Così lontano, così vicino…

La prima cosa che ti sorprende in Elena è il suo spiccato e un po’ cinico senso dell’umorismo, il tempismo perfetto delle sue battute taglienti, quell’ironia sottile e sferzante che solo le vere persone di spirito riescono, con leggerezza ed irresistibile efficacia, a rivolgere ugualmente a sé come agli altri. Una qualità rara ed apprezzabile che a prima vista sembra perfino cozzare con il suo aspetto discreto e sempre naturale, i capelli nerissimi ad incornicare lo sguardo vitale e liquido, la voce inaspettatamente acuta e melodiosa, un simpatico rossore ad invaderle il viso quando, suo malgrado, si trova all’improvviso al centro dell’attenzione. Evitando quei lunghi e complicati giri di parole necessari per descrivere la nostra semi-parentela (è la sorella del compagno di mia sorella), io ed Elena ci chiamiamo fra noi, più semplicemente, Brother e Sister, anzi, da cinque anni a questa parte, da quando condividiamo cioè la gioia (e talvolta il faticoso babysitteraggio) di una splendida nipote, Giulia, peperina e attaccabottoni con chicchessia, Elena è diventata per tutti (nostra nipote compresa) l’adorata e insostituibile “zia Sister”. Quella che, puntuale, ad ogni cena o compleanno in famiglia, prepara torte così golose ed esteticamente impeccabili che paiono appena uscite dal manuale di Nonna Papera, quella che mostra energia e pazienza smisurate di fronte ai giochi fantasiosi proposti da Giulia (come il suo preferito “la principessa e il popotamo”…indovinate il mio ruolo? Purtroppo no, non la principessa), quella che riesce a non perdere mai le staffe persino di fronte ai suoi inevitabili capricci a tavola o alla normalissima, infantile ed infinita ciclicità delle sue richieste di cinquenne (“giochiamo? perché? e adesso giochiamo?”). In Elena ho trovato una delle compagnie migliori per assistere ai concerti, perché entrambi detestiamo immersioni soffocanti nella folla, preferendo di gran lunga gustare lo spettacolo arretrati o in disparte (spesso vicino ai bagni) dove c’è tutto lo spazio per ballare, saltellare, azzardare coreografie tra le più improbabili, da eseguire al contrario con il necessario condimento di espressioni serie e impegnatissime. Di Elena apprezzo l’immediata sincerità di parere, il lessico ricco e minuzioso che emerge in discorsi talvolta venati di malinconia, la cultura sterminata in fatto di cinema, l’apertura e la curiosità in campo artistico, che le è costata più di una visita nel museo di moda con cui collaboro (e dove l’ultima volta l’ho sfinita con una digressione di mezz’ora sulla differenza tra jeans e denim) e un’originalissima serata in un’installazione all’aperto, un labirinto realizzato con sole balle di fieno, da cui siamo usciti dopo lungo tempo, con residui di paglia tra i capelli (i suoi) e sugli abiti (di entrambi), tra le risate, la stanchezza, la tentazione assecondata di scattarci un selfie (che non allego per motivi di decenza).

Con Elena condivido anche la passione sconfinata per l’azzurro del mare ed i continui tentativi di incursione lavorativa nel campo del giornalismo, ma rispetto alla superficialità dei miei settori di competenza, abbigliamento e poco più, lei si è specializzata in un ramo ai miei occhi tra i più tosti e seri esistenti, quello delle relazioni internazionali, motivo del suo saluto, qualche mese fa, per andare a seguire un’interessante e indubbiamente gratificante opportunità di crescita professionale fuori dall’Italia: a Bruxelles. Venire a conoscenza dell’orrore e dell’insensata atrocità dei recenti attentati al riparo delle tue mura domestiche, in un altro paese, a contatto con le sole immagini e notizie terrificanti che a poco a poco arrivano a riempire lo schermo televisivo, provoca un senso di indicibile sgomento misto all’egoistico sollievo per la fortuna di trovarsi al momento altrove. Contemplare invece la possibilità che la furia assassina possa coinvolgere anche i tuoi affetti, insinuarsi così in qualche modo nella tua ben più tranquilla quotidianità per arrivare a stravolgerla, infilitrarsi tra le pieghe della tua stessa esistenza, ti costringe a fare i conti con una paura ancor più vera e paralizzante, con un dolore cieco, con un’angoscia implacabile e impotente che non credevi di poter mai provare per quelle stesse ragioni. La mattina degli attentati, tra la frammentarietà di notizie che giungevano dal Belgio, tra l’eco crescente dei nomi drammaticamente citati di posti che Elena ormai frequenta da qualche tempo (la stazione della metro di Maelbeek a due passi dal suo luogo di lavoro, il suo volo di ritorno fissato solo per il giorno seguente), è stato un continuo e sfibrante tam tam di messaggi, di aggiornamenti costanti sulle sue condizioni, un coro di rassicurazioni, a volte date sdrammatizzando, nascondendo, per quanto possibile, preoccupazione e nervosismo. Elena ieri è riuscita a tornare finalmente in Italia, dopo che un improvvisato e notturno viaggio in navetta di dieci ore giù per l’Europa ha rimpiazzato il suo volo cancellato, e abbiamo così potuto tutti alleggerire l’improvvisa e sgradita tensione di questi giorni riabbracciandola, compresa nostra nipote, che pur non sapendo niente dell’accaduto, non l’ha mollata, al solito, per un solo secondo. Elena soprattutto, in barba ad ogni più logica previsione e forse contro il comune buonsenso, ha deciso comunque di ripartire, fra pochi giorni, per il suo ultimo mese di impegni a Bruxelles: perché non piegarsi all’insensatezza di simili atrocità, rifiutarsi di cambiare una sola virgola delle nostre più semplici abitudini o decidere di godersi, nonostante tutto, quell’opportunità che ci siamo meritati è la risposta più giusta e coraggiosa che dobbiamo a noi stessi, tra la barbarie e la follia incomprensibile di questi, così tragici, momenti.

Chi mi ama…

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“Non hai Instagram? E quindi dove posso seguirti?” esplode in tutto il suo stupore, a mio avviso ingiustificato, un’esuberante pr conosciuta tra un assaggio di crostini di pane nero e un ottimo bicchiere di Merlot durante uno dei tanti eventi enogastronomici a cui talvolta presenziamo, fingendo perfino un briciolo d’interesse per il menu fra il bizzarro e l’indecifrabile che ci verrà propinato (“davvero servono del sushi di mortadella? ma è pesce o suino?”), e tralasciando le reali motivazioni che ci hanno spinto ad accettare l’invito (in ordine sparso l’organizzazione della serata ad opera di amici di amici che si ricordano di te come quello “così carino e simpatico”, la tua vita mondana oramai semiassente che reclama un minimo di attenzioni in più e soprattutto la vuota desolazione del frigo ad attenderti a casa). Il punto è che ad un qualsiasi interlocutore occasionale, magari colpito dal tuo patinatissimo biglietto da visita al punto da immaginare quella dicitura professionale di fashion contributor/writer/expert come un turbinio di occasioni sfavillanti da immortalare ogni secondo e condividere seduta stante sul maggior numero possibile di social network, di questi tempi pare realmente incomprensibile che tu non abbia mai avvertito l’esigenza di deliziare eventuali follower con valanghe di scatti giornalieri della tua, ben più ordinaria, quotidianità. Che occorre naturalmente rendere assai figa nelle foto per mezzo di un’apposita profusione di espedienti quali filtri (come i numerosi effetti illumina-volto, da conduttrice tv stagionata) inquadrature finto – casuali, milioni di hashtag introduttivi stuzzicanti (del tipo #style, #cool, #loveisintheair #everywhereIlookaround). In altre parole sembrerebbe inconcepibile oggigiorno valutare adeguatamente popolarità e credibilità in rete e perché no, nutrire allo stesso tempo la necessaria vanità 2.0, senza possedere un numero quantomeno decente di fedelissimi e non sempre conosciuti seguaci, pronti ad elargire pollici su o faccine sorridenti di apprezzamento, cuoricini rossi lampeggianti, like od ogni altra rapida reazione da tastiera, tutti simboli di momentanea stima che la genialità miliardaria degli ideatori di social ci mette ogni giorno a disposizione come strumento di valutazione delle idee, delle battute o dei lavori altrui, condivisi sul web attraverso i propri account Facebook, Twitter e compagnia bella. E se quel “pedinamento” virtuale sconfinasse per un giorno nelle nostre vite reali? E’ la riflessione, singolare e forse un tantinello inquietante, a cui giunge il lavoro di Lauren McCarthy, artista digitale e programmatrice newyorkese, ideatrice del progetto Follower (http://follower.today/#welcome), un sito corredato di app che su richiesta permetterebbe appunto di essere effettivamente tallonati per qualche ora, ovviamente a debita distanza, da un misterioso follower in carne ed ossa, incaricato dunque di seguire i nostri, anche banali, spostamenti giornalieri. A chi trova l’idea di avere un pedinatore in incognito stuzzicante più che da brivido, basterà così una semplice iscrizione al sito, compilare la relativa domanda, e se la procedura andrà a buon fine, scaricare l’app che tramite segnale Gps fornirà la sua esatta posizione all’enigmatico follower; “l’inseguimento” si concluderà poi nelle ore successive con messaggio di notifica della sua avvenuta fine, accompagnato da una foto che testimonierebbe l’attuazione dello “spionaggio” richiesto in un momento qualunque della giornata (da evitare dunque quei comportamenti che si soliti avere quando si è certi di non essere osservati, tipo scarpe tolte sotto ai tavoli o dita nel naso). Che aggiungere? Al di là dell’apparente insensatezza della questione e del momentaneo limite geografico del progetto (per ora solo realizzabile a New York e San Francisco) impossibile non coglierne l’intuizione davvero audace, da valida performance artistica più che da applicazione forse discutibile: tentare di abbattere il limite esistente fra universo virtuale e reale, traghettando l’ordinarietà delle regole dell’uno nella complessità di attuazione nell’altro. Ricordando infine che l’arte, per essere tale, deve essere specchio ed amplificatore della società contemporanea, che occorre rivelare in tutte le sue più assurde contraddizioni: compresa quella smania di voler condividere con sconosciuti ogni singolo momento della nostra, semplicissima, vita (dita nel naso eslcuse).

Onde su onde…

LIGO Gravitational Wave Chirp – YouTube.

Se non fosse per alcune, luminose, ciocche brizzolate, che aggiungono un tocco di curata nonchalance al suo aspetto e al suo (da me invidiatissimo) taglio di capelli rasato da un lato, Laura la potresti benissimo scambiare per una delle nostre decine di studentesse di moda, tanto giovanile e tanto scattante è la sua figura anche solo nel salire di corsa le scale dell’istituto dove entrambi insegnamo e dove spesso ci fermiamo per due chiacchiere al volo. “Mi tengo in forma facendo kitesurf” mi ha confessato una delle ultime volte, aggiungendo “è magnifico, dovresti provare”, sorvolando sulla mia espressione particolarmente dubbiosa e sulla leggera ansia provata al solo pensiero dell’esistenza di una disciplina sportiva da eseguire appeso come un fagotto ad una sorta di aquilone. “Grazie del consiglio, dovrei ricominciare sul serio a prendermi cura di me, ma ripartirei forse da qualcosa di più soft” mi svincolo io con la solita diplomazia, e lei placida e fiduciosa “allora potresti intanto farti seguire da un personal trainer, no?”, riuscendo al momento perfino a farmi provare un po’ di tenerezza nei confronti dell’ipotetico e sventurato coach incaricato in futuro di raddrizzare le sorti di questo corpo inesorabilmente in declino e soprattutto latitante dal lontano ’98 da una qualsiasi palestra (o forse era il ’97? Vabbe’, non che faccia troppa differenza). “Benissimo”, replica Laura di recente, con un sorriso a dir poco contagioso, a uno dei miei mattutini “Come stai?” che a volte troppo distrattamente rivolgiamo agli altri sperando non ci incastrino con lo stesso quesito (“escludendo insonnia e allergia di stagione, la solita mezz’ora di ritardo del treno e la giornata stressante che mi aspetta benone anch’io” credo sia stata la mia risposta), suscitando così tutta la mia curiosità per quella sua aria beata e serena, introvabile alla stessa ora (ma anche più tardi) nella maggior parte degli individui e prerogativa in genere di chi ha da poco ricevuto la più confortante delle notizie. “Quindi? Da dove ti arriva tanto buonumore?” la incalzo io, e lei, con fare gentile e allo stesso tempo spiazzante “Le hai mai sentite le onde gravitazionali? Siamo riusciti a dare voce all’universo, non è incredibile?”, avvicindandomi quindi all’orecchio il suo smartphone per farmi apprezzare il suono del video qui allegato. Ora, di tutta questa storia della recente e parrebbe sensazionale scoperta dell’esistenza reale delle onde gravitazionali io (ma non credo di essere il solo) non che c’abbia capito poi granché, se non il fatto che ci sarebbe di mezzo una delle tante intuizioni del buon vecchio Einstein (spesso scomodato anche per faccende più banali, fosse anche per il vuoto di fantasia che ci costringe a ricorrere alle sue citazioni da condividere su Facebook), e che in sostanza consisterebbero in un’increspatura, una deformazione anomala del nostro tessuto spazio-temporale, avvenuta forse miliardi di anni fa. Come e perché la loro certa individuazione, a detta della scienza fondamentale, dovrebbe incidere sulle nostre piccole e travagliate esistenze, così legate e assoggettate ad un ben più modesto tran – tran quotidiano, scandite da ritmi talvolta assurdi e autoimposti, da essere piuttosto semplice quale sono, totalmente immerso nelle sole questioni  terrestri (che già trovo abbastanza astruse) fatico un tantinello a comprenderlo. Ciò non toglie che abbia trovato la loro presunta melodia di una bellezza inspiegabilmente ipnotica, quasi un moderno e altrettanto seducente canto delle sirene: ricorda il gorgoglio del mare quando rimango a lungo immerso sott’acqua per sfuggire alle partite di pallone urlate sulla spiaggia, evoca il battito rallentato del nostro cuore o il respiro della persona che ci dorme accanto al cui ritmo proviamo a prendere sonno (sempre che non russiate, come il sottoscritto). Possiede perfino il sottile potere distraente dei corpi vorticosi, come in quei minuti interminabili in cui rimaniamo a fissare imbambolati il rincorrersi delle pale eoliche o, da eterni bambini, l’oblò della lavatrice in moto (ditemi che lo fate ancora anche voi), di gran lunga più efficace dell’antistress amatoriale fabbricato dalla mia collega Martina con un comunissimo barattolo in vetro per alimenti, un liquido bluastro e tanti glitter ed orgogliosamente esibito sulla sua scrivania (vi pubblicherò un tutorial al riguardo, prima o poi). Per una sola settimana l’ho addirittura utilizzato come principale suoneria del mio cellulare, rimpiazzando così per qualche tempo la vocina registata di mia nipote o i brani trash – pop di Britney Spears (e non voglio commenti al riguardo), ma, dopo una dozzina di chiamate perse ogni giorno sono dovuto purtroppo ritornare sulle mie vecchie scelte. Come a dire, il richiamo dell’universo sarà pure affascinante, ma le necessità quotidiane di noialtri comuni mortali indiscutibilmente più urgenti.

Ed io tra di voi…

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“Ancora non hai scritto niente? Ma è finita quasi una settimana fa!” esordisce con tono severo il mio amore, durante la prima delle nostre innumerevoli e spesso improbabili conversazioni telefoniche quotidiane, rinunciando anche stavolta alla prevedibilità di un frasario minimo che la natura del nostro rapporto invece richiederebbe (tipo “Ciao, come stai? Dove sei? “Quando torni?”, cose così). “Lo so, ma vedi, il lavoro, i viaggi, il tempo, la stanchezza…” tento di farfugliare io a mia discolpa, acciuffando le prime parole transitate in mente ad un orario che d’altronde ancora non mi permette di articolare frasi di maggior senso compiuto, “Niente scuse. Un vero fashion blogger non avrebbe tardato così tanto!”. Già, un “vero” fashion blogger, eccolo il punto. Una figura mediatica stuzzicante, forse, all’importanza odierna del cui ruolo, però, diciamocelo francamente, in fin dei conti non ho mai aspirato, perché ritenuta così lontana da me per indole, necessità di presenzialismo, vocazione alla stravaganza. Un’etichetta invece, di cui mi ritrovo, mio malgrado, rivestito, ad ogni appuntamento a cui accorro oltretutto volentieri data la natura delle mie competenze e delle mie collaborazioni (moda, costume e dintorni), ma che, in quanto autore di questo modesto spazio online finisce appunto con il relegarmi nel più vasto, variopinto e per me disagevole “calderone” dei fashion blogger. Come è successo di nuovo per l’ultima edizione di Altaroma, la tradizionale vetrina di haute couture nostrana, un concentrato di sfilate, eventi, presentazioni di moda che hanno animato per tre giorni, dal 29 al 31 Gennaio scorsi, soprattutto il volto post – industriale dell’Ex dogana ferroviaria di San Lorenzo: un palcoscenico coraggioso e azzeccato in cui ambientare gran parte della kermesse fino ad ampliarne il senso stesso, per porlo, anche visivamente, ben oltre la Roma sfarzosa e barocca dei palazzi nobiliari, facendone a sorpresa una capitale che può e deve nutrirsi, anche nella moda, di sperimentazione e contemporaneità. Una scelta quella della location, inutile nasconderlo, che ha sollevato in corso più di un dubbio o malumore (“Sai dove siamo qui?” mi fa un collega di fronte a un caffè “Nel quartiere storico dei centri sociali, capisci? Hai provato a farti un giro intorno?”. Beh sì, l’ho fatto subito dopo, grazie del consiglio. Ma non mi sono imbattuto in nessun “pericolo comunista”, solo in viuzze ed edifici dal fascino decadente), ma che è apparsa quantomeno necessaria ad una manifestazione come Altaroma intenzionata a cambiar pelle e quindi sempre più focalizzata nella promozione di giovani talenti, forse altrove facilmente azzerati dall’ingombro di un’opulenza estetica poco in linea con le loro stesse ricerche nel campo.

Di sicuro, di poco adatto all’intera situazione, c’era come al solito l’eccessivo rigore del mio look, (un paio di maglioncini del medesimo tono “ceruleo” da protagonista sfigata de Il Diavolo veste Prada, l’immancabile coppola di un brand low – cost da non sbandierare nell’etichetta per non turbare tutti gli altri presenti): pensiero condiviso perfino dai diversi addetti alla security o dalle solerti assistenti lì al lavoro che non perdevano occasione di intercettarmi ogni cinque metri per chiedermi di mostrar loro il pass nominativo con il regolare accredito, trattamento di rado visto riservato ai vari altri tizi che si aggiravano nei medesimi luoghi con gilet di paillettes, stivaletti tempestati di strass o cappellini svettanti di piume (l’esuberanza decorativa, si sa, viene sempre interpretata come la miglior garanzia di appartenenza al settore). A risollevarmi il morale ci hanno pensato, per fortuna, le interessanti intuizioni viste nelle varie collezioni, dalla raffinata disinvoltura di accostamenti cromatici e materici ad opera del duo creativo Greta Boldini, alla purezza scultorea delle borse di Avanblanc (degno di menzione anche il labirintico allestimento in legno studiato per l’intera sezione espositiva degli accessori), dai colletti e dai ricami di sapore surrealista audacemente poggiati sulle creazioni di Luca Sciascia, alla sfilata più sorprendente e innovativa, quella firmata dal giovanissimo Giuseppe di Morabito (nella foto), nuovo portavoce di una visione di stile senza dubbio coerente e quasi pittorica. Da segnalare, tra i nomi più accreditati, anche quello di Sabrina Persechino, per l’originale ispirazione alla figura mitologica di Aracne esplicitamente dichiarata nei suoi capi, tanto più effervescenti per il giorno, quanto più tradizionalmente austeri per la sera, nonostante gli studiati squarci di nudo ad infiammare la collezione e nonostante che dal posto assegnatomi, in linea del resto con la natura poco autorevole di questo blog, riuscissi a vedere per lo più l’acconciatura delle modelle e qualche schiena vip in prima fila (tra cui Tosca d’Aquino, la più elegante dell’intera kermesse, a mio modestissimo parere). Motivo per cui, nella mia prossima necessaria e stravagante tenuta da fashion blogger, prenderò forse di più in considerazione l’ipotesi di indossare un salvifico binocolo da opera che un qualche accessorio bizzarro, luccicante o ben identificabile da lontano.

Vien Gennaio freddoloso…

Così cominciava la primissima, e allora giudicata interminabile, filastrocca sui mesi, imparata non senza qualche difficoltà alle elementari e sfortunatamente mai più scacciata dalla testa, che la maestra Paola ci aveva insegnato a ripetere al ritmo della medesima cantilena sincopata con cui a scuola, qualche decennio fa, ti portavano ad interpretare un po’ tutto, dalla preghiera mattutina (ci toccava anche quella) alla tabellina del nove. “Vien Gennaio freddoloso, con la barba di ghiaccioli” e poi giù, tutto l’elenco serrato dei mesi a venire, a cui spesso ricorrevo mentalmente per ricordare la giusta collocazione di Aprile e Maggio durante l’anno, perché a 6 anni mi poteva capitare di invertirne l’ordine, così come di ignorare il significato di qualche aggettivo presente nella stessa poesiola, tipo “brullo”, indicato più avanti per descrivere Novembre, e che io all’epoca reputavo una sorta di insulto fantasioso, perché si avvicinava nel suono al mio toscano e già utilizzatissimo “grullo”. “Vien Gennaio freddoloso, con la barba di ghiaccioli” mi sorprendo ancora oggi a ripetere in silenzio, quando al mattino presto, appena alzato, per prima cosa mi affaccio per sbirciare il giardino sepolto da una coltre di scaglie biancastre, tra cui talvolta rinvengo le mie mollette per i panni, cadute dalla finestra, come fossero piccole meteoriti coperte da una corazza sottile di ghiaccio, o quando mi fermo a guardare compassionevole l’unica rosa gialla presente nel vialetto chiedendomi se troverà la forza di rifiorire anche quest’anno, quando mi scontro soprattutto con la mia solita inettitudine all’inverno e arrivo a contare esattamente i giorni che mi separano dalla tanto agognata estate (ad oggi 149). E’ inevitabilmente arrivato Gennaio anche quest’anno insomma, con il suo carico di aspettative bislacche e buoni propositi da stilare per poi accartocciare, con il primo appuntamento con cui in genere scandisco il tempo che passa, il compleanno di mia cugina (e coetanea) Francesca, che stavolta ho raggiunto nella sua nuova e labirintica casa nella campagna senese, tra camini accesi e vecchie stufe di ghisa, finendo naturalmente per ricordare durante il viaggio tutto il fantasticare sulle nostre vite fatto insieme in passato, quando da bambini spericolati e agilissimi sognavamo al contrario un futuro da ballerini, ginnasti o trapezisti, e ci sembrava davvero l’impresa più facile del mondo poterlo un domani realizzare. E’ giunto Gennaio, e del tutto indifferente all’umano e comprensibilissimo desiderio di cominciare l’anno nel migliore dei modi, ci ha sadicamente privato in maniera trasversale di alcuni artisti che hanno in qualche modo arricchito le nostre esistenze o forse, senza esagerare, l’umanità stessa, che può comunque ancora benissimo annoverare tra il suo patrimonio le superbe canzoni di David Bowie o i capolavori cinematografici di Ettore Scola, ci mancherebbe, ma la scomparsa dei loro autori ce li riveste adesso di una nuova e così triste luce. E con Gennaio ho dovuto salutare per sempre anche Marina, che non è di certo famosa come gli altri personaggi qui sopra citati, e forse non l’avrebbe mai neppure desiderato, perché spesso dimentichiamo quanto sia rara e straordinaria l’umiltà delle persone che scelgono invece di rimanere nell’ombra, con il solo e concreto scopo di alleggerire le vite altrui. “Vien Gennaio freddoloso, coi suoi undici figlioli. Che simpatica famiglia”, continuava la filastrocca, e a pensarci bene nei miei ricordi di allora non provavo nessun fastidio o stupore per questa frase riferita a una realtà forse atipica, un padre, nessuna madre, un numero esorbitante di figli, eppure né io né alcuno dei miei compagni si sarebbe mai sognato di mettere in discussione il valore di quella parola lì usata, “famiglia”, perché i bambini, dietro cui spesso ci barrichiamo o nascondiamo il nostro bigotto e ottuso integralismo, mostrano al contrario una naturale e disinvolta apertura mentale che tanti adulti (e politici?) dovrebbero forse prendere ad esempio. E proprio mentre in questi giorni il dibattito maggiore, anche pubblico per fortuna, riguarda appunto diritti e riconoscimenti delle famiglie, leggi necessarie e unioni civili, tutti passi rivoluzionari che mi auguro possano finalmente arrivare a  breve, sorrido mentre mi trovo a credere che la migliore e più calzante definizione anche per gli stessi nuclei familiari sia proprio quella scovata nella filastrocca per descrivere i diversi mesi dell’anno: “nessuno si somiglia e a suo modo, ognuno, è bello”.