Vien Gennaio freddoloso…

Così cominciava la primissima, e allora giudicata interminabile, filastrocca sui mesi, imparata non senza qualche difficoltà alle elementari e sfortunatamente mai più scacciata dalla testa, che la maestra Paola ci aveva insegnato a ripetere al ritmo della medesima cantilena sincopata con cui a scuola, qualche decennio fa, ti portavano ad interpretare un po’ tutto, dalla preghiera mattutina (ci toccava anche quella) alla tabellina del nove. “Vien Gennaio freddoloso, con la barba di ghiaccioli” e poi giù, tutto l’elenco serrato dei mesi a venire, a cui spesso ricorrevo mentalmente per ricordare la giusta collocazione di Aprile e Maggio durante l’anno, perché a 6 anni mi poteva capitare di invertirne l’ordine, così come di ignorare il significato di qualche aggettivo presente nella stessa poesiola, tipo “brullo”, indicato più avanti per descrivere Novembre, e che io all’epoca reputavo una sorta di insulto fantasioso, perché si avvicinava nel suono al mio toscano e già utilizzatissimo “grullo”. “Vien Gennaio freddoloso, con la barba di ghiaccioli” mi sorprendo ancora oggi a ripetere in silenzio, quando al mattino presto, appena alzato, per prima cosa mi affaccio per sbirciare il giardino sepolto da una coltre di scaglie biancastre, tra cui talvolta rinvengo le mie mollette per i panni, cadute dalla finestra, come fossero piccole meteoriti coperte da una corazza sottile di ghiaccio, o quando mi fermo a guardare compassionevole l’unica rosa gialla presente nel vialetto chiedendomi se troverà la forza di rifiorire anche quest’anno, quando mi scontro soprattutto con la mia solita inettitudine all’inverno e arrivo a contare esattamente i giorni che mi separano dalla tanto agognata estate (ad oggi 149). E’ inevitabilmente arrivato Gennaio anche quest’anno insomma, con il suo carico di aspettative bislacche e buoni propositi da stilare per poi accartocciare, con il primo appuntamento con cui in genere scandisco il tempo che passa, il compleanno di mia cugina (e coetanea) Francesca, che stavolta ho raggiunto nella sua nuova e labirintica casa nella campagna senese, tra camini accesi e vecchie stufe di ghisa, finendo naturalmente per ricordare durante il viaggio tutto il fantasticare sulle nostre vite fatto insieme in passato, quando da bambini spericolati e agilissimi sognavamo al contrario un futuro da ballerini, ginnasti o trapezisti, e ci sembrava davvero l’impresa più facile del mondo poterlo un domani realizzare. E’ giunto Gennaio, e del tutto indifferente all’umano e comprensibilissimo desiderio di cominciare l’anno nel migliore dei modi, ci ha sadicamente privato in maniera trasversale di alcuni artisti che hanno in qualche modo arricchito le nostre esistenze o forse, senza esagerare, l’umanità stessa, che può comunque ancora benissimo annoverare tra il suo patrimonio le superbe canzoni di David Bowie o i capolavori cinematografici di Ettore Scola, ci mancherebbe, ma la scomparsa dei loro autori ce li riveste adesso di una nuova e così triste luce. E con Gennaio ho dovuto salutare per sempre anche Marina, che non è di certo famosa come gli altri personaggi qui sopra citati, e forse non l’avrebbe mai neppure desiderato, perché spesso dimentichiamo quanto sia rara e straordinaria l’umiltà delle persone che scelgono invece di rimanere nell’ombra, con il solo e concreto scopo di alleggerire le vite altrui. “Vien Gennaio freddoloso, coi suoi undici figlioli. Che simpatica famiglia”, continuava la filastrocca, e a pensarci bene nei miei ricordi di allora non provavo nessun fastidio o stupore per questa frase riferita a una realtà forse atipica, un padre, nessuna madre, un numero esorbitante di figli, eppure né io né alcuno dei miei compagni si sarebbe mai sognato di mettere in discussione il valore di quella parola lì usata, “famiglia”, perché i bambini, dietro cui spesso ci barrichiamo o nascondiamo il nostro bigotto e ottuso integralismo, mostrano al contrario una naturale e disinvolta apertura mentale che tanti adulti (e politici?) dovrebbero forse prendere ad esempio. E proprio mentre in questi giorni il dibattito maggiore, anche pubblico per fortuna, riguarda appunto diritti e riconoscimenti delle famiglie, leggi necessarie e unioni civili, tutti passi rivoluzionari che mi auguro possano finalmente arrivare a  breve, sorrido mentre mi trovo a credere che la migliore e più calzante definizione anche per gli stessi nuclei familiari sia proprio quella scovata nella filastrocca per descrivere i diversi mesi dell’anno: “nessuno si somiglia e a suo modo, ognuno, è bello”.

Al mio tre…

Rischierò di apparire più maniacale di quanto non sia in realtà (oddio, se vi fosse già capitato di leggere qualcuno dei miei vecchi post credo sia tardi per poter rimediare a questa dannosissima impressione), ma, come vado ripetendo ormai ogni Dicembre dal 2012, anche stavolta ci tenevo a ricordarvi che, ad oggi, sono trascorsi esattamente tre anni dall’avventuroso, zoppicante e incredibilmente duraturo avvio di questo blog. Per la precisione poco più di 36 mesi (cifra che fa tanto etichetta di giocattoli provvisti di minuscole parti che potrebbero essere facilmente ingerite), o se preferite 1097 giorni (considerando l’assenza di un anno bisestile e le 48 ore di ritardo sulla scadenza puntuale del terzo anniversario); eviteri però di specificare i minuti, ma vi assicuro che mi basterebbe poco per poterli contare con esattezza, visto che ricordo ogni singolo istante relativo alla nascita di questo spazio virtuale catartico, modellato con urgenza al fine di placare, per mezzo della scrittura, la maggior parte delle mie inquietudini interiori. Anche se da allora mi sembra di aver davvero vissuto, proprio come uno di quei numerosi gattini che andate condividendo con incomparabile gioia (la vostra) su Facebook, sette diverse e schizofreniche esistenze. Perché in questo lasso di tempo sono arrivato a cambiare qualcosa come cinque differenti professioni e almeno otto luoghi di lavoro, trasferendomi o spostandomi di continuo fra tre, per fortuna splendide, città, cominciando soprattutto a detestare quella in cui avevo deciso di vivere per motivi sentimentali, ma che si è poi rivelata ai miei occhi particolarmente arida e poco stimolante. Prendendo, per sopravvivere, centinaia di treni, accumulando stress e ore di ritardo, perdendo il convoglio in partenza almeno una dozzina di volte (e maledicendo di corsa mezzi e/o personale), sbagliando in due occasioni binario, per ritrovarmi così a trascorrere un intero pomeriggio nella squallida stazione di Zagarolo (meta sconsigliabilissima), o un venerdì notte su e giù per l’Italia, in una triangolazione insensata fra Milano – Roma – Firenze, ad ubriacarmi con del pessimo vino rosso offerto da Trenitalia. Oppure percorrendo in auto, io che oltretutto detesto guidare, migliaia e migliaia di chilometri, tenendo a bada la solita ansia al volante con personali e strazianti performance di canzoni di Mina o Whitney Houston scelte come sottofondo e con il mio amore spesso a fianco, che puntualmente si addormenta dopo cinque minuti esatti dalla partenza per risvegliarsi a cinque minuti dall’arrivo, annunciati da un suo candido “Già arrivati?”.

Ho inoltre ripreso a insegnare, dopo una secca e credevo definitiva rinuncia, più di un ripensamento, un paio di offerte allettanti e, ad oggi, già circa duecento nuovi allievi, fra i 18 e gli 85 anni, nei cui singoli sguardi provo di continuo a scorgere il reale interesse, trovandovi talvolta anche la noia, perfino una diffidenza sottile, per fortuna anche autentica passione o, più di rado, una stima spropositata nei miei confronti. Ho ugualmente tentato di insegnare a mia nipote qualcosa di altrettanto fondamentale, riuscendoci solo in parte con le costellazioni che le mostro sul mappamondo luminoso tenuto in camera da letto, le sole e le stesse tra l’altro che ricordo sin da bambino perché imparate all’epoca da mio padre in certe piacevoli sere d’estate. Sono sceso a patti con il tempo che passa, trovando raffinata la scelta di mia madre di lasciarsi finalmente imbiancare tutti i capelli, accettando un po’ meno volentieri ogni mia nuova ruga avvistata allo specchio, sorprendendomi ad ogni “ma non sei cambiato affatto!” ripetuto da chi incontro dopo tempo, replicando “sai, una spruzzatina di botox ogni tanto” e pensando in realtà “starà fingendo o davvero non ha notato questa nuova graticola di solchi intorno agli occhi?”. Sono riuscito a ingrassare di ben 12 chili, per poi perderne a fatica 8 e sconsideratamente riprenderne altri 3, e adesso che si avvicinano le feste ho già stilato per il 2016 un nuovo programma di mantentimento/sport/rinunce che manderò di sicuro all’aria entro il 10 Gennaio. Ho aspettato decine di strabilianti tramonti sul mare pensando sempre che valesse la pena vivere solo per poter godere di uno spettacolo del genere e ugualmente invocato la morte ogni volta che mi sono trovato a risalire faticosamente da quelle lontanissime spiagge, a piedi, in mezzo al buio pesto, per aver fatto tardi a guardare il sole scendere. Ho scoperto, in una sorprendente serata lavorativa passata con dei divertenti ex colleghi, che riesco a guardare su YouTube i video sui vermi carnivori degli abissi, non trovandoli poi neppure creature così ripugnanti, almeno non come i rospi, che al contrario considero fra gli esseri più disgustosi, come ho appurato pochi mesi fa quando, fuori casa di mia sorella, ne ho scovato uno gigantesco e non sono riuscito a muovere un muscolo per alcuni minuti. Sono finalmente riuscito a liberarmi di molti oggetti inutili collezionati negli anni, attribuendo più valore al pensiero dei ricordi che non alle cianfrusaglie accumulate, assaporando con più gusto il presente senza dover ricorrere continuamente alla presenza fisica o agli indizi del passato, e ora che ci penso, ho perfino lasciato per due volte il mio indispensabile spazzolino da denti a casa degli stessi amici che spesso mi ospitano e che adesso sospettano una mia sotterranea volontà di trasferirmi da loro. Ho imparato soprattutto a convivere con il dolore per chi se n’è andato troppo presto, con la delusione per chi ha deciso di voler uscire dalla mia esistenza o comunque di ridimensionare, tralasciare, o troncare il rapporto che ci legava, perché per quanto sia penoso salutare le persone che vorresti continuassero a far parte della tua vita, non si può certo obbligarle a far coincidere il loro cammino con il tuo. Insomma, anche grazie a questo blog, mi riguardo con lucidità e mi riscopro diventato nel tempo più tollerante, maturo (oddio, più o meno) sereno (quello sì).

E già che ci sono, aggiungerei un’ultima, sincera, considerazione: ho quasi quaranta, spaventosi e bellissimi, anni. Gli ultimi tre dei quali, zeppi di scivoloni e tentennamenti, singolari disavventure e speranze concrete, mi sono ritrovato a narrare, forse con passione discontinua ma, spero, con la doverosa ironia, su questo strampalatissimo mezzo virtuale. E adesso come adesso, per nessuna ragione al mondo, vorrei tornare indietro, anche per un solo giorno, ai miei pur piacevoli, spesso allegramente dichiarati, eppure, oggi ai miei occhi così imperfetti e lontani, ventinove.

Corde autunnali…

Michele ha poco più di quarant’anni, una buona percentuale di sangue partenopeo nelle vene, un’invidiabile cultura da autodidatta in filosofia e discipline orientali, quattro splendidi figli maschi dalla medesima corporatura sottile e longilinea e una compagna simpaticamente brontolona, da lui stesso talvolta ribattezzata Santippe, come la più nota moglie di Socrate. Per lavoro guida i mezzi pubblici, compreso il 28 che è un lungo mostro a due vetture snodabile nel centro, impossibile da manovrare con quella calma poi che a lui invece non sembra mai venir meno al volante neppure in mezzo al traffico più infernale, e quando capita che mi incroci per strada con il bus ecco che attacca a suonare il clacson in maniera insistente, affacciandosi contemporaneamente dal finestrino per urlarmi sempre qualcosa di cui negli istanti seguenti mi vergognerò tantissimo, una volta lì da solo sul marciapiede. Oppure, se riesco a beccarlo sulla linea che dal sovraffollato centro cittadino mi riaccompagna nella località piatta e semisperduta in cui vivo, rimango per tutto il viaggio in piedi accanto a lui, riempiendolo di chiacchiere in barba al divieto di non disturbare il conducente e agli sbuffi delle tante vecchiette timorose di saltare la propria fermata, stessa cosa che accade anche quando le nostre due dolci metà, colleghi di lavoro, nel passeggiare ci lasciano sempre una decina di metri indietro per aggiornarsi reciprocamente su vari gossip di persone a noi ignote, che loro riescono, non si sa come, ad individuare con semplici frasi del tipo “Hai saputo più niente di cosa, quella? Sì, brava, proprio lei!”. Proprio come l’altra sera quando, su di un Ponte Vecchio reso quasi impraticabile dalle decine di turisti che accerchiavano tutti esultanti un musicista di strada, Michele mi fa d’un tratto “Ah, mi sono iscritto in palestra ad un corso di grappling, hai presente?” “Certo che no!” “Conosci forse il jiu jitsu brasiliano, le MMA?” “Benissimo, guarda…ma no, di cosa diamine stiamo parlando?” “Vabbè, te la faccio semplice, è un tipo di lotta in cui devi costringere a terra l’avversario. La cosa interessante è che fa proprio per me, peccato averla scoperta un po’ tardi!”. Adesso, al di là della mia plateale ignoranza in materia sportiva, fermo restando che non esista un limite temporale per seguire o assecondare una nuova passione o lo sbocciare di nuovo interesse, è pur vero che nessuno è eterno e tra le infinite possibilità quotidianamente alla nostra portata qualcosa tocca pur scegliere, escludendo magari in questo modo altre centinaia di attività o ambiti in cui potremmo comunque riuscire o che forse sarebbero addirittura i più vicini alle nostre reali corde. Motivo per cui, complice l’incalzare dell’autunno e della necessità di un minimo di riordino esistenziale, ho stilato un breve elenco delle strade da me nel tempo in qualche modo sfiorate e poi ignorate o abbandonate del tutto per pigrizia, distrazione, vigliaccheria, e che sarebbe invece il caso di ripercorrere prima o poi, se non altro per aver avuto allora la lieve percezione di poterle tranquillamente intraprendere, anche con un certo grado di soddisfazione:

- imparare il portoghese, non dico alla perfezione, ma quel tanto che basterebbe a sostenere delle conversazioni comprensibili, perché potersi esprimere in altre lingue così come individuare punti di contatto con l’etimologia di tante parole l’ho sempre trovato esaltante e perché con Viviane, la mia amica brasiliana trasferitasi in Portogallo e conosciuta soltanto la scorsa estate ho intavolato, con il mio spagnolo scarso e qualche vago ricordo di latino, lunghe, pittoresche e talvolta improbabili chiacchierate.

- fare di nuovo un viaggio con mia sorella, circostanza che non accade da venti anni esatti, all’epoca cioè della foto ancora oggi ben visibile in casa dei miei e che ci ritrae abbracciati sotto l’Eretteo sull’acropoli di Atene, lei allora bionda (in realtà castana), io con ridicola capigliatura scolpita dal gel (e ho detto tutto), perché, tranne il mio amore che quando si trova con me in vacanza non si ferma un secondo neanche se inchiodato al suolo, è l’unica persona che riesca a rispettare e a sostenere le mie sfiancanti tabelle di marcia.

- tornare ad insegnare, anche se è un impegno foriero di incognite e di gigantesche e schiaccianti responsabilità, e anche se, probabilmente, in questa vita non vincerò mai il profondo disagio che mi suscita il sentirmi chiamare “profe”, perché un’ex-allieva incontrata per caso passeggiando per le vie di Trastevere nel venirmi incontro mi ha salutato amorevolmente come “quello a cui devo tutto”, esperienza senza dubbio tra le più gratificanti di tutta la mia intera esistenza.

- riprendere a scrivere con più assiduità, qui sopra o anche altrove, perché per quanto il lavoro e gli appuntamenti quotidiani mi prendano gran parte delle energie e degli spazi vitali, alla fine la scrittura è forse la sola realtà in cui riesca a sentirmi comodo, e perché il buio delle serate autunnali tornerà ad ingolfarmi di pensieri la testa che devo poi necessariamente alleggerire per iscritto. Con l’approvazione, spero, di chi ancora vorrà seguirmi.

Birthday memories

“Se stavolta è un bastone per i selfie giuro che te lo spezzo sulla testa!” provo a minacciare, sopraffatto dalle risate, il mio amore, che fedele ad una lunga, personale quanto insana tradizione, allo scoccare puntuale della mezzanotte con cui si inaugura ogni mio sempre più detestato e inevitabile compleanno, possiede la simpatica abitudine di far sbucare dal nulla un piccolo pacchettino artigianale, pensiero apparentemente romantico, se non fosse che il regalo in questione consista in genere in un oggetto pressoché inutile, particolarmente kitsch, mirato insomma a sbeffeggiare le mie numerose manie o pecche, dall’innegabile vanità leonina (perché fa così comodo incolpare gli astri dei nostri difetti) ai milioni di miei giganteschi e inutili arrovellamenti sul tempo che passa. “No, non è per i selfie. Ma non ci sei andato lontano. Tanti auguri!”. E così, mentre nella testa cominciano a farsi spazio le solite, schiaccianti, inquietudini che mi accompagneranno di sicuro per tutta la giornata a venire (un altro anno? ancora? ma i 29 non li avevo già compiuti abbastanza?) mi ritrovo tra le mani come prima, inaspettata e non saprei dire quanto gradita sorpresa, un’asta telescopica con un minuscolo rastrello metallico fissato alla sommità, in altre parole un “grattaschiena”, attrezzo di cui ignoravo perfino l’esistenza, ma che immagino possa tornarmi utile visto che l’avanzare degli anni sottrae al corpo agilità ed elasticità muscolare. Ma sì, mi dico, forse ricorrere all’ironia rimane l’unico e più salutare metodo per fronteggiare i tormenti che tra poche ore mi assaliranno, quelli che immancabili si ripresenteranno insieme alle candeline da spegnere alla sola idea che anagraficamente starei quasi per rientrare nell’orribile definizione di “uomo di mezza età”, mentre il cervello e la maturità rimangono ahimé quelle di un teenager totalmente impermeabile allo scorrere serrato delle stagioni, e il fisico di recente alleggerito di otto chili comincia invece a mostrare sparsi qua e là piccoli cedimenti strutturali e una silhouette in qualche punto paragonabile a una borsa dell’acqua calda svuotata.

Tutti sforzi poi inutili, intendo quelli fatti per tornare un tantinello un po’ più in forma, perlomeno agli occhi crudeli di mia sorella, che non contenta di aver pubblicato quel giorno sul mio profilo Facebook un vecchio scatto risalente addirittura al mio 5° compleanno, la cui pessima qualità fotografica lo renderebbe forse databile al tardo pleistocene o giù di lì, si è presentata alla cena greca per la mia festa con in dono una raffinata t – shirt rossa (questo glielo concediamo), dall’implacabile però dicitura XL ben visibile sull’etichetta (sgrunt), taglia per di più mai indossata neppure durante i momenti di maggiore dilatazione corporea decretati dalla bilancia e solo da poco superati. Altri momenti piacevoli o memorabili non sono comunque mancati: la quasi totalità della giornata trascorsa al lavoro, leggendo nelle pause un interessantissimo libro sulla body art che tento di portare avanti coprendo come posso, per non svenire, le immagini di artisti dediti a tagliuzzarsi con lamette, interrotta dal pranzo carinamente offertomi per l’occasione da una collega con cui non ho ancora la confidenza necessaria per confessarle lo sbaglio nello scegliere un’insalata di riso con troppi ingredienti verdi, che detesto (“Ma la rucola non la mangi?” “No, è che ho i denti radi, poi mi rimane in mezzo!”), e dalla pioggia incessante di auguri giunta via sms o Whatsapp, a cui ho provato a rispondere il più in fretta possibile sbagliando puntualmente in ogni messaggio parole o icone per deleterio intervento del suggeritore automatico (mi sono partiti in ordine un “grazie bara” invece di “cara” , un equivocabile “cicciolina” invece di “ciccia” e l’emoticon di una cacca al posto di una faccina con un bacio). Preso poi dallo slancio di mostrare la dovuta gratitudine a chi si fosse ricordato della mia festa, dedicandomi qualche minuto del suo tempo, ho anche replicato con un entusiasmo esagerato al “tanti auguri” di una mendicante incrociata per caso in strada, credendo lì per lì che fosse venuta in qualche modo a conoscenza del mio compleanno. Vabbé, dicono che ogni anno che passa sia comunque una conquista: la mia lucidità mentale non sembra essere troppo d’accordo.

P.s. Il grattaschiena giace adesso sul mio comodino, in compagnia di un poggia-occhiali a forma di profilo umano, regalatomi il giorno seguente dalla mia collega Stella, che ha detto di averlo visto e pensato subito a me. In effetti, se si esclude il verde tiffany del materiale con cui è realizzato, dimensione e andatura discendente sono proprio identiche a quelle del mio naso. Comincio anche a pensare che abbia soffiato l’idea al mio amore per il suo pensiero del prossimo anno.

7 chili in…

…meno, innanzitutto, se proprio vogliamo cominciare puntualizzando il primo, vero, significativo traguardo faticosamente raggiunto in questo mio traballante e a tratti gratificante 2015. Ottenuto in tempi ovviamente più rilassati rispetto all’impossibile meta di 7 giorni, come prometteva il celebre film degli anni ’80 richiamato nel titolo di questo post, che mi è di certo arduo ricordare nei dettagli perché usciva nelle sale quasi in contemporanea alla mia venuta al mondo (avevo già confessato i miei 29 anni, giusto?). Dunque, dicevamo: fuori i primi 7 tenaci e odiosissimi chili di quei 10, poi divenuti 12, rapidamente accumulati nell’ultimo lustro e presto archiviati attorno al girovita come un antiestetico salvagente di ciccia, con la malvagia complicità di un indesiderato e persistente stress, di continui e gravosi scombussolamenti professionali e privati, della sottile e mai celata antipatia per il piccolo e scostante paesino in cui mi trovo a vivere, tutti fattori che hanno nel tempo contribuito a farmi preferire l’immediata gioia consolatoria del frigo a un po’ di necessario e salvifico autocontrollo a tavola. Cambiato registro, almeno per il momento: riprese in mano le redini di questo corpo sconsideratamente lasciato in uno stato di abbandono abbastanza prolungato, ho impiegato buona parte di questi ultimi mesi per tentare di rientrare nei miei vecchi panni, metaforici e non, seguendo pochi, semplicissimi passi che vado qui di seguito ad elencare, senza la presunzione di poterli indicare come precetti universali per riuscire a perdere peso (mettersi a dieta è affare molto più serio) ma utilizzandoli come invece come improbabile pretesto narrativo della mia recente (e non ancora ultimata) vittoria sui chili di troppo.

1) Individuare una qualche, anche assurda, motivazione: c’è sempre una causa scatenante, un punto estremo di rottura, un episodio che risuona come un improvviso risveglio di coscienza o uno schiaffo sonoro dato al tuo amor proprio sopito e che ti fa domandare d’un tratto “quand’è che sono diventato così?”. Il mio è, a dire il vero, piuttosto banale: tra le numerose foto che mia madre ogni tanto ripesca a casaccio dagli album di famiglia e che da decenni ritaglia e pieghetta a mo’ di origami, per riuscire ad incastrarle, chissà poi come, in microscopiche cornici di silver plate, riducendo di fatto l’infanzia mia e di mia sorella a una serie di ricordi penosamente sforbiciati in minuscole sagome, ha fatto la sua comparsa uno scatto che avevo, ahimè, dimenticato. Sono io, o meglio, una versione assai più giovane e snella di me, gli anni circa la metà, il doppio i capelli, mentre riemergo in costume da bagno, abbronzato e fluttuante, da uno scivolo in un non meglio identificato parco acquatico. Il riflesso della mia linea appesantita restituito al momento dallo specchio distava ormai troppo da quell’immagine da sirenetto, seppur datata, che non posso neanche sognare di replicare in questa vita, ma trattandosi comunque dello stesso soggetto, un qualche margine di miglioramento potevo, anzi dovevo, provare a prenderlo in considerazione.

2) Evitare i consigli disastrosi di amici e conoscenti: la mia gelataia di fiducia, furbi occhi orientali e marcato accento toscano, vista calare drammaticamente la mia presenza nei pressi del suo bancone, ha da subito compreso le mie intenzioni. “Sei a dieta, eh?” mi dice porgendomi il solito (piccolissimo) cono all’amarena che mi concedo almeno un paio di volte a settimana “questo dunque è il tuo pranzo?” “Il mio pranzo, vuoi scherzare?” “No, no, io l’ho fatto per un periodo, funziona, provaci” “Se provassi sul serio tra 5 minuti mi vedresti prendere a morsi i passanti!”. Christine, la studentessa americana di Denver che incrementa il suo curriculum scolastico con viste guidate gratuite nel posto dove lavoro e che quotidianamente sfinisco di domande assurde sul suo paese (“ma li avete i piccioni in Colorado?” “e un cucciolo di bisonte l’hai mai preso in braccio?”) mi suggerisce invece di andare, come lei, in palestra dall’1 alle 3 di pomeriggio “Sudi tantissimo e poi non c’è mai nessun altro!” “Ecco, e ti sei mai chiesta il perché?”. Niente rinunce drastiche o eccessi sportivi per me: solo un po’ di necessaria moderazione con il cibo (consigliabile i primi tempi una museruola) e un tragicomico corso virtuale di zumba, per ora fermo alla prima lezione, che in genere concludo maledicendo e insultando la mia troppo frenetica insegnante, Robbberta (non è un errore di battitura, lo pronuncia proprio così il suo nome).

3) Instaurare un rapporto amichevole con la bilancia: alla fine è un oggetto come un altro, inutile acquistare un apparecchio ipersofisticato, di quelli che rilevano anche se indossate o meno le lenti a contatto, altrettanto dannoso (soprattutto per la psiche) sfidarla ogni giorno imponendole la vostra stazza, nella remota speranza di aver perso anche solo quel paio d’etti dalla sera alla mattina. La mia ad esempio è un quadrato sottile in simil vetro verdastro, rigorosamente made in Taiwan, che esordisce facendo lampeggiare sul display un saluto sgrammaticato tipo HELO, introvabile in alcuna lingua conosciuta, e che alla seconda riprova consecutiva mi regala sempre quel mezzo chilo in meno rispetto a quanto annunciato nei trenta secondi precedenti. Forse poco attendibile ma di sicuro più confortante. Poi scegliete una farmacia di fiducia, posta al riparo da occhi indiscreti, che si trovi anche a tre, quattro quartieri più in là rispetto a dove vivete, in cui poter entrare con una scusa (comprare le Zigulì funziona sempre) per andarvi invece a pesare ogni 15 – 20 giorni. E ricordatevi di regalare le Zigulì al primo bambino che incontrerete uscendo.

4) Prendersi qualche silenziosa rivincita: studi approfonditi (condotti dal sottoscritto in un libro nero appositamente stilato) dimostrano che solo un terzo delle persone che nel tempo avevano malignamente sottolineato la vostra evidente fase espansiva con frasi carine del tipo “abbiamo messo su qualche chiletto, eh?”, troveranno poi il coraggio di notare in maniera altrettanto esplicita la vostra buona forma ritrovata. Il che non vuol dire che non ne se ne siano rese conto, anzi: anche perché poi, nel più dei casi, sono proprio gli stessi individui che ben più di voi necessiterebbero di una qualche mirata ristrutturazione fisica. Limitatevi a salutarli con il migliore dei vostri sorrisi, facendo scivolare lentamente il vostro sguardo sulle loro pancette o sui loro fianchi rotondetti ancora ben saldi al loro posto e ad aggiungere poi con tono innocente un “Tutto bene?”. E godetevi il momento.