuta fin troppo rocambolesca, per abbracciarne un’altra che fosse innanzitutto più ridotta, stabile, accogliente.
Ed è la ragione per cui, quattro anni fa oramai, sono approdato in questo minuscolo, ruvido e disorganizzato paesino, che la gioventù locale, per comodità o forse per donargli una sfumatura di figaggine in più, piuttosto assente a dire il vero da queste parti, è solita indicare con tre lettere lapidarie, Tav, nome che sembra evocare più un cantiere a cielo aperto che una ridente e vivibile cittadina al confine con l’aperta campagna. Un cantiere apparentemente interminabile, in realtà, di quelli seguiti, sin dalle prime ore del mattino, da stuoli di pensionati che commentano immobili da dietro le transenne, con le mani intrecciate sulla schiena, c’è anche qui, giustificato da un progetto di riqualificazione di una (o meglio, dell’unica) piazza, che ha di fatto smantellato la sede dell’antica stazione dismessa, per fare spazio ad un’enorme e grigia tettoia, per adesso paragonabile a un gigantesco distributore di benzina, così fuori scala poi rispetto all’altezza contenuta delle altre palazzine circostanti. Un centro né particolarmente gradevole né memorabile dal punto di vista estetico, in cui sono rimasto imbrigliato, secondo quella prevedibile logica che governa ogni piccolo paese, nell’etichetta con cui si tende a identificare ciascuno degli abitanti, nel mio caso quella del tizio con l’accento diverso, il “forestiero”. Lo sono per l’edicolante da cui vado a ritirare, ogni sabato mattina, le riviste che mi ha messo da parte durante la settimana e che mi porge sbuffando il solito buongiorno annoiato, lo sono per Marco, il gentile e stralunato proprietario della sola ma fornitissima cartoleria, lo sono per la farmacista petulante, dalle riconoscibili origini partenopee, che tenta sempre di rifilarmi qualche costoso prodotto di bellezza (“Lo vuole provare questo siero per il contorno occhi?” “E’ un modo carino per farmi notare che ho le zampe di gallina?” “Certo che no, è solo una promozione. Preferisce forse una crema snellente per l’addome?”). Fino a ieri, appunto, quando la monotonia imperante in questo posto, in cui l’episodio più eccitante è rappresentato ogni anno da quei tre, quattro turisti stranieri che si spingono fin qui, per sbaglio, nel tentativo di raggiungere a piedi la vicina zona del Chianti, è stata scossa, è proprio il caso di dirlo, da un terremoto di media – lieve entità avvenuto nella notte ed avvertito un po’ ovunque nei dintorni, finito il giorno seguente per diventare il fatto più commentato sulla bocca di chiunque.
“Io un me la son sentita di rimanere in casa, con la Piera la siam scesi in macchina e abbiam dormito lì” esordisce il signore in coda davanti a me in lavanderia, dove sono passato per ritirare la trapunta color glicine che ho sottratto poco tempo fa da camera dei miei, perché l’ho trovata perfetta in abbinamento alle mie lenzuola verdi. “L’era tutt’uno sbatacchiare i’ letto, tu sentissi, anch’io l’ho passato tutta la notte a giro, icché tu credi? e c’eran tutti!” controbatte la signora dall’altro lato del bancone, dotata di una pettinatura così ardita come solo quelle della compianta Rita Levi Montalcini “le bambine poi, l’hanno avuto una paura, porine, un l’avevan mai sentito” aggiunge poi una terza, più giovane e squillante voce, che sembra giungere dal locale posteriore “i’ mi’ nonno poi m’ha sempre detto che il terremoto quello brutto del 1909 l’è stato proprio qui, eh!” (“ecco, pure zona sisimica”, penso io “un altro posto dove venire a vivere proprio non c’era, no?”). “E lei?” mi fa d’un tratto il primo signore menzionato “l’ha sentita che botta stanotte? Dove l’è andato?” “Ecco, ehm, io, veramente…sono rimasto a casa perché…no, via, non ho sentito niente….dormivo!”. Scende di colpo silenzio. La signora più giovane si affaccia perfino dall’altra stanza per guardarmi in faccia. “Ah, e già che c’è dovrei ritirare la trapunta, quella color glicine…quella lì, sì, grazie!”. Me la porge. Nessuno ha più detto una parola. Credo che d’ora in avanti, qui si ricorderanno di me per altri motivi: il forestiero che in caso di terremoto toccherà andare a controllare se stia bene, lì tra le macerie, magari avvolto nella sua trapunta…ma di che diamine di colore è poi?
Alt(r)aRoma
Per un impegno improrogabile arrivo con un giorno di ritardo. Pazienza, il calendario pare comunque denso di appuntamenti, gli eventi in programma sembrerebbero piuttosto numerosi, qualche collezione interessante dovrei pur riuscire a vederla. Peccato che il mio smartphone abbia deciso, proprio durante il viaggio, di cominciare la sua lenta e drammatica agonia verso una fine poco tempestiva. Di usare la fotocamera del cellulare, per immortalare i momenti salienti della kermesse, perciò, non se ne parla. E stavolta non ho neanche con me una macchinetta digitale; a dire il vero, per non appesantirmi di bagagli, non mi sono preoccupato neanche di portare, come faccio di solito, il mio beneamato pc. Tecnologicamente inattrezzato, incupito dall’insolito grigiore del cielo ma armato delle più buone intenzioni, mi accingo perciò a seguire la XXVI edizione di AltaRoma, la manifestazione di haute couture capitolina, che quest’anno non mi sarei perso per niente al mondo, visti soprattutto i noti momenti critici che a meno di un mese dal suo avvio, hanno rischiato di comprometterne del tutto la realizzazione. E invece no. Dal 30 Gennaio al 2 Febbraio, dopo un provvidenziale stanziamento di fondi, con il contributo dello stesso Comune di Roma, la manifestazione è andata in scena: 30 appuntamenti tra sfilate, eventi e presentazioni, un discreto numero di iniziative dedicate ai talenti emergenti, qualche piacevole sorpresa sbucata tra nomi vecchi e nuovi. Quello che segue sarà dunque il personalissimo racconto della quattro giorni di alta moda, condito con tanto di retroscena (spero) divertenti, le immancabili osservazioni o critiche del sottoscritto, le frasi più ironiche o fuori luogo rubate agli altri ospiti e lavoratori presenti. Buona lettura.
La location: Accantonato il complesso di Santo Spirito in Sassia, cornice delle recenti passate edizioni, la kermesse si svolge tra due diverse sedi, vicinissime tra loro: il MAXXI, il Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo, superbo e avveniristico progetto di Zaha Hadid, e lo Spazio Altaroma, una tensostruttura provvisoria situata davanti all’Auditorium Parco della Musica. Bene: la scelta del MAXXI, il cui avvincente volto contemporaneo si sposa magnificamente con le collezioni dei giovani designer lì accolte, oltre a rappresentare un sensazionale ingresso per stampa e ospiti. Così così: la tensostruttura, soluzione dettata da ovvie esigenze di rapidità, non incontra le simpatie generali, e viene malignamente ribattezzata “Il Circo Nero”, “La tendopoli”, “Il sacco della monnezza”. Assente un punto di ristoro (gratuito) per operatori, fotografi e stampa accreditata, rimpiazzato dal bar del MAXXI stesso (a pagamento). Da sottolineare: la gentilezza e la professionalità del personale del bar citato, per la prima volta alle prese con le bizzarrie del popolo della moda. Il commento rubato: “Ma perché si chiama MAXXI?” “Mbeh, non vedi quanto è grande?” (due fashion victims in coda dietro di me per l’accredito, evidentemente all’oscuro dell’acronimo del museo)
Accademia di Costume e Moda: il Talents 2015 Fashion Show è forse il momento più entusiasmante dell’intera manifestazione: le 10 mini – collezioni presentate dagli altrettanti studenti diplomati alla celebre scuola, che proprio l’anno scorso ha festeggiato i suoi 50 anni di attività, convincono per l’originalità di idee e l’ottima esecuzione. Bene: Nicolas Martin Garcia, il vincitore decretato dalla giuria di esperti, fa il pieno di applausi per il suo défilé Lolito, una collezione uomo colorata, sopra le righe, di travolgente ed efficace ironia. Così così: il lunghissimo discorso di ringraziamento di Marco Mastroianni, responsabile creazione materiali di Louis Vuitton ed ex alunno dell’Accademia, premiato per la sua carriera da Giovanna Gentile Ferragamo, a cui fortunamente verrà poi passato il microfono. Da sottolineare: le raffinate e femminili creazioni di Tommaso Fux, con cui si apre l’evento, frutto della sensibile visione di un designer davvero promettente. Il commento rubato: “Ma quella con quella cofana non potevano metterla in fondo, che seduta lì davanti non si vede niente?” (un tizio della sicurezza sulla presenza della blogger Diane Pernet in prima fila con la sua acconciatura gotica a torre).
Piccione.Piccione: ultimo vincitore, soltanto lo scorso Luglio, del decimo concorso Who is on next?, il progetto di scouting realizzato da AltaRoma in collaborazione con Vogue Italia, il giovane designer Salvatore Piccione presenta in anteprima la sua prossima collezione A/I di prêt – à – portér. Bene: Coerenti, ben strutturati, onirici eppur ugualmente indossabili, gli abiti di Piccione Piccione sono un crescendo di poetiche soluzioni, spesso evidenziate da ricami scintillanti in 3D. Così Così: certi grafisimi insistiti e certi accostamenti cromatici ricordano un po’ troppo lo stile decorativo di Valentino. Più riuscita la prima prova di Luglio. Aspettiamo con ansia la terza. Il commento rubato: “Ma se è lo stilista è solo lui, perché il brand si chiama Piccione.Piccione?” “Aveva cominciato con il fratello!” “Ah, certo, Due Piccioni non potevano chiamarlo, sai le battute!” (la blogger al mio fianco che tenta inutlimente di istruire il compagno in materia).
Daizy Shely: brand nato dalla fantasia dell’israeliana Aliza Shalali Deizy, formatasi a Milano, dove ha tuttora il proprio atelier, e vincitrice insieme a Salvatore Piccione dello scorso Who is on next?, come lui invitata a presentare la sua prossima collezione invernale di ready to wear. Bene: le camicie e i capispalla dalla maniche lievemente scese, coronate da lunghi polsini fiammeggianti trattenuti da grandi fiocchi, che allungano otticamente le braccia ridisegnando così una nuova silhouette. Così così: tanti spunti diversi, non sempre fusi con la dovuta armonia. Troppa carne al fuoco, insomma. Il commento rubato: “A me è piaciuto il top di piume viola sopra la longuette verde” “non faceva troppo uccello del paradiso?” (due giornaliste in vena di eccentricità all’uscita).
Antonio Grimaldi: tra i couturier più talentuosi della sua generazione, poco incline ad eccessi o colpi di teatro, eppure in grado di distinguersi ogni volta per garbo e raffinatezza, Grimaldi dà vita ad una riuscita collezione di alta moda per la prossima primavera/estate. Bene: innegabile e ben presente il concetto di leggerezza che permea l’intero défilé, dalle creazioni eteree e impalpabili, grazie alla maestria di lavorazioni e tessuti quasi evanescenti. Così così: pressoché assente il giorno, introvabili tailleur o pantaloni, sembra che la donna di Grimaldi non badi mai alla praticità ma viva unicamente ricoperta di volants. Il commento rubato: “Ma chi è quella fotografata accanto alla Cucinotta?” “La ex moglie di Raoul Bova!” “Ah…e cosa fa adesso?” “Non saprei…ma per averlo lasciato io le dedicherei comunque una piazza!” (due giornaliste in vena di gossip all’ingresso).
Project149: finalista al concorso Who is on next? del 2014, il duo creativo Monica Mignone ed Elisa Vigilante illustra le sue proposte di ready to wear del prossimo inverno. Bene: una collezione portabile, ben studiati gli abbinamenti cromatici, il mix di tessuti, dosate con cura le stampe. Così così: nel parterre alcune penne autorevoli del giornalismo di moda fatte sedere dietro a blogger ventenni e sconosciuti. Il fuori programma: al termine della sfilata una signora inciampa sulla passerella e cade rovinosamente a terra, dove rimane per alcuni minuti, tra le premure dell’ufficio stampa e la generale indifferenza degli altri ospiti che la scavalcano pur di guadagnare l’uscita.
Quattromani: Altri finalisti di Who is on next?, questa volta nel 2013, Massimo Noli e Nicola Frau portano una loro capsule collection per l’autunno/inverno 2015. Bene: buona la costruzione degli abiti, forme e lunghezze sufficientemente armoniche, azzeccati i tocchi iridescenti. Così così: 40 minuti di ritardo per una sfilata si perdonano solo a Giorgio Armani. Il commento rubato: “Non saprei, mi è sembrata senza un sapore preciso, come un risotto mari e monti” (una giornalista al termine del défilé, forse in preda a un languorino).
Curiel Couture: Storica maison dell’alta moda italiana, di tradizione tutta al femminile, Raffaella Curiel e sua figlia Gigliola scelgono per le proprie creazioni di ispirarsi al folklore del continente asiatico. Bene: i curiellini, i celebri completi da giorno ideati dalla couturier, in versione ancor più sobria e impeccabile, abbinati a divertenti scarpe bicolori. Così così: l’uscita finale con l’abito che riproduce nelle stampe la Canestra Ambrosiana di Caravaggio, fatto sfilare sulle note di Va, Pensiero. Ridondante. Il commento rubato: “Guarda, io voglio molto bene a Raffaella e a Gigliola, ma la collezione, diciamolo, è un po’ antica” (una giornalista che esterna la sua singolare idea di affetto).
Greta Boldini: brand che nel nome esprime la sua ricercatezza, unendo due icone di stile come Greta Garbo e il pittore Giovanni Boldini, dietro cui si cela la creatività dei designer Alexander Flagella e Michela Musco, finalisti a Who is on next? nel 2013. Bene: una collezione rigorosa e sontuosa al tempo stesso, dalla riuscita vocazione sperimentale nella combinazione di tessuti e ricami. Stupefacente il finale, con le modelle congelate in un tableaux vivant di creazioni (foto). Così così: alcuni volumi essenziali, impreziositi da applicazioni, seppur egregi, ricordano certe soluzioni recenti di Prada. Peccato. Il commento rubato: “La passerella è fatta ad U, e me le fai sfilare in diagonale? E io come le riprendo, a zig – zag?” (un cameraman infastidito dalla scelta della regia).
Catherinelle: Attrice, modella, pittrice, ma soprattutto designer di accessori, la bellissima Catrinel Marlon organizza un cocktail party per presentare la sua nuova collezione di borse chiamata Sublime. Bene: l’ispirazione anni ’70 delle forme, la palette cromatica sui toni autunnali, le fodere realizzate in tessuti vintage. Da sottolineare: la cortesia e la disponibilità dell’ufficio stampa che ci fa entrare con mezz’ora di anticipo per gustare la collezione senza il contorno di folla invitata all’evento. Il fuori programma: una nevicata improvvisa piomba sugli ospiti in attesa, dando luogo a una serie di esilaranti scivoloni sui tacchi.
A.I. Artisanal Intelligence. Evento tra i più interessanti della kermesse, per il dialogo tra diverse forme creative, il percorso di questa edizione si snoda tra la pittoresca Villa Poniatowski e la galleria d’arte contemporanea AlbumARTE. Bene: il singolare confronto tra le storiche maglie di Albertina e le creazioni del giovane couturier Gianluca Saitto. Così così: gli abiti originali settecenteschi, esposti senza alcun tipo di protezione dal pubblico, un rischio davvero enorme, da non correre mai. Il commento rubato: “Sì, bello, mi è piaciuto…vabbé, che sta a fa’ la Roma con l’Empoli?” (un fotografo con la testa alle sue priorità calcistiche).
Sono di nuovo in treno, per fare ritorno a casa. Questa è la prima frase che scrivo, a mano, come d’altronde i migliaia di appunti presi in questi giorni. Mi verrà un post lunghissimo, già lo so. Purtroppo lo smartphone non si è più ripreso, sennò vi avrei fotografato la cupola di San Pietro che sto guardando dal finestrino, illuminata dai raggi del sole che finalmente si è deciso ad uscire. Che città magnifica. Colonna sonora ideale: Arrivederci Roma.