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▶ Dirty Dancing – Time of my Life (Final Dance) – High Quality HD – YouTube.

D’accordo, ammettiamolo subito, ricorrere al sesso come specchietto per le allodole, nello squallido tentativo di traghettare qui qualche visitatore in più, tra la generale sconclusionatezza di questo spazio virtuale, è una piccola furbata, neanche poi così originale, che si va però ad aggiungere alle numerose cadute di stile di cui è già ampiamente costellata la presente pagina. Ma al blogger insabbiato da tempo in una prolungata fase di stanchezza creativa, complice il numero ormai consistente di post già pubblicati (oltre 200) e la scarsa energia sopravvissuta alle fatiche di un inverno rocambolesco tuttora in corso, non è purtroppo venuta in mente alcuna trovata più geniale che quella di rispolverare un vecchio e conosciuto trucchetto, chissà se abbastanza efficace, nella vana speranza di risollevare le sorti della propria creatura online in un innegabile momento di ristagno. Operazione che a me ricorda tanto l’idea di quello scaltro studente universitario che, in un attimo di brillante disperazione, aveva appeso sulla parete della mia facoltà, tra decine di annunci perennemente ignorati per la ricerca di una camera in affitto, anche il suo, riuscendo però a far circolare ovunque il proprio numero per aver apposto la semplice scritta “SESSO. Ora che ho attirato la vostra attenzione, starei cercando casa”. O perfino i discutibili consigli del regista del programma tv per il quale lavoravo, che in più di un caso era arrivato a suggerirmi “se il servizio è venuto fuori fiacco, aggiungi a piacere una delle tre S, Soldi, Sangue o Sesso, tanto è solo questo che vuol sentire la gente!”. Episodi a cui ho ripensato proprio negli scorsi giorni quando, con tutto lo stupore del caso, ho ricevuto una pioggia inarrestabile di “like” e di maliziosi commenti sulla mia pagina Facebook, per aver semplicemente narrato le prodezze amatorie dei miei vicini di casa, a quanto pare impegnati in un chiassoso week-end di passione, mentre io m’ingozzavo di schifezze nella solitudine dell’appartamento accanto, e loro rumoreggiavano beatamente, in un’escalation di singulti e di mobili spostati di continuo, che aveva sul serio dello strabiliante e dell’invidiabile.

Ragion per cui, aspettando con ansia i vostri commenti in proposito, mi accingo a  riportare qui di seguito i risultati di una recente classifica scovata in rete e che ha sollevato diverse perplessità, non tanto per la sua natura, piccante senza dubbio, ma oserei dire anche singolare, quanto per l’inserimento di alcune scelte non del tutto condivisibili. Si tratta dell’originale playlist di brani musicali, stilata dal celebre canale streaming Spotify, che elencherebbe tutte le 20 canzoni più ascoltate durante il sesso (http://www.gqitalia.it/lifestyle/beauty-lifestyle/2015/01/19/spotify-rivela-20-canzoni-ascoltate-durante-sesso/), eseguita su un campione rappresentativo di 2000 persone, metà uomini e metà donne. E se non stupisce trovare in vetta, soprattutto per chi appartiene alla stessa mia generazione dei 29enni recidivi, l’intera colonna sonora di Dirty Dancing (video allegato), evocativa dei sensuali movimenti di bacino del rimpianto Patrick Swayze, dell’indubbia atmosfera peccaminosa del film e in principal modo di tutti i coraggiosi o penosi tentativi di emulazione della presa finale del balletto (che a questo punto mi viene il dubbio abbiate provato a replicare anche nella vostra intimità), tutte le altre canzoni presenti sono, a dire il vero, piuttosto curiose. Si va da un inaspettato terzo posto occupato da un classico come il Bolero di Ravel del 1928, forse presente per il suo crescendo musicale che ben si accompagnerebbe al ritmo libidinoso di certe performance, a un’impensabile My heart will go on di Celine Dion, quella del Titanic per capirci, giunta ottava, e magari adatta a chi ama cimentarsi in fantasie del tipo “facciamo io Rose tu Jack avvinghiati sulla prua?” (sconsigliabile, mi raccomando, la scena del naufragio, se non altro per l’epilogo drammatico). Sconcerta anche il decimo posto in cui si piazza I will always love you di Whitney Houston, brano fra i più romantici di sempre, ma insomma, in quanto a grinta ecco, è forse preferibile la versione country originale di Dolly Parton, se non altro per qualche energico colpo di chitarra in più, che in certi momenti non guasta. Stupisce soprattutto che a chiudere la classifica sia l’ennessima colonna sonora tratto da un altro film epocale come Star Wars, quella marcia solenne su cui in genere scorre il racconto introduttivo di ogni episodio, fra storie di regni perduti e battaglie planetarie: adesso, è venuto anche a voi il dubbio che quella maschera da Dart Fener tenuta dai vostri amici a casa non venga indossata solo a carnevale?

Caro buon vecchio stile…

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Che l’estenuante e non sempre fruttuosa ricerca di un testimonial ideale, il volto noto e forse inaspettato da immortalare in una campagna pubblicitaria, replicata poi all’infinito sulle pagine dei giornali come su migliaia di manifesti per strada, sia un sentiero ormai battuto da decenni dalla stragrande maggioranza dei brand di moda, non é più certo una novità. Curioso è semmai constatare come per la prossima primavera/estate si sia invece aperta una vera e propria battaglia tra gli eterni fautori, nelle foto patinate, del necessario binomio bellezza/giovinezza, stavolta ahimé surclassati per intuzione, coraggio e ritorno mediatico da marchi che hanno invece scommesso sull’originalità di visi e nomi solitamente ignorati dagli obiettivi più glamour, anche per motivi anagrafici. Insomma difficile far passare sotto silenzio la radicale trasformazione in atto, se non altro per quella singolare ventata di freschezza che, al contrario, pare non aver sfiorato alcuni colossi della moda, cristallizzati su scelte a questo punto più simili nei toni a repliche sbiadite di soluzioni già proposte in passato che a spiazzanti novità. Uno su tutti Calvin Klein, il gigante del ready to wear e dell’intimo a stelle e strisce, forse colpevole di averci ammaliato nel tempo con la bellezza acerba e imperfetta di Brooke Shields e Kate Moss o con la muscolatura da manuale di anatomia di Antonio Sabato jr e di Mark Wahlberg (in versione precinematografica, quando con lo strambo pseudonimo di Marky Mark tentava di farsi largo nel mondo del rap), e che questa volta ripiega con fiacchezza, tra il banale e il prevedibile, sul faccino imberbe del ventenne cantante canadese, idolo delle ragazzine, Justin Bieber. Lasciando svanire così nel nulla ogni accento sexy o provocatorio a cui ci avevano abituato, sin troppo bene, le sue storiche campagne in bianco e nero, l’ultima, quella con l’angelico e monoespressivo Bieber protagonista, seppur affidata alle mani esperte del duo fotografico Mert & Marcus. E se in tutta risposta brand come Givenchy e Versace hanno optato rispettivamente per il fascino più maturo, seppur altrettanto inflazionato, di due dive planetarie come Julia Roberts e Madonna, arriva però da Céline, storica masion francese dal 2008 capitanata dalla designer britannica Phoebe Philo, la più azzeccata e controversa scelta di questa stagione. Momentaneamente accantonati gli splendidi visi o i corpi scultorei di attrici e supermodel, lasciati ad altri l’uso massiccio di levigazioni innaturali da photoshop, sempre soprattutto in linea con quell’ideale di assoluta raffinatezza e zero concessioni al cattivo gusto, con quel mood sofisticato e un po’ snob che permea le collezioni del marchio, ha chiamato come testimonial la non più giovanissima scrittrice statunitense Joan Didion. Che, al di là della sua meritatissima e inarrivabile fama di penna colta e tagliente (è stata giornalista di Vogue negli anni ’60, autrice di saggi e romanzi pluripremiati, da Prendila così del 1970 a L’anno del pensiero magico del 2005) si è lasciata ritrarre, non senza un briciolo di coraggiosa ironia, dal fotografo Juergen Teller nella totale brutalità dei suoi ottant’anni appena compiuti (foto allegata); senza il bisogno di ricorrere a strati di make – up o a ritocchi digitali, ma con l’unico, studiato espediente di quei grandi occhialoni neri che ne occultano in parte il volto, aggiungendone, se possibile, un accento più chic. Sottolineando infine ciò che la moda sembra spesso purtroppo dimenticare: l’eleganza passa anche tra le pieghe del cervello, a qualunque età.

Vita (quasi) nuova!

Intravisto e poi di nuovo sparito, come un treno di passaggio che sfreccia troppo veloce davanti agli occhi fissi sul binario, quel briciolo di relax strappato con caparbia ostinazione alla maratona delle vacanze natalizie, rimasti in balìa di quegli odiosi chili da smaltire, dell’albero con qualche pallina ammaccata da smontare, dei primi, pessimi acquisti in saldo da rinchiudere nell’oscurità dell’armadio insieme ad altri simili sbagli conservati “perché, non si sa mai, potrei sempre indossarli”, rieccoci qui a fare un’altra volta i conti con tutti i nostri, puntuali quanto campati in aria, progetti e le nostre richieste più balzane che abbiamo già affidato speranzosi all’ignaro 2015. Il mio, a dire il vero, è cominciato con qualche stranezza di troppo che non dovrebbe peraltro più stupirmi, dato il generale andamento oscillante di questa mia testa liscissima fuori e intrigatissima dentro che, volenti o nolenti, si trova a gestire corpo (in espansione) e anima (da dannazione). Placata da qualche tempo, grazie a una piacevole e intima chiacchierata a tavola con il mio omonimo amico Alessandro, quell’ansia mista a panico che spesso si manifesta nella notte accompagnata dal placido pensiero “oddio, stavolta muoio”, riscontrati nelle sue parole gli stessi identici sintomi e le stesse, preoccupanti e infondate, paure, le mie nevrosi, persa forse quell’aura di esclusività che pensavano di possedere, hanno visto bene di migrare altrove, ricomparendo sottoforma di improvvisi attacchi claustrofobici che mi colgono in un qualunque spazio, a mio avviso sempre troppo denso di mura o di persone. Circostanza poco piacevole che di fatto mi costringe ultimamente a sgattaiolare fuori dalla metro tipo tre/quattro fermate in anticipo rispetto a quella più vicina alla mia meta, che tento poi di raggiungere con una non programmata (e talvolta lunghissima) passeggiata all’aperto, oppure ad uscire di corsa, sudaticcio, dal posto in cui sto mangiando, e senza neanche consumare il caffè (già pagato), perfino a dileguarmi dall’ufficio per rinchiudermi rapido in bagno ad affacciarmi snervato alla finestra, dove immancabilmente vengo intercettato dagli operai al lavoro sui ponteggi che ormai saluto con un gesto della mano, come fossero vecchi amici. Ma perché tormentarsi, in fondo anche quest’ultima manifestazione di scarso equilibrio psichico, ne sono certo, sparirà proprio come tutte le altre, magari stavolta senza essere neanche rimpiazzata da nuovi e più paralizzanti timori: in fondo l’anno con le sue stimolanti incognite è appena cominciato, l’oroscopo pare sorridere al mio segno e non sono neanche riuscito ad introdurre degnamente la mia scrupolosissima lista di buoni propositi per il 2015 che avevo intenzione di propinarvi in questo post e che vado di seguito ad aggiungere:

- Studiare un po’ di norme pratiche e legali di navigazione, perché pur discendendo da una famiglia di marittimi da generazioni non ho mai provato a cimentarmi nell’ambito, perché nonostante quel mare dove sono cresciuto, che tentavo da bambino di disegnare consumando tutti i pennarelli blu, sia l’unico posto in cui mi senta veramente a casa, so a malapena tenere in mano due remi, e perché un domani vorrei anche acquistare una barchetta con cui scendere a pescare nelle sere d’estate.

- Sperimentare dei piatti che mi richiedano un maggior tempo di preparazione e che mi facciano finalmente scoprire il piacere della cucina, io che mi spazientisco sempre troppo di fronte ai fornelli, che reputo ore sprecate quelle in attesa dell’acqua che non sembra mai bollire o del dolce infinitamente lento nel cuocere, e che mi rassegno a guardare i miliardi di programmi tv sull’argomento con lo stesso vivace interesse che di solito mi suscitano i necrologi sui quotidiani.

- Accettare serenamente il fatto che 29 anni (giorno più, giorno meno) non sono mica più 19, che le energie soprattutto non sono le stesse, che se nella medesima giornata mi ostino a volerne far troppe poi non è un delitto rincasare e rimanere almeno un’ora a guardare il soffitto, stremato, senza sensi di colpa perché non sono più riuscito ad andare a correre, ora che sto esaurendo tutte le possibili scuse al riguardo (il freddo, quel dolorino fastidioso al ginocchio, le scarpe troppo basse, etc).

- Smetterla di irritarmi se in un posto in cui entro per la prima volta mi si rivolgono subito con il tu, perché forse siamo rimasti in pochi ad apprezzare quella desueta e distante educazione del lei, che fa un po’ secolo scorso in certi locali pubblici. Cercare anche di non arrabbiarmi se dopo mezza parola pronunciata, fosse anche “salve” o “ciao”, mi puntano subito tutti sorridenti l’indice, aggiungendo “toscano, eh?”, e poi attaccano soddisfatti quella noiosissima solfa della “Coha – hola con la hannuccia horta horta”. Ah, e imparare a chiedere da bere una Pepsi, che almeno non ha le C.

- Trovare una nuova definizione, meglio se inglese, per il mio settore professionale e per le mie competenze, perché alla domanda “tu cosa faresti/saresti?” la risposta, per quanto corretta, “lo storico del costume” suscita sempre sguardi compassionevoli, perfetti se rivolti a un animale in estinzione, che so, un cucciolo di panda. Evitare però le formule Fashion expert o peggio Fashion blogger che nell’opinione comune equivalgono sempre al “vagabondo/mantenuto/nullafacente”, “bravo sì, facile occuparsi di moda, sì, con tutti i veri problemi che ci sono in questo Paese!”

- Trovare un nuovo lavoro, meglio se in linea con il mio settore professionale e le mie competenze, ora che, giunto quasi alla conclusione di questa ultima, imprevista e soddisfacente esperienza milanese, mi sento pronto come non mai a rimettermi in gioco, grazie all’energia ottenuta dal misurarmi con una città e con un ambiente in cui credevo di non riuscire a sopravvivere per più di un giorno o due. E soprattutto spostare questo proposito in cima alla lista, che la tanto sognata barchetta per pescare, in qualche modo, un domani, la dovrò pur riuscire a pagare.

Un anno meraviglioso?

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“Da guardare” in realtà, come recita la categoria in cui vado ad inserire il presente post, l’ultimo in programma per questo, a tratti sfibrante, 2014, c’è ben poco, niente di più che un’immaginetta quasi dozzinale da utilizzare come semplice appiglio a ciò che avrete di sicuro già visto, forse sino alla nausea, ampiamente condiviso, a volte con reale ed incomprensibile entusiasmo, da decine di vostri amici di Facebook sulle proprie pagine del citato social. E cioè la schermata iniziale di quella stuzzicante e utilizzatissima funzione in grado di garantire a chiunque una veloce ripassatina virtuale dell’anno ormai agli sgoccioli, una rapida e disorganica narrazione per foto, ripescate tra quelle più cliccate o commentate ogni mese sul proprio diario, dei passati 365 giorni, una sorta di best of personale, inaspettato e, a quanto pare, gradito regalo, di cui la magnanimità miliardaria di Mark Zuckerberg ci ha da poco omaggiati a sorpresa. E poco importa se dopo quell’universale scritta “è stato un anno meraviglioso”, che inaugura indifferentemente il presunto viaggio elettrizzante nel 2014 di ciascuno, compare poi uno scatto impietoso del vostro ciambellone carbonizzato che a Febbraio avevate dimenticato in forno, rischiando di mandare a fuoco l’intera cucina, o il drammatico selfie del vostro faccino ricoperto da pustole rosse perché in preda a una devastante reazione allergica che vi ha spedito al pronto soccorso soltanto lo scorso Settembre. Al generatore automatico dei recenti momenti felici di Facebook non si può certamente richiedere buongusto, più cuore o un maggior tatto nel frugare tra le nostre migliaia di pessime foto che noi stessi abbiamo avuto il fegato di condividere, per vanità, leggerezza o errore, negli ultimi 12 mesi, con risultati più o meno riprovevoli. Perché, in sostanza, quella funzione è quanto di più lontano esista dalla nostra reale quotidianità: un banale e parziale condensato di vita appena trascorsa, riesumato per freddo volere di un algoritmo, che arriva a riproporre alcune immagini già pubblicate a seconda dei loro consensi ottenuti. Fine. Non c’è più alcun nostro criterio di valutazione, non essendoci naturalmente la nostra sensibilità chiamata a scegliere questo o quello scatto, soprattutto non c’è più la minima traccia di un concreto aggancio emozionale con il nostro vissuto, svanita com’è da un pezzo la ragione che ci aveva spinti allora ad azzardare una più vasta condivisione sul web: con la prevedibile conseguenza che quei brevi ma ormai inevitabili fotoracconti illustrati del 2014 di Facebook risultino alla fine, tra la generale insulsaggine dei disegnini colorati che li incorniciano, tutti così mediocremente simili gli uni agli altri.

So che quanto sto per scrivere sembrerà illogico, campato in aria, forse perfino di cattivo gusto, ma tra poche ore mi aspetta un funerale (tra l’altro sono quasi certo che la persona che andrò a salutare per l’ultima volta avrebbe apprezzato questa frase un po’ cinica, oltre al mio personalissimo modo di dedicarle un pensiero qua sopra): circostanza che quando piomba di colpo in pieno clima di feste sembra ancor più fuori luogo, come se il dolore fosse qualcosa di facilmente relegabile in momenti più opportuni o come se esistessero davvero periodi più o meno appropriati alle lacrime. Ebbene, è da qualche giorno che non faccio altro che ripercorrere nella testa gli ultimi miei ricordi legati alla persona in questione: niente di eclatante, solo frammenti di episodi qualunque che avrei abbandonato alla memoria se adesso non assumessero ben altro valore. Il fermarsi a raccogliere insieme delle conchiglie sulla riva mentre gli altri optavano per un estenuante giro in pedalò, un piccolo album di disegni, raffigurante soprattutto mani, mostrato con timore ed orgoglio di fronte ad un aperitivo, dei consigli su come utilizzare un cedro enorme ricevuto in regalo e rimasto ad ingiallire sotto i raggi di una finestra minuscola ma luminosissima. Situazioni ordinarie, vissute allora con distratta superficialità, che non avrei mai immaginato un giorno di dover affannarmi a proteggere dallo scorrere del tempo e che solo adesso si ripresentano ai miei occhi rivestiti di una nuova e speciale luce. Non avrebbero di certo ricevuto molti “like” se le avessi condivise al momento sulla mia pagina, difficilmente sarebbero comparse in un eventuale riassunto virtuale ad opera di un social, ma non si può certo negare il loro essere entrate di diritto tra i miei ricordi più importanti di questo anno ormai al termine. Ecco allora il mio personale augurio per l’imminente arrivo del 2015: provate nei prossimi mesi a prestare la necessaria attenzione per riconoscere chi o che cosa varrebbe davvero la pena di ricordare, e non solo qui, tra 365 giorni esatti. Che sia realmente per tutti voi un anno meraviglioso.

Non c’è due…

▶ Propellerheads feat: Miss Shirley Bassey – History Repeating – YouTube.

Senza tre, ovviamente, che, se volessi esordire facendo l’antipatico puntigliosetto, corrisponderebbe al terzo anno cominciato, da poche ore, molto prima che me ne rendessi del tutto conto e che, come al solito, riuscissi a individuare l’ennesimo, insensato, argomento da trattare in questo post (per fortuna una bella data da festeggiare, inzeppata al momento giusto, può riuscire, come in passato, a tamponare senza troppi sforzi i miei ricorrenti blocchi creativi). Ora, su quell’altrettanto celebre e conseguente “quattro vien da sé” ecco, non me la sentirei proprio di garantire al momento, che già mi pare un miracolo l’esser sopravvissuto, più o meno indenne, mediaticamente parlando, ai 730 giorni esatti di permanenza di questa pagina astrusa, incorniciata sin dall’inizio dalla mia inequivocabile pelata e rimasta non so come a galla nel mare magnum di internet, annaspando in compagnia di milioni di ben più riusciti e ammiratissimi blog che, al contrario, viaggiano a vele spiegate, sfiorando il mio arrangiato progettuccio amatoriale, la mia piccola e resistente zattera online, finora, a dire il vero, mai sul punto di un definitivo e drammatico naufragio. Il tutto, naturalmente, grazie all’inimmaginabile e assai soddisfacente numero di visitatori che hanno trovato il tempo, la voglia e il coraggio di soffermarsi, anche se con fretta o distrazione, a leggere la sconclusionatezza imperante nei miei puntuali racconti settimanali sulla mia quotidianità da finto 29enne, le mie criticabili e strampalate osservazioni da quattro soldi, motivate da un’infondata e ambiziosa “pseudonniscienza” di musica, cinema e tv (immancabilmente concluse con divagazioni sull’unico vero mondo che mi è congeniale, quello pop) le mie parentesi saltuarie sull’universo della moda, prima, vera e insostituibile passione, il solo campo su cui possa vantare un minimo di cultura, insufficiente però a prendere forma ogni giorno, sul mio corpo, nell’abbinamento corretto tra camicia, maglione e pantaloni (e vi evito la descrizione della tenuta di oggi, un tripudio di fantasie e colori da psicopatico temporaneamente in libertà).

26.477: questo il numero esatto, al momento (lo so, avevamo detto niente più puntualizzazioni da precisino ossessivo, ma la cifra è così esorbitante, ai miei occhi, che non posso fare a meno di riportarla) dei diversi utenti, sparsi in tutto il mondo, che almeno una volta, si sono presi la briga di concedersi una passeggiata (spero) rilassante tra l’insensatezza delle mie parole, riuscendo così a far salire le letture dei 200 post pubblicati in questi primi 2 anni di vita del blog al traguardo record di quasi 50.000 visualizzazioni (a raggiungimento avvenuto scatta il brindisi, tenetevi pronti, manca poco). Potessi, verrei ovunque, dall’Alaska alla Nuova Zelanda, da dove ogni tanto mi sbucate (a proposito, tizio che ogni giorno mi compari da Taiwan, parliamone: qual è il tuo problema? non riesci a digitare un altro indirizzo? il tuo Paese esercita una censura oppressiva su tutti gli altri siti? sei un hacker alle prime armi che non è in grado di riconoscere i blogger veramente seguiti?) per ringraziarvi ed abbracciarvi tutti, di persona, uno ad uno, con tanto di bacetto su entrambe le guance e ogni altra più smielata dimostrazione di affetto e riconoscenza, ricambiando così la fiducia e la stima che mi avete, in tutto questo tempo, inaspettatamente dimostrato (e scroccando, perché no, un’ospitata in qualche zona del pianeta che ancora non sono riuscito a visitare: ma quanto sarà opportunista il vostro amato blogger, eh?).

Colgo l’occasione per estendere naturalmente la mia enorme gratitudine ai tanti, troppi, che, loro malgrado, si sono trovati spesso coinvolti nelle mie bizzarre narrazioni, dal mio amore che scuote ogni volta la testa, coprendosi con la mano il suo sorriso irrefrenabile, di fronte all’assurdità dei miei pezzi, alla mia famiglia che più spesso, nel fare lo stesso, scuote la testa e basta, a tutti i preziosissimi e affidabili amici che hanno dato e continuano a dare un senso a questo progetto, fino a quel paio di persone incrociate in questi ultimi mesi per lavoro e che in fase di presentazione mi hanno accolto con un “ah, ma tu sei quello del blog?”, facendomi così sentire di colpo al settimo cielo. Grazie anche a chi, seppur inconsapevolmente, mi fornisce ogni volta lo spunto per delle riflessioni scriteriate che mi costringono ad annotare al volo, magari sul tovagliolino stracciato del posto in cui sto pranzando, quelle indispensabili parole rubate alle loro conversazioni, a chi, quando mi è accanto, bisbiglia sommessamente qualcosa alle orecchie degli altri e poi mi si rivolge a muso duro con un “no, a te non lo dico, poi lo scrivi sul blog”, per finire a chi, come Arianna, fondamentale e spassoso supporto in questo mio imprevisto soggiorno milanese, mi rimarrebbe giustamente offesa se provassi a non nominarla esplicitamente neanche stavolta (come se comparire su questo attrezzo fosse chissà quale privilegio od onore), a chi ha trovato soprattutto il tempo di lasciarmi due apprezzatissime parole di commento o di critica a gran parte dei miei post. Per tutti voi, quella stessa Shirley Bassey di Where do I begin con cui avevamo inaugurato, ormai due anni fa, questo pagina scombinata, tra la comprensibile e mai placata ansia iniziale, sollevata dall’allora necessario quesito “e ora, da dove comincio?”, ve la allego adesso in regalo come interprete di History Repeating: una storia che andando avanti si ripete, proprio come la nostra, qua sopra, già da due anni, solo grazie al vostro più caloroso e sincero supporto. Grazie ancora.