Tutti giù sull’erba!

C’era davvero soltanto l’imbarazzo della scelta. A lungo infatti sono stato indeciso su quale tra le diverse festività, ricorrenze e celebrazioni, che, come in un bus all’ora di punta, paiono affollare e concentrarsi tutte assieme nei prossimi tre, quattro giorni, fosse la più adatta ad essere riportata su questo blog perché maggiormente in linea con il suo altissimo e indiscusso livello culturale. E’ stata un’impresa ardua, ma alla fine, tralasciando il 144esimo anniversario del brevetto della celluloide (che cade proprio oggi 15 Giugno), la celebre (perché, non la conoscete?) festa della gioventù in Sudafrica (che ricorre invece domani, 16 Giugno, e che avrebbe forse arricchito di una sfumatura più internazionale questo post) e la serissima (e quindi inadeguata) giornata mondiale della lotta contro la deforestazione (17 Giugno), ho optato per compiere un ulteriore balzello in avanti e spingermi fino al 18 Giugno. Giorno in cui, a dire il vero, se avessi dovuto dare pienamente ascolto alle mie più profonde passioni, quelle che mi trascino press’a poco dall’infanzia e che hanno già causato a sufficienza danni quasi irreparabili alla psiche del soggetto scrivente, avrei necessariamente ed unicamente fatto spazio ad un solo, imprescindibile, evento: i 70 anni di Raffaella Carrà. Ma siccome di nostra illustrissima signora della tv ci siamo già occupati non troppo tempo fa (http://www.tempiguasti.it/?p=708) ed il blogger (così come il suo pubblico) ha bisogno di argomenti del tutto nuovi e stimolanti, consoni, tra l’altro, all’arrivo (forse stavolta ci siamo) della tanto sospirata bella stagione, ecco che la medesima data ci offre un gradito e sorprendente spunto, che vale la pena di approfondire. Nelle stesse ore che vedranno Raffa soffiare sulle sue candeline, al ritmo di una qualche canzoncina spagnoleggiante, giunge anche l’atteso appuntamento con la giornata internazionale del pic – nic (http://www.ansa.it/web/notizie/photostory/spettacolo/2013/06/13/Moda-arriva-giornata-internazionale-pic-nic_8864633.html).

L’evento, che mi sembra giusto segnalarvi in anticipo, così avrete tutto il tempo a disposizione per saccheggiare il supermercato più vicino, raggranellando le scorte necessarie di crackers e panini da imburrare (perché, la prima fondamentale regola per la riuscita di un buon pic – nic è che non bisogna peccare di avarizia con la quantità di cibo trasportato), in realtà cade di martedì, nel bel mezzo della settimana lavorativa. Adesso, a meno che la vostra professione non sia quella di giardiniere, raccoglitore di asparagi o guardone nei parchi pubblici (che non è proprio un mestiere, ma rimane comunque un’attività da svolgere en plein air) sarà piuttosto difficile ricavare nei soliti angusti uffici un fazzoletto di verde per dispiegare amorevolmente la vostra tovaglia a quadretti (priva di macchie, mi raccomando), su cui allestire piattini, bibite, frutta, e tutto il necessario che avrete sistemato con scrupolo dentro il vostro cestino di vimini con doppia apertura superiore (imposto dal galateo, decisamente out le borse in pelle o tessuto o peggio ancora, le buste di plastica riciclate dal venditore ambulante). Il consiglio quindi è quello o di approfittare della noia della vostra domenica cittadina (sempre che non siate già fuggiti al mare appena scorto il primo sole di Giugno in precedenza offuscato da intere settimane di pioggia) o di decidervi finalmente a concedervi quel giorno di ferie che vi avanza dal 2008, che tanto non vi pagheranno mai, e che se impiegherete per riconciliarvi con la natura, l’intero universo e perché no, con la persona amata (che di sicuro si lagna dei vostri continui impegni, dei regali inaspettati, diventati ormai un miraggio dopo il primo S. Valentino, e delle vostre attenzioni ultimamente più assidue verso tablet e cellulari che non verso i suoi sfoghi giornalieri) ne guadagnerete in salute e in relax. Sempre che martedì, per dispetto, non ricominci di nuovo a piovere: in quel caso, se l’avete già candeggiata, provate a portarvi la tovaglietta a quadri in ufficio. Non è detto che non possa almeno rallegrarne l’arredamento.

Da grande farò…

Luca Parmitano guitar solo – YouTube.

Dividere da (molti) anni la tua vita, e di conseguenza la tua casa, con una persona capace di disegnare, scolpire, dipingere, che crea e cuce da se’ abiti, borse, bambole, che nel poco tempo libero concesso da un lavoro a tempo pieno e da una nuova iscrizione all’Università si diletta in cucina – riempiendo gli scaffali della nostra dispensa con gustose marmellate e liquori artigianali fatti esclusivamente con le sue mani – nel giardinaggio – salvando le nostre piante dalla fine impietosa a cui andrebbero di sicuro incontro se abbandonate nelle mie mani – nella pesca subacquea (unica eccezione al nostro condiviso spirito antisportivo), ti impone una serie di inevitabili riflessioni. La prima è che per quanto possa tentare di confinare la sua incontenibile vena creativa in precisi spazi domestici – nella fattispecie un’apposita stanza/laboratorio, da cui mi tengo a debita distanza, colma fino al soffitto di tessuti, pennelli e barattoli – quasi ogni giorno mi capita di fare la conoscenza di un nuovo oggetto o di un utensile misterioso, lasciato sbadatamente chissà dove, fino a quel momento mai neppure notato, la cui funzione o utilità non riesco mai a decifrare del tutto senza richiedere poi la necessaria spiegazione. La seconda è che quella beffarda e sadica divinità che regola le leggi di quest’universo - nel caso poi ne esista davvero una – il giorno in cui ha elargito tra gli umani senso pratico, talento e sensibilità artistica, deve avermi per dispetto inviato invece alla fiera dell’inettitudine, lasciando così ad altri, per fortuna poi riacciuffati durante questa esistenza, la possibilità di accappararsi anche della dose teoricamente destinata a me di una qualche riconosciuta capacità.

Scherzi a parte, tanto per fare delle domande alla Carrie di Sex and the City (dai, che di sicuro lo guardavate anche voi) quand’è che ci si scopre in grado di riuscire in qualcosa, di possedere un fuoco sacro o una semplice dote in qualche ambito, quand’è che assecondiamo una strada convinti che sia propria la nostra, escludendone così altre dieci, venti, cento, che forse avremmo potuto ugualmente percorrere? In altre parole: quando decidiamo di abbandonare quello smisurato serbatoio di fantasticherie riempito nell’infanzia (“farò l’astronauta, il veterinario, la ballerina”) per dar luogo invece a un più concreto percorso di costruzione di una specifica identità personale e professionale perchè certi sia quella giusto? Ci pensavo proprio in questi giorni, seguendo, mosso da sincera curiosità, la storia di Luca Parmitano, uno dei pochissimi italiani che poi astronauta lo è diventato davvero, e che da qualche ora si trova in orbita, partito dal cosmodromo di Baikonur, in Kazakistan, verso la stazione spaziale Iss, dove si tratterà sei mesi, diventando così il nostro primo connazionale a compiere una passeggiata tra le stelle. Rilfettevo sul fatto che Luca ha la mia stessa età (cioè 29 con un po’ di avanzo) la mia stessa evidente calvizie, probabilmente da bambini abbiamo guardato gli stessi cartoni e mangiato le stesse merendine (vuoi vedere che la calvizie dipende da quelle?). Poi però è arrivato il momento delle scelte, dei bivi, di una doverosa formazione, di crescenti opportunità e di meritati traguardi, tutti passi che nel tempo hanno reso lui un personaggio oggi molto in vista e me, vabbè, lasciamo stare. Forse per istinto, intuizione e coraggio, più che per destino, caso o fortuna, credo che ciascuno abbia il dovere di far luce sulla strada che intende attraversare: proprio come Luca ha seguito la sua, lassù, tra i corpi celesti. E a giudicare dal suo assolo di chitarra (video allegato) è stata la mossa migliore.

Italiani, brava gente

Pur avendo quasi la mia stessa età, Hajib dimostra qualche anno in più (del resto, non è mica da tutti portarsi bene i propri 29 anni), ma quando comincia a parlare della sua famiglia lontana, accennando un sorriso, il suo sguardo si fa vivace e limpido come quello di un ragazzino. Ci incontriamo quasi tutte le mattine, da qualche mese a questa parte, con il sonno ancora insistente nella voce e negli occhi, alla solita fermata dell’autobus, dove qualche burlone ruba di continuo l’orario affisso (avviso: prega che non ti becchi mai), nella sconosciuta e silenziosa località toscana in cui entrambi viviamo. “Pensava tu Tunisia come me” mi disse la prima volta che dovetti vincere la mia scarsa propensione al dialogo – prossima al completo mutismo – prima delle 10, complice un eccessivo ritardo della nostra corsa, il mio cellulare perennemente scarico e la necessità di dover avvisare della mia assenza ogni minuto più certa sul lavoro. “Ah, no”, risposi, pensando “questa alle mie presunte cittadinanze mi mancava”, ed aggiunsi “tra l’altro, mai stato in Tunisia”, “neanche Hammamet?” mi domandò quindi Hajib, ma vuoi per quella mancanza di prontezza mattutina, vuoi per la sua spiazzante associazione di idee, che non voglio neanche provare a ripercorrere, riuscii solo a replicare con un’espressione del viso che deve essergli sembrata parecchio buffa, perché scoppiò a ridere, di gusto. Da allora scambiamo con piacere quattro chiacchiere, barcamendandoci tra il suo italiano da perfezionare e il mio pessimo francese, raccontandoci di progetti a lunga distanza e di piccole soddisfazioni giornaliere, oscillando tra la banalità di argomenti come il tempo grigio e la curiosità reciproca per le nostre, diversissime, vite.

Hajib proviene da un piccolo villaggio di pescatori vicino all’isola di Gerba, dove vivono ancora sua moglie e i suoi due figli di 3 e 5 anni, di cui spesso mi mostra orgoglioso le foto sul telefonino; torna là due, tre volte l’anno, non in aereo ma con il traghetto che parte da Civitavecchia, perché può caricarvi la macchina con i regali per i suoi bambini. E’ in Italia dal 2011, ora con regolare permesso di soggiorno, e dopo aver trovato vari impieghi come muratore, facchino, pizzaiolo, adesso vende giacche di pelle in una bancarella del mercato centrale di Firenze. “Comprano solo i russi” mi disse una volta a proposito del giro di affari tra i turisti “gli altri parlano parlano ma niente soldi”. Appena ha un po’ di tempo libero, Hajib visita qualche museo, consapevole dell’unicità di opere che custodisce la città in cui si trova a lavorare, per raccontarmelo poi con tono fiero il giorno seguente. “Sei mai stato sulla cupola? E a Palazzo Vecchio?” sono le sue domande tipiche, ed appena riesco ad aggiungere qualcosa sulla storia dei monumenti che l’hanno così colpito, replica “Tu bravo, dai tante risposte”. Mi diverte il suo stupore quando rifiuto gli inviti a guardare qualche partita di calcio insieme in un bar, essendo forse l’unico esemplare di maschio italico incontrato disinteressato al pallone, mi colpisce la sua gentilezza e la sua inisistenza nel volermi offrire spesso la colazione. L’altro giorno, alla solita fermata, non eravamo soli: c’era un gruppetto di signore che commentava ad alta voce i terribili fatti di cronaca di questi giorni, che hanno avuto per protagonisti dei clandestini africani. Nel generale silenzio si sono ben distinte parole come “delinquenti” “paura” “a casa loro”. Hajib non si è scomposto: si è avvicinato alle tre donne e ha detto semplicemente loro: “Fatti orribili. Ma perché italiani parlano di immigrazione solo quando c’è tragedia?”. Poi ha rivolto lo sguardo verso di me: ma stavolta, anch’io non avevo alcuna risposta.

Siamo seri!

Ci sono momenti in cui, anche una persona votata alla frivolezza e alla superficialità di interessi, come me, riportati immancabilmente (e maniacalmente) sul mio blog, come se fossero questioni di chissà quale importanza, ha bisogno di uno stop. Di ricavare cioè un piccolo spazio per riflessioni di altro, forse più noioso, genere, con cui spero di non tediare il mio pubblico, che mi dimostra invero più fedeltà quando mi lancio in considerazioni e post di stampo ironico e brioso, perché, effettivamente, mi riescono meglio. Mi scuso in anticipo perciò se nelle parole seguenti non troverete la consueta vena satirica o il commentino pungente, ma i miei pensieri, in queste occasioni, vanno in tutt’altra direzione. Succede quando la mia tranquilla quotidianità, fatta di affetti sinceri, di lavori saltuari a cui non mi abituerò mai, di sogni e di ambizioni irrinunciabili, viene messa inaspettatamente alla prova da una perdita improvvisa, da quell’idea, spaventosa e detestabile, di una separazione definitiva. Credo che il dolore sia qualcosa di intimo, inviolabile, che occorre difendere dall’interferenza degli sguardi altrui, che le lacrime versate in pubblico siano poco cosa rispetto a quelle ricacciate a fatica indietro o spese in solitudine. Ma quando alla sofferenza si intrecciano la rabbia, il senso d’impotenza, la delusione per un lieto fine che sembra giungere solo nelle fiabe, la necessità di uno sfogo, come questo, diventa inevitabile. Per il grande rispetto e per l’ammirazione che nutro nei riguardi della persona in questione, non scenderò nei dettagli drammatici della sua storia, perché reputo di cattivo gusto consegnare al web una vicenda così delicata. Non posso fare a meno però di condividere qua sopra la grande lezione che ho tratto dalla sua vicinanza in quasi dieci anni di rapporto professionale, in cui non sono mancate incomprensioni, piccole liti, divergenze, ma anche gratificanti manifestazioni di stima reciproca. Avevamo perciò imparato a comprenderci, ad ammettere le nostre differenze, a parlare con la schiettezza e la lealtà necessarie sul lavoro. Mi aveva parlato apertamente anche della sua malattia: con grandissima dignità, con la fierezza e la caparbietà di chi non vuole arrendersi, di chi si attacca ostinatamente alla vita anche quando quest’ultima gioca il peggiore degli scherzi. E da allora il nostro abbraccio di saluti si è fatto più tenace, intenso, per il timore, sempre più concreto, che potesse essere l’ultimo. L’ultimo, purtroppo, c’è stato, non più di tre mesi fa. Non credo di poterlo mai dimenticare.

(n.d.r. La foto allegata è uno scorcio di mare del mio Argentario. Il mio luogo natìo a cui in genere affido la malinconia di simili pensieri. Spero non vi dispiaccia.)

La gaia leggenda

Giuro che ci metterò tutto l’impegno, per evitare battutacce da osteria (che poi, non sono nel mio stile), per non cadere nel facile tranello del commento sarcastico sulla calzamaglia, per darmi uno schiaffetto sulla mano ogni volta che avrò la tentazione di scrivere una frase un po’ troppo becera.  Anche perché l’argomento è delicato, lo studio che lo supporta serio e accuratissimo, la rivista che l’ha pubblicato, il celebre quotidiano tedesco Die Welt (http://www.welt.de/geschichte/article115412317/Robin-Hood-war-schwul-und-klaute-fuer-seine-Tasche.html) più che autorevole, oltre che di rinomata tradizione editoriale. La risatina beffarda, che comunque c’è e c’è stata, e che persiste sulle mie labbra dal momento che ho deciso di occuparmi di questo tema, per fortuna non trasparirà né dallo schermo né dalle parole di questo post. Ma andiamo per ordine. Esattamente negli stessi giorni in cui in Francia si vinceva la civilissima battaglia per il diritto al matrimonio e alle adozioni da parte delle coppie omosessuali, notizia liquidata da qualche nostro tg nazionale con un servizio di circa trenta secondi, per dare spazio ad altre ed urgenti questioni, come il dibattito sulla t-shirt della Mussolini o le nuove avventure del Commissario Rex, era un altro gay, insospettabile, a tenere banco sulle prime pagine dei giornali: Robin Hood. Incredibile, vero? Eppure, per quanti sforzi abbiano fatto la letteratura prima e il cinema poi, per tramandarci l’erronea immagine di un eroe macho e sciupafemmine, a cui sono stati affibbiati travolgenti e passionali amori etero e il volto di attori ad alto tasso di testosterone come Kevin Costner e Russel Crowe, la verità, spiace deludervi, è tutta un’altra.

Perché Robin Hood, secondo il filologo britannico Andrew James Johnston, professore della Freie Universitaet di Berlino, che si è preso la briga di ricostruirne scrupolosamente la storia, analizzando tutti i testi e le ballate di epoca medievale in cui il leggendario personaggio compare, è stato sì un celebre bandito realmente esistito. Ma non esattamente dedito a quella nota pratica di “rubare ai ricchi per dare ai poveri”, che ce lo rendeva immediatamente simpatico. Più che altro, i furti che lui e i suoi seguaci compivano, servivano per “autofinanziare”, diciamo così, la loro comunità, un gruppo di ribelli che abitava la foresta di Sherwood per sfuggire alle leggi vigenti in città. Primo, a causa di un antesignano spirito ambientalista, che li portava a prediligere una vita eco-friendly, a maggiore e più diretto contatto con la natura. Secondo, ed è questo il punto su cui lo studioso insiste maggiormente, perché con tutta probabilità si trattava di un’allegra comitiva di soli omosessuali, che i pregiudizi di allora, non del tutto estinti col passare dei secoli, costringevano a un’esistenza appartata, ai margini della legalità. E se la (maliziosa) domanda che adesso vi sovviene riguarda lo stretto rapporto tra Robin e Little John, la risposta è sì: si trattava proprio del suo compagno prediletto, e non stiamo semplicemente parlando di un’innocua amicizia. Con buona pace di Lady Marion, la quale, per fortuna, più che una povera vittima ignara delle preferenze sessuali dell’eroe incappucciato che la tradizione vuole innamorato di lei, sarebbe invece una figura inventata posteriormente, solo per nascondere la scomoda verità. Che il grande schermo, a questo punto, avrebbe il dovere di mettere in scena: meglio se con un chiacchieratissimo George Clooney come protagonista.