Rise and fall

Madonna Falls Backwards Off the Stage At BRIT Awards Ceremony LIVE SHOW – YouTube.

L’abbiamo tutti già visto e rivisto con sconcerto e stupore immaginabili, c’abbiamo scherzato e sorriso su, qualcuno forse ne avrà malignamente gioito, altri, soprattutto coloro che da sempre ne riconoscono e ne ammirano il perfezionismo sfrenato, ancora si chiedono come sia potuto accaderle un simile, imbarazzante episodio. Che il tonfo sonoro di Madonna, capitolata a gambe all’aria giù dal palco della O2 Arena di Londra, dove si stava esibendo live per la 38esima edizione dei Brit Awards, sia l’incidente più chiacchierato, condiviso, commentato, di questi giorni, sul web e non solo, è naturale, dato il rilievo mediatico planetario del personaggio e la spettacolare caduta, che se fosse capitata a noialtri comuni mortali, ammettiamolo, saremmo ancora lì a terra mezzi doloranti o probabilmente fuggiti via strisciando per la vergogna. Farne però l’emblema del coraggio e della tenacia tout court, elevarlo a metafora incondizionata dell’esistenza, spendere fiumi di parole per trasformarlo nell’attuazione pratica di quel proverbiale e fondamentale “rialzarsi nella vita”, per quanto legittimo, francamente, mi pare un tantinello esagerato. E lo dico, prima di attirarmi le antipatie dei “madonnari” più sfegatati, da fan di prim’ordine, di quelli che di Miss Ciccone ne seguono da decenni, con interesse e curiosità al limite del morboso, apparizioni e interviste, trasformazioni e provocazioni, acquistando e collezionando talvolta anche i lavori più irrilevanti (compresi quell’album insignificante che fu Who’s that girl e il fotolibraccio erotico – celebrativo Sex). Avendo soprattutto una ferma convinzione, che il mio idolo pop continua invece sistematicamente a smentire: ho sempre ritenuto che una star di tale grandezza, grintosa e meticolosa allo stremo, intelligentemente trasgressiva, unica diva dall’incomparabile, luminosa e longeva carriera, nonostante le limitate doti canore, avesse da tempo anche pianificato in qualche modo il suo strabilante e definitivo addio alle scene. Una come Madonna, pensavo, è salita troppo in alto in questo mondo per potersi permettere, un domani, di viverlo in discesa: tra poco, continuo a ripetermi, vedrai che organizzerà il suo ultimissimo tour, lo spettacolo più immaginifico e indimenticabile di sempre, un’uscita in grande stile, il suo gran finale, come d’altronde si dovrebbe addire alla fama irraggiungibile del personaggio. Mentre alle soglie dei 57 anni (un’età in cui molte stelle di casa nostra si lasciano fotografare circondate dai nipoti, elogiando le meraviglie della vita da nonna o pubblicizzando prodotti anti – colesterolo) ancora in formissima ma con un’agilità sempre più ridotta, ancora affascinante ma irrigidita da troppi ritocchini impossibili da celare, è ancora là a voler ribadire e difendere il suo trono di regina indiscussa del pop. E se c’è una cosa allora che quel volo rovinoso dai gradini, ancor più comico dopo il solenne ingresso tra il pubblico, sta forse a simboleggiare, non è tanto il riuscire con immensa professionalità a rialzarsi e a cantare, incolpando poi su Twitter dell’incidente il mantello troppo lungo e stretto ideatole da Armani (qualcosa mi dice che i due non collaboreranno più in futuro), quanto la sua sconfinata ostinazione. La stessa ostinazione che troviamo nella lotta contro il tempo di un corpo maturo che non vuole arrendersi al passare degli anni, nel perpetuare l’immagine di icona sexy ricorrendo alla seduzione spicciola e un po’ cafona, tutta tette e chiappe al vento (talvolta ridicola anche per una ventenne), nella volontà di aggrapparsi agli strascichi di una carriera fulgida, sulla quale, prima o poi, dovrà chiudersi inesorabilmente il sipario. E sarebbe il caso, cara Madonna, che sia proprio tu a decidere quando, prima che a farlo sia il prossimo costume rimasto impigliato chissà dove.

Cantare oh oh oh

▶ Il Volo – Grande amore – YouTube.

Dopotutto c’era da aspettarselo, data la disarmante prevedibilità con cui anche il telespettatore più sprovveduto sarebbe in grado di pronosticare il vincitore di Sanremo alla prima standing ovation del pubblico presente all’Ariston. E lo scrivo senza voler polemizzare con il già bersagliato meccanismo del televoto (che, a onor del vero, avrebbe ribaltato la classifica finale dove spadroneggiava Nek) o senza voler sminuire il talento indiscutibile dei giovanissimi trionfatori del 65esimo Festival della canzone italiana. Però diciamolo francamente: lo stile e la presenza de Il Volo (tanto per citare con esattezza il nome del gruppo musicale formato dai tre fanciulli) profumano subito e irrimediabilmente di vecchio. Non tanto per il tentativo forse apprezzabile di voler diversificare anche nell’immagine i suoi singoli componenti, assegnando loro un determinato ruolo (il piacione, il precisino, il pacioccone) da interpretare poi sul palco. Quanto perché la sua scontatissima vittoria non fa altro che irrobustire la solita, insulsa, immagine stereotipata e superata con cui il nostro Paese continua ad essere dipinto e incomprensibilmente amato all’estero: buon cibo e bel canto. Quella tradizione canora melensa e datata però (accompagnata poi da tutto lo stucchevole repertorio di moine e sguardi affettati), che non coincide ormai più da decenni – e sarebbe il caso di avvertire prima o poi gli stranieri anche di questo – con i reali e attuali gusti musicali degli italiani, che non tiene minimamente conto degli artisti davvero più ammirati e seguiti in patria, che supera addirittura il concetto stesso di nazionalpopolare, di cui Sanremo è, per carità, l’espressione mediatica più naturale, anche se il Festival una qualche sfumatura più rappresentativa del nostro variegato panorama artistico riesce ancora a incarnarla. Anche se poi ci propina la reunion di Romina e Al Bano – risvegliando le nostalgiche romanticherie delle coppie più agées – anche se manda in onda Conchita Wurst solo dopo la mezzanotte per il timore che una donna con la barba possa turbare i sonni dei bambini (già traumatizzati dalla scoperta che mamma e papà possano in teoria donar loro una quindicina tra fratelli e sorelle, come nel caso della superfamiglia ospitata la prima sera), ogni genere musicale però, dal melodico – pop al rap passando per la canzoncina stupida e irriverente (ce n’è una ogni anno), viene, più o meno degnamente, rappresentato. Compreso quello, non certo originalissimo, de Il Volo: che possiede invero tutto il sapore posticcio di un prodotto preconfezionato e fin troppo studiato per il solo mercato estero (non a caso il loro manager è quel Michele Torpedine, già fautore del successo riscosso quasi per intero fuori dai nostri confini da Andrea Bocelli). Dove, questo va precisato, i tre piccoli fenomeni, finalmente più maturi ed esteticamente più gradevoli rispetto a quando andavano gorgheggiando brani di Claudio Villa o di Massimo Ranieri nella trasmissione Rai Ti lascio una canzone che li ha lanciati (quella con la Clerici in vestitoni improbabili circondata da baby – cantanti dalla voce adulta), hanno già raggiunto obiettivi impressionanti per la loro giovane età: esibizioni applauditissime ai quattro angoli del mondo, duetti con mostri sacri della musica internazionale (da Placido Domingo a Barbra Streisand), ospitate in talk show da ascolti record (intendo il Tonight show di Jay Leno, non di certo Porta a Porta che ogni tanto si preoccupa di invitarli), concerti che hanno registrato il tutto esaurito in luoghi sacri come il Radio City Music Hall di New York. Basterà questo a garantire loro il raggiungimento della medesima fama anche qui in Italia? Dubito. Perché noi, al contrario della romantica ma distante concezione che in terra russa o americana paiono tutt’oggi possedere al riguardo, abbiamo fortunatamente una visione più complessa, concreta, disillusa della nostra sfaccettata realtà da tradurre in musica. Perché l’Italia vista da dentro è molto più affascinante ed enigmatica di quel cliché attardato, tutto pizza, mandolino e O’ sole mio che Il Volo si ostina ancora a voler esportare. Perché consapevoli delle magnifiche contraddizioni e della costante incertezza del nostro Bel Paese, al Grande Amore da urlare a perdifiato preferiamo di gran lunga quei “silenzi per cena” sussurati con l’apparecchio per i denti da Malika Ayane.

Mia cara Miss…

Miss Dior – The new film (Official Director’s Cut) – YouTube.

E pensare che in Francia le associazioni femministe avevano impiegato più di un anno, tra appelli, ricorsi e battaglie legali, per riuscire nel 2012 ad abolire, almeno nei documenti amministrativi, l’uso del termine mademoiselle, signorina appunto, giudicato intrusivo nella vita privata delle donne (probabilmente stufe di rispondere al quesito “sposata?” ai funzionari statali come alle conoscenti più ficcanaso)  e soprattutto discriminatorio nei loro confronti (un corrispettivo maschile per indicare un uomo senza anello al dito non esiste in alcuna lingua burocratica). Fiato sprecato: a rispolverare inaspettatamente l’importanza della frase “sono signorina”, che qui in Italia ricorda piuttosto il riuscito tormentone di uno dei personaggi storici di Anna Marchesini, l’indimenticabile Sig.na Carlo, è il nuovissimo spot di un profumo, di quelli da cui siamo assediati ogni ora in tv e al cinema nel periodo pre – San Valentino, firmato da una maison che poi francese lo è altrettanto, anzi, è forse l’emblema planetario della storica eleganza d’oltralpe, Dior. Ma che, probabilmente attenta a non riaizzare il fuoco delle polemiche al riguardo in patria, ha visto bene di far pronunciare alla splendida protagonista del cortometraggio, la ex bambina prodigio del cinema Natalie Portman, la frase clou della sceneggiatura in inglese, “it’s miss, actually” (“sarei ancora signorina, per diamine!”), in risposta a quello screanzato di un inserviente che, incaricato di portarle il bouquet da sposa, si permette di apostrofarla, per ben due volte, con il poco gradito titolo di madame. Lasciandoci così presagire il seguito della storia, che il volto pressoché perfetto ma angosciato della stessa Portman ci aveva già suggerito in tutte le altre cupe inquadrature in bianco e nero di cui è costellato il medesimo spot: che lei no, a pronunciare quel fatidico e vincolante “sì” proprio non ci vuole andare, che il padre la sta di sicuro obbligando/ricattando, che le amiche/damigelle sono all’oscuro del suo cuore palpitante in segreto per qualcun altro e via discorrendo (e se poi volete leggerci anche una gravidanza indesiderata in quel suo accarezzare sospettosamente il pancino sopra l’abito candido, fate pure). Nessun colpo di scena quindi, quando dopo i sospiri e le esitazioni che scandiscono il suo passaggio tra gli invitati, la promessa sposa ci ripensa e torna indietro di corsa, mollando proprio lì, sotto gli occhi di tutti, il quasi marito che evidentemente un colpo di testa simile un po’ se lo aspettava (non si volta neanche, che so, a cercare di trattenerla o anche solo a insultarla), mentre la fanciulla, finalmente libera da un simile fardello, abbandona, in ordine, paparino incredulo, scarpe griffate, abito rigonfio gettato lì fra olivi e asparagi, rimanendo infine con addosso un più pratico tubino nero, che si sa, torna utile in ogni occasione, soprattutto quando si è appena scaricato qualcuno sull’altare. Raggiungendo quindi, tra la presenza incomprensibile delle note più celebri di Janis Joplin, quelle di Piece of my heart, una scogliera pittoresca dove, guarda caso, a prelevarla con un apposito elicottero ci penserà il vero amato, fino ad allora avvolto nel mistero (a dire il vero anche in seguito, perché ne inquadreranno solo un pezzo di mento), il quale provvede naturalmente anche a lanciarle scaletta e petali (immancabili del resto in ogni veivolo che si rispetti) perché raggiungano insieme la meta romantica della loro appassionante fuga, Parigi (evviva l’originalità). Dove, mia cara miss, nonostante la tua intrepida e avventurosa performance, nonostante tutti i tuoi sforzi per sottolineare il tuo caratterino indipendente così come la tua natura recalcitrante ad ogni tipo impegno matrimoniale, mi spiace dirtelo, ma chiunque, per legge, che tu lo voglia oppure no, sarà comunque tenuto a darti della “signora” (o madame, se preferisci).

Alt(r)aRoma

Greta Boldini

Per un impegno improrogabile arrivo con un giorno di ritardo. Pazienza, il calendario pare comunque denso di appuntamenti, gli eventi in programma sembrerebbero piuttosto numerosi, qualche collezione interessante dovrei pur riuscire a vederla. Peccato che il mio smartphone abbia deciso, proprio durante il viaggio, di cominciare la sua lenta e drammatica agonia verso una fine poco tempestiva. Di usare la fotocamera del cellulare, per immortalare i momenti salienti della kermesse, perciò, non se ne parla. E stavolta non ho neanche con me una macchinetta digitale; a dire il vero, per non appesantirmi di bagagli, non mi sono preoccupato neanche di portare, come faccio di solito, il mio beneamato pc. Tecnologicamente inattrezzato, incupito dall’insolito grigiore del cielo ma armato delle più buone intenzioni, mi accingo perciò a seguire la XXVI edizione di AltaRoma, la manifestazione di haute couture capitolina, che quest’anno non mi sarei perso per niente al mondo, visti soprattutto i noti momenti critici che a meno di un mese dal suo avvio, hanno rischiato di comprometterne del tutto la realizzazione. E invece no. Dal 30 Gennaio al 2 Febbraio, dopo un provvidenziale stanziamento di fondi, con il contributo dello stesso Comune di Roma, la manifestazione è andata in scena: 30 appuntamenti tra sfilate, eventi e presentazioni, un discreto numero di iniziative dedicate ai talenti emergenti, qualche piacevole sorpresa sbucata tra nomi vecchi e nuovi. Quello che segue sarà dunque il personalissimo racconto della quattro giorni di alta moda, condito con tanto di retroscena (spero) divertenti, le immancabili osservazioni o critiche del sottoscritto, le frasi più ironiche o fuori luogo rubate agli altri ospiti e lavoratori presenti. Buona lettura.

La location: Accantonato il complesso di Santo Spirito in Sassia, cornice delle recenti passate edizioni, la kermesse si svolge tra due diverse sedi, vicinissime tra loro: il MAXXI, il Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo, superbo e avveniristico progetto di Zaha Hadid, e lo Spazio Altaroma, una tensostruttura provvisoria situata davanti all’Auditorium Parco della Musica. Bene: la scelta del MAXXI, il cui avvincente volto contemporaneo si sposa magnificamente con le collezioni dei giovani designer lì accolte, oltre a rappresentare un sensazionale ingresso per stampa e ospiti. Così così: la tensostruttura, soluzione dettata da ovvie esigenze di rapidità, non incontra le simpatie generali, e viene malignamente ribattezzata “Il Circo Nero”, “La tendopoli”, “Il sacco della monnezza”. Assente un punto di ristoro (gratuito) per operatori, fotografi e stampa accreditata, rimpiazzato dal bar del MAXXI stesso (a pagamento). Da sottolineare: la gentilezza e la professionalità del personale del bar citato, per la prima volta alle prese con le bizzarrie del popolo della moda. Il commento rubato: “Ma perché si chiama MAXXI?” “Mbeh, non vedi quanto è grande?” (due fashion victims in coda dietro di me per l’accredito, evidentemente all’oscuro dell’acronimo del museo)

Accademia di Costume e Moda: il Talents 2015 Fashion Show è forse il momento più entusiasmante dell’intera manifestazione: le 10 mini – collezioni presentate dagli altrettanti studenti diplomati alla celebre scuola, che proprio l’anno scorso ha festeggiato i suoi 50 anni di attività, convincono per l’originalità di idee e l’ottima esecuzione. Bene: Nicolas Martin Garcia, il vincitore decretato dalla giuria di esperti, fa il pieno di applausi per il suo défilé Lolito, una collezione uomo colorata, sopra le righe, di travolgente ed efficace ironia. Così così: il lunghissimo discorso di ringraziamento di Marco Mastroianni, responsabile creazione materiali di Louis Vuitton ed ex alunno dell’Accademia, premiato per la sua carriera da Giovanna Gentile Ferragamo, a cui fortunamente verrà poi passato il microfono. Da sottolineare: le raffinate e femminili creazioni di Tommaso Fux, con cui si apre l’evento, frutto della sensibile visione di un designer davvero promettente. Il commento rubato: “Ma quella con quella cofana non potevano metterla in fondo, che seduta lì davanti non si vede niente?” (un tizio della sicurezza sulla presenza della blogger Diane Pernet in prima fila con la sua acconciatura gotica a torre).

Piccione.Piccione: ultimo vincitore, soltanto lo scorso Luglio, del decimo concorso Who is on next?, il progetto di scouting realizzato da AltaRoma in collaborazione con Vogue Italia, il giovane designer Salvatore Piccione presenta in anteprima la sua prossima collezione A/I di prêt – à – portér. Bene: Coerenti, ben strutturati, onirici eppur ugualmente indossabili, gli abiti di Piccione Piccione sono un crescendo di poetiche soluzioni, spesso evidenziate da ricami scintillanti in 3D. Così Così: certi grafisimi insistiti e certi accostamenti cromatici ricordano un po’ troppo lo stile decorativo di Valentino. Più riuscita la prima prova di Luglio. Aspettiamo con ansia la terza. Il commento rubato: “Ma se è lo stilista è solo lui, perché il brand si chiama Piccione.Piccione?” “Aveva cominciato con il fratello!” “Ah, certo, Due Piccioni non potevano chiamarlo, sai le battute!” (la blogger al mio fianco che tenta inutlimente di istruire il compagno in materia).

Daizy Shely: brand nato dalla fantasia dell’israeliana Aliza Shalali Deizy, formatasi a Milano, dove ha tuttora il proprio atelier, e vincitrice insieme a Salvatore Piccione dello scorso Who is on next?, come lui invitata a presentare la sua prossima collezione invernale di ready to wear. Bene: le camicie e i capispalla dalla maniche lievemente scese, coronate da lunghi polsini fiammeggianti trattenuti da grandi fiocchi, che allungano otticamente le braccia ridisegnando così una nuova silhouette. Così così: tanti spunti diversi, non sempre fusi con la dovuta armonia. Troppa carne al fuoco, insomma. Il commento rubato: “A me è piaciuto il top di piume viola sopra la longuette verde” “non faceva troppo uccello del paradiso?” (due giornaliste in vena di eccentricità all’uscita).

Antonio Grimaldi: tra i couturier più talentuosi della sua generazione, poco incline ad eccessi o colpi di teatro, eppure in grado di distinguersi ogni volta per garbo e raffinatezza, Grimaldi dà vita ad una riuscita collezione di alta moda per la prossima primavera/estate. Bene: innegabile e ben presente il concetto di leggerezza che permea l’intero défilé, dalle creazioni eteree e impalpabili, grazie alla maestria di lavorazioni e tessuti quasi evanescenti. Così così: pressoché assente il giorno, introvabili tailleur o pantaloni, sembra che la donna di Grimaldi non badi mai alla praticità ma viva unicamente ricoperta di volants. Il commento rubato: “Ma chi è quella fotografata accanto alla Cucinotta?” “La ex moglie di Raoul Bova!” “Ah…e cosa fa adesso?” “Non saprei…ma per averlo lasciato io le dedicherei comunque una piazza!” (due giornaliste in vena di gossip all’ingresso).

Project149: finalista al concorso Who is on next? del 2014, il duo creativo Monica Mignone ed Elisa Vigilante illustra le sue proposte di ready to wear del prossimo inverno. Bene: una collezione portabile, ben studiati gli abbinamenti cromatici, il mix di tessuti, dosate con cura le stampe. Così così: nel parterre alcune penne autorevoli del giornalismo di moda fatte sedere dietro a blogger ventenni e sconosciuti. Il fuori programma: al termine della sfilata una signora inciampa sulla passerella e cade rovinosamente a terra, dove rimane per alcuni minuti, tra le premure dell’ufficio stampa e la generale indifferenza degli altri ospiti che la scavalcano pur di guadagnare l’uscita.

Quattromani: Altri finalisti di Who is on next?, questa volta nel 2013, Massimo Noli e Nicola Frau portano una loro capsule collection per l’autunno/inverno 2015. Bene: buona la costruzione degli abiti, forme e lunghezze sufficientemente armoniche, azzeccati i tocchi iridescenti. Così così: 40 minuti di ritardo per una sfilata si perdonano solo a Giorgio Armani. Il commento rubato: “Non saprei, mi è sembrata senza un sapore preciso, come un risotto mari e monti” (una giornalista al termine del défilé, forse in preda a un languorino).

Curiel Couture: Storica maison dell’alta moda italiana, di tradizione tutta al femminile, Raffaella Curiel e sua figlia Gigliola scelgono per le proprie creazioni di ispirarsi al folklore del continente asiatico. Bene: i curiellini, i celebri completi da giorno ideati dalla couturier, in versione ancor più sobria e impeccabile, abbinati a divertenti scarpe bicolori. Così così: l’uscita finale con l’abito che riproduce nelle stampe la Canestra Ambrosiana di Caravaggio, fatto sfilare sulle note di Va, Pensiero. Ridondante. Il commento rubato: “Guarda, io voglio molto bene a Raffaella e a Gigliola, ma la collezione, diciamolo, è un po’ antica” (una giornalista che esterna la sua singolare idea di affetto).

Greta Boldini: brand che nel nome esprime la sua ricercatezza, unendo due icone di stile come Greta Garbo e il pittore Giovanni Boldini, dietro cui si cela la creatività dei designer Alexander Flagella e Michela Musco, finalisti a Who is on next? nel 2013. Bene: una collezione rigorosa e sontuosa al tempo stesso, dalla riuscita vocazione sperimentale nella combinazione di tessuti e ricami. Stupefacente il finale, con le modelle congelate in un tableaux vivant di creazioni (foto). Così così: alcuni volumi essenziali, impreziositi da applicazioni, seppur egregi, ricordano certe soluzioni recenti di Prada. Peccato. Il commento rubato: “La passerella è fatta ad U, e me le fai sfilare in diagonale? E io come le riprendo, a zig – zag?” (un cameraman infastidito dalla scelta della regia).

Catherinelle: Attrice, modella, pittrice, ma soprattutto designer di accessori, la bellissima Catrinel Marlon organizza un cocktail party per presentare la sua nuova collezione di borse chiamata Sublime. Bene: l’ispirazione anni ’70 delle forme, la palette cromatica sui toni autunnali, le fodere realizzate in tessuti vintage. Da sottolineare: la cortesia e la disponibilità dell’ufficio stampa che ci fa entrare con mezz’ora di anticipo per gustare la collezione senza il contorno di folla invitata all’evento. Il fuori programma: una nevicata improvvisa piomba sugli ospiti in attesa, dando luogo a una serie di esilaranti scivoloni sui tacchi.

A.I. Artisanal Intelligence. Evento tra i più interessanti della kermesse, per il dialogo tra diverse forme creative, il percorso di questa edizione si snoda tra la pittoresca Villa Poniatowski e la galleria d’arte contemporanea AlbumARTE. Bene: il singolare confronto tra le storiche maglie di Albertina e le creazioni del giovane couturier Gianluca Saitto. Così così: gli abiti originali settecenteschi, esposti senza alcun tipo di protezione dal pubblico, un rischio davvero enorme, da non correre mai. Il commento rubato: “Sì, bello, mi è piaciuto…vabbé, che sta a fa’ la Roma con l’Empoli?” (un fotografo con la testa alle sue priorità calcistiche).

Sono di nuovo in treno, per fare ritorno a casa. Questa è la prima frase che scrivo, a mano, come d’altronde i migliaia di appunti presi in questi giorni. Mi verrà un post lunghissimo, già lo so. Purtroppo lo smartphone non si è più ripreso, sennò vi avrei fotografato la cupola di San Pietro che sto guardando dal finestrino, illuminata dai raggi del sole che finalmente si è deciso ad uscire. Che città magnifica. Colonna sonora ideale: Arrivederci Roma.

Eleganza di plastica

Barbie™ in Princess Power – Movie Trailer (English HD) – YouTube.

Qualcuno però avrebbe potuto avvertirmi, santiddio, come si spiega che certe fondamentali rivoluzioni avvengano proprio lì, sotto il mio naso, e io me ne renda conto invece solo dopo qualche tempo, magari anche anni, rimanendo così in balìa di quella sgradevole sensazione che il mondo si stia trasformando a poco a poco in un posto da cui rimarrò inesorabilmente escluso? Perché se c’è una frase che più di altre detesto sentirmi rivolgere è quel “ma come, non lo sapevi?” pronunciato poi con il tono mellifluo e irritante di chi ti spiattella in faccia tutta la presunzione di saperne più di te, che vai anche vantando un’ipotetica pseudocultura da blogger, ruolo che in teoria ti richiederebbe quel costante e necessario aggiornamento su tutte le possibili sfumature dello scibile umano. E invece poi basta ritrovarsi in una movimentata festa di compleanno, mentre ti sforzi di recuperare in testa i nomi degli altri invitati appena conosciuti e che la tua memoria ha già rimosso, sperando che almeno stavolta la forchettina di plastica non si spezzi al primo incontro con la torta millefoglie, e loro, quei tre, quattro bambini presenti, rumorosi quanto un esercito errante, provano d’un tratto a coinvolgerti nei loro frenetici giochi, mettendoti tra le mani un minuscolo pezzetto di plastica, di difficile identificazione. “E’ la cacca di Tanner, il cane di Barbie. Non la perdere” “Come dici, scusa?” replico io, “Sì, è la cacca di Tanner, non è cacca vera, poi gli va rimessa, non la perdere che Emma ne ha già persa una”. Sorpreso, forse sbigottito, lievemente disgustato, vado alla ricerca della mia amica Chiara, madre dell’esserino che mi ha improvvisamente illuminato sull’esistenza del cane spara – popò, ancora parzialmente conservata nel mio pugno come il più prezioso degli oggetti. “Tu conosci e acquisti questa roba e non mi dici niente?” faccio io, “Guarda che è famosa, hanno fatto anche Barbie con il secchio per raccoglierla” “e come, con un sacchettino di plastica rosa?” “no, Barbie è sempre elegante, ha il bastone!”. Barbie è sempre elegante, è questo il punto. Che abbia turbato le vostre infanzie con l’impossibile desiderio di identificazione nel corpo di una mini-sventolona bionda dalle tette sempre sode e dalle gambe chilometriche e appena snodabili, che abbia per sempre compromesso il vostro buongusto in maniera di arredamento con un’improbabile mobilia rosa e asettica che avete sognato nelle vostre stesse case per decenni, che vi abbia illuso con il miraggio del ricorrere alla mise adatta e un po’ civettuola per diventare automaticamente astronauta, regina delle nevi, primario o presidente di una nazione, Barbie è un’icona indiscutibile di stile. Anche quando il crescente senso civico impone che provveda a recuperare i bisogni sbadatamente lasciati in giro dal proprio cane. Anche quando la tamarraggine imperante nei costumi ha offuscato la sua fama in favore di nuovi idoli di plastica, inquietanti, ipertruccati o malvestiti, lei è lì, da oltre 50 anni a ricordarci cos’è la vera raffinatezza. Anche adesso che la Mattel, proprio in questi giorni, durante la Toy Fair di Norimberga, ha lanciato in pompa magna la sua ultima creatura, la nuova Barbie Princess Power, una supereroina dalla doppia identità in lotta contro i malvagi, personaggio naturalmente accompagnato dall’uscita di un film di animazione (video allegato) e da un numero forse infinito di gadgets coordinati (operazione a cui siamo del resto abituati), non viene mai meno quella dimensione di irraggiungibile signorilità: una volta tolta la mascherina, come ogni supereroe che si rispetti, Barbie torna alla sua vita ordinaria, quella di una bella e giovane principessa che abita in un castello. Chissà se anche stavolta porterà in giro da sola i suoi nobili cani.