Al di là delle lecite ma singolari ragioni, non si può non riconoscerle un tempismo quasi perfetto, tanto da far emergere subito il sospetto che una tale, sorprendente, originale, forse anacronistica, decisione, non sia poi così casuale. Perché il recente e sbalorditivo divieto scattato nella città norvegese di Trondheim (la terza del Paese per estensione e popolazione, non un piccolo villaggio medievale di poche anime strette nella morsa del gelo nordico) di proibire lungo le proprie strade l’affissione di immagini pubblicitarie con modelle desnude, o coperte solo da ridottissimi e sensuali costumi da bagno, cade, guarda caso, proprio a ridosso del 70esimo anniversario dell’invenzione stessa del bikini. Un compleanno importante, che forse non sarebbe passato in sordina, ma che la solerte e strombazzata delibera comunale della cittadina norvegese, intenzionata a combattere la presunta gravità delle ripercussioni sociali dovute a quei corpi perfetti e/o abbondantemente ritoccati, comunque gratuitamente esibiti, ha riportato ancor più sotto i riflettori, sottolineando ancor’oggi il potenziale scandaloso di quell’indumento nato ormai sette decenni fa (proprio come Cher, forse solo più deperibile…ah, auguri Cher). E se occorre pur ammettere che un simile oscurantismo mediatico aveva già colpito in passato le curve mozzafiato della top Eva Herzigova, o, in anni più recenti, proprio a Milano, il celebre fondoschiena di Belén Rodriguez, giudicati allora colpevoli non tanto della possibile diffusione di un’immagine negativa del corpo, quanto di poter causare pericolosi tamponamenti agli automobilisti ragionevolmente distratti da tanta ingigantita beltà, resta il fatto che lo storico due pezzi, lungi dal perdere nel tempo la sua prorompente carica seduttiva, in tutte queste storie di ordinaria censura venga ancora incluso fra i maggiori imputati. Aveva visto giusto dunque Louis Réard, il dimenticato sarto francese (liquidato nella maggior parte dei manuali di storia della moda con due righe di circostanza, meno di quanto in genere spetti all’inglese Mary Quant, inventrice della minigonna) a cui si fa risalire appunto il lancio sul mercato, nel 1946, del primo costume bipartito, a volerlo a tutti i costi ribattezzare Bikini – proprio come l’atollo delle Isole Marshall in cui gli americani effettuavano i loro test nucleari – immaginando così alla perfezione gli effetti di atomico sconquasso che l’indumento avrebbe provocato nel mondo. Ciò che forse Réard non avrebbe potuto prevedere è quanto invece il cinema abbia contribuito negli anni ad elevare al rango di capo iconico la sua preziosa invenzione, grazie agli indimenticabili due pezzi indossati da Brigitte Bardot (foto allegata) nei film che l’hanno consacrata al successo - come E Dio creò la donna del 1956 – o sulle spiagge di Saint Tropez, passando per la sensualissima Rita Hayworth (non a caso definita l’atomica) o per Ursula Andress (ricordata, nonostante la discreta carriera sul grande schermo, sempre e soltanto per il suo emergere dalle acque in 007 – Licenza di uccidere con un succinto costumino bianco corredato di cinturone e pugnale). Ma se il solo sentir parlare di bikini, più che alle leggendarie scene cinematografiche o ai corpi flessuosi delle grandi star vi fa pensare all’imminente (chissà poi quanto, dati i capricci meteorologici di questa primavera) e detestata prova costume, care amiche, avete di che consolarvi: potete sempre contemplare la possibilità, al contrario di noi maschietti, di ricorrere all’alternativa, certo non ideale per l’abbronzatura ma almeno esistente e più coprente, del costume intero. Noi uomini (che un sondaggio impietoso ci descrive provvisti di addominali scultorei da esibire solo nel meno del 30% dei casi…vale a dire che due esemplari su tre possiedono la pancetta, facciamocene una ragione), costretti a mostrare il nostro ventre non sempre tonico sulle spiagge, possiamo al massimo decidere se tirar su l’elastico di slip o calzoncini vicino all’ombelico, con quell’effetto visivo segato di sole al tramonto, o appena sotto, con risultati più simili a un qualche marsupiale. Sempre che non si decida tutti di trascorrere le vacanze altrove, lontani dal mare, oppure in un paese dalle temperature rigide, che so, ad esempio in Norvegia: lì i fisici statuari da ammirare o invidiare sembrerebbero banditi, anche in città.
Archivio dell'autore: Alessandro Guasti
Will you remember?
Di quella prima presentazione ufficiale ricordo tutto, o quasi. La sua stretta di mano accogliente e vigorosa, l’accento emerso in alcune parole che tradiva inconfondibili origini campane, un piccolo tatuaggio floreale poggiato sul braccio destro, la t – shirt grigia forse azzardata per la giornata pienamente primaverile solo sul calendario. E poi quel gentile ribadire l’offerta di un caffé, le confidenze preoccupate sul crescere veloce dei suoi figli, il malcelato e giustificabile orgoglio per i loro risultati scolastici, alcuni brevi aneddoti perfino troppo personali per essere condivisi con chi, come me, si conosce da soli tre minuti, ma dovuti, credo, al suo percepire il lieve disagio che mi coglie quando entro in un posto nuovo per la prima volta. Era soprattutto il suo viso quasi pittoresco a darmi da pensare, non direi esattamente familiare ma, di certo, già incontrato altrove, così come il suono della sua voce che a poco a poco cominciava a risultare meno sconosciuto alle mie orecchie: sì, l’avevo sicuramente già sentita, avevamo già parlato, forse ad una cena, forse ad una festa di compleanno, anni prima. “Ho incontrato un architetto oggi per lavoro”, racconto appena tornato a casa al mio amore, che, data la metà della sua esistenza al mio fianco e il 90% di una (moderata) vita mondana in comune, può venire incontro alla mia memoria in genere affidabile, quel giorno un tantinello zoppicante. “Sono però sicuro che l’avessi già visto, mi aiuti a ricordare dove?”, ed ecco così fioccare la sua risposta semplice, da persona pratica, che sa puntare dritto al sodo “Va bene, come si chiama?”. Boh. Il nome? Rimosso: niente, vuoto, nada de nada, completamente azzerato, in testa neanche il più banale appiglio, che so, una sola lettera o anche una vaga idea sulla sua lunghezza, che potessero far scattare d’un tratto un’associazione o un’illuminazione improvvisa in me, perso nel frattempo in quell’infinito e sconfortante ventaglio di possibilità anagrafiche esistente fra Leo e Gianmassimiliano.
“Tu registri soprattutto i dettagli” mi fa notare, qualche sera prima, la mia amica Chiara, raggiunta per un aperitivo fra ex – colleghi che abbiamo tentato di organizzare per mesi per poi ritrovarci in quattro (simpatici) gatti, a far quattro (piacevoli) chiacchiere, davanti a quattro (buonissime) birre. “Per esempio, cosa ti ha distratto adesso?” insiste, sottolineando il mio vagare altrove con lo sguardo, ed io “Lo so, stavi parlando, ma c’è quella tizia davanti a noi che si è inerpicata su dei tacchi esagerati e non ci sa proprio camminare, non vedi come si appoggia alle sue amiche?” “Non c’avrei mai fatto caso!” conlcude lei sorridendo. E se avesse semplicemente ragione? Se il mio cervello fosse davvero strutturato per assorbire e catturare solo tonnellate di particolari superflui o di sottigliezze trascurando invece tante altre informazioni che mi tornerebbero più utili o che si potrebbero rivelare necessarie o fondamentali? E’ ciò che mi succede, ad esempio, con i miei, oltre duecento, variopinti studenti di moda, di cui mi è impossibile ricordare tutti i nomi o le singole storie (o anche solo il rendimento), ma che ho ben immagazzinato mentalmente, ripescandoli all’occorrenza nella testa come “quello con i lobi forati da tribù amazzonica”, “quella con gli occhiali dalla grande montatura nera (che, quando toglie, non riconosco mai)”, “quello che alla visita al museo indossava gli scarponcini rosso fuoco” o “quella che non ha mai i capelli dello stesso colore dell’ultima volta o di un solo colore”. Perché poi, il timore, è purtroppo quello di smarrire per sempre, negli oscuri meandri della memoria, fatti, persone, episodi, che a distanza di tempo sarebbe invece comodo o interessante poter riuscire a rievocare o a riutilzzare, proprio come le circostanze e le esperienze, oggi dannatamente fumose, a cui mi è capitato, per caso, di ripensare in questi giorni e che vado qui ad elencare:
- La storia romana, che avevo studiato a fondo per un esame di archeologia e che sono costretto in questi giorni a ripassare per un progetto di lavoro, di cui però sembro aver cancellato ogni minima traccia. Ricordo bene il professore (no, il nome no, figuriamoci), i suoi buffi occhiali con una lente incrinata e malamente rattoppata con lo scotch e il lieve terremoto che ci colpì durante una sua lezione, fra il panico generale e il suo improvviso mutismo.
- Il metodo per fare i calcoli a mano che mi aveva insegnato mia nonna Rina, che ho sognato poche sere fa, e che non metteva in colonna le singole cifre ma riusciva comunque a sbrigare i conti su un foglietto di carta su cui annotava per esteso i numeri. Io ho riprovato proprio ieri a fare una divisione a due cifre, senza calcolatrice, e non sono andato più in là di uno sbilenco incasellamento (programma di terza elementare, credo).
- La ricetta originale del sashimi cucinatomi anni fa a Dublino dal mio amico giapponese Seiichi, che oggi non riuscirei ad eseguire senza ricorrere ad un tutorial ma che avrei potuto memorizzare rubando allora con gli occhi ogni suo gesto. Mentre ricordo solo il suo lento portare al naso gli ingredienti per valutarne la freschezza e il suo singolare quaderno illustrato di ricette, fatto di foto scattate a tavola e di pochi ideogrammi appuntati lì a fianco.
- Le circostanze esatte in cui ho conosciuto le solite tre (sempre le stesse, poi) arcigne pseudocolleghe che incontro una o due volte all’anno ai soliti eventi e che continuano invece a ripresentarsi come se non ci fossimo mai visti prima. Perché è scocciante dire “Sì, ci conosciamo”, senza poter precisare l’occasione in cui il fatto è avvenuto. E anche perché mi pare inconcepibile che alcuni costanti dettagli, come la mia pelata, i miei occhialoni o il mio accento non vengano riconosciuti al volo…possibile?
Tagli alla politica…
Ammettiamo, da creature benevole quali siamo, di essere disposti a sorvolare sui suoi, pur consistenti, certo non così memorabili, trascorsi televisivi, quando all’inizio degli anni ’90 il nome (ma soprattutto il corpo) di Simona Tagli, biondissima e procace ex soubrette purtroppo caduta da tempo nel dimenticatoio catodico, era noto ai più per merito di alcuni “stacchetti” sexy (sarebbe troppo definirli balletti) che introducevano forse il momento più alto della sua intera carriera, quando ricopriva cioè con successo il ruolo di valletta semimuta, incaricata di girare le caselle del Cruciverbone in una celebre (e vecchia ormai di 25 anni) edizione di Domenica In. Ed era quanto di più piccante si potesse vedere all’epoca sul piccolo schermo, se pensate che lo spirito bacchettone da sempre imperante nella tv di stato arrivò addirittura a vietare alla bella showgirl minigonne troppo corte, che, a causa dei suoi sgambettamenti provocanti e soprattutto dei pericolosi inchini necessari per completare le definizioni in basso, arrivavano facilmente a svelare al pubblico, forse fino a quel momento assopito sul divano, un po’ di più che un bel paio di gambe. Confessiamo pure senza vergogna che in anni più recenti abbiamo provato perfino un po’ di simpatia e di tenerezza per la stessa Simona, toccata, al pari di altre colleghe improvvisamente svanite da un qualsivoglia programma o intero canale, da quel crudele destino mediatico riservato a tante bellone che, superata però la critica soglia degli “anta”, vengono gettate via come carta straccia o relegate in discutibili comparsate in qualche salotto pomeridiano o, nella migliore delle ipotesi, esiliate a vita a vendere scomodissimi attrezzi ginnici o set da tavola componibili in ridicole televendite notturne. Non però lei, che al contrario, mostrando al tempo stesso delle doti insospettabili come spirito d’iniziativa, tenacia, autoironia, si era riciclata, con tutte le lodi del caso, in un attività rispettabilissima, quella di parrucchiera (anche se il passaggio professionale tardivo assumeva un po’ il sapore amaro di un ripiego) aprendo a Milano un proprio salone, tutt’oggi esistente, dal nome forse non così sobrio né azzeccatissimo, questo va detto, Vispa Teresa. Più sconcertante è semmai assistere, in questi giorni, a quella che sembra annunciarsi come la terza rinascita dell’inarrestabile Tagli che, a 52 anni suonati e forte di una buona forma ritrovata (“ho perso da poco 24 chili” sostiene…beata te, aggiungiamo noi), tenta stavolta la strada della politica, candidandosi nella sua città per la carica di consigliere comunale nella lista di Fratelli d’Italia, a sostegno dell’esponente di centro – destra Stefano Parisi. Peccato per quel programma così rigoroso di cui la combattiva Simona non fa mistero illustrandolo, un po’ confusamente a dire il vero, su numerose interviste rilasciate a giornali e radio, condite di affermazioni intransigenti su argomenti che meriterrebbero più fatti e meno slogan, come immigrazione (“Sì agli stranieri, se pregano il nostro Dio”…nostro di chi?), diritti alle coppie omosessuali (“L’importante è che le persone etero non diventino anormali”, e qui è superfluo ogni commento), infine curiosamente scagliate anche contro biciclette e piste ciclabili (“Sono motivo di insicurezza e bloccano il traffico”…le bici, mica i Suv!). Peccato soprattutto per quel manifesto (foto allegata), che più che il rilancio cartaceo di un nuovo volto politico sembra assumere piuttosto le sembianze di un siparietto patetico sul suo passato televisivo, rimarcato proprio da quell’orrenda grafica a cruciverbone in cui s’intrecciano i capisaldi della sua, già criticata, agenda (comprensiva di parole ingiustificabili come “amore” e “corro”…ma perché?). E che, impresa davvero ardua, è riuscito a scalzare perfino i manifesti fotoscioppati con una pseudoavvenente Giorgia Meloni (guarda caso candidata a sindaco di Roma con lo stesso partito) dal podio della più insulsa campagna elettorale di questi tempi.
Passato di spezie…
Spice Girls – Wannabe – YouTube.
Se servisse un’ulteriore riprova di come il tempo riesca talvolta a trasformare, con l’inevitabile ingresso nell’età adulta, in creature noiosamente posate e un filino nostalgiche perfino chi nei più turbolenti anni giovanili non faceva parlare esattamente di sé per la propria pubblica compostezza, basterebbe seguire un qualsiasi profilo social dell’ex ginger Spice Geri (ex) Halliwell (adesso che anche il nome, dopo il recente matrimonio con un direttore sportivo di formula 1, è stato rimpiazzato nei documenti ufficiali da un più morigerato signora Horner). Abbandonati infatti da un pezzo i discutibili ciuffi platino sulla chioma rosso fuoco, le zeppe slogacaviglia e gli striminzitissimi abiti Union Jack – allora principale divisa delle sue esibizioni – le dichiarazioni pericolosamente sfacciate e i gesti un po’ cafoni (come il coraggioso pizzicotto sulle chiappe dato al principe Carlo d’Inghilterra) la più peperina del gruppo, divenuta, almeno nel look, una quasi sofisticata lady di campagna inglese, a 43 anni suonati, preferisce postare sui propri account Twitter e Instagram foto e testimonianze della sua nuova, placida, esistenza, fatta di biscottini sfornati ogni domenica, barbose passeggiate a cavallo, teneri e immancabili gattini (e chi non lo fa?). Salvo poi dar spazio ad improvvisi momenti amarcord, come finestre da spalancare d’un tratto sul suo celebre passato canoro, pubblicando ad esempio, per la gioia di tutti i suoi follower (blogger dall’animo pop incluso), uno scatto delle Spice Girls al completo datato Aprile 1996 e realizzato sul set del loro primissimo video musicale Wannabe (qui allegato), brano divenuto poi il maggiore ed inevitabile tormentone degli anni ’90, reo di aver sdoganato il girl power come slogan del neofemminismo di fine millennio e quel zigazig ha come il più abusato doppio senso erotico del periodo. Immagini che riviste oggi, a vent’anni esatti di distanza, un potere lo hanno davvero, quello però di catapultarti in un’altra, lontanissima epoca, quando l’algida Victoria Adams, lungi dall’essere l’attuale, seguitissima, icona di stile nonché perennemente imbronciata signora sfornapargoli Beckham, veniva soltanto apostrofata come la più legnosa ed afona delle cinque, quando Mel B., prima di riciclarsi in qualche talent canoro o affrontare le controversie legali sulla paternità di sua figlia con il re della commedia Eddie Murphy, era una ragazzetta sguaiata che non perdeva occasione di mostrare il piercing sulla lingua, quando infine ci ricordavamo su due piedi della freschezza dei volti di Mel C. ed Emma Bunton (rispettivamente Sporty e Baby Spice) senza lo sforzo odierno di dover ricorrere all’aiuto di Google immagini. E poco importa se per deliziare i milioni di fan ancora esistenti ai quattro angoli del pianeta o piuttosto per rimpinguare di tanto i tanto i loro cospicui conti correnti le ex cattive ragazze lasciano circolare tutte le voci possibili su ipotetiche e maldestre reunion, talvolta perfino realizzate (come alle ultime Olimpiadi di Londra nel 2012), dimostrando tra l’altro di non aver neppure imparato, in tutto questo tempo, ad azzeccare due note in un’esibizione dal vivo: nel nostro immaginario rimarranno comunque per sempre cristallizzate nel look da mercatino e un po’ pacchiano, nelle movenze ricalcabilissime e nel ritornello facile facile di quel primo singolo, vecchio ormai di due decenni. If you want my future, forget my past, se vuoi il mio futuro, dimenticati del mio passato, così cominciava lo stesso brano: un consiglio che proprio le Spice Girls sembrano però non aver preso troppo alla lettera.
Tra palco e parco…
Ivy Park – Beyoncé ‘Where is your park’ – YouTube.
I milioni e milioni di appassionati di moda nel mondo, gli stravaganti e non sempre competenti operatori del settore, anche le più semplici e talvolta malvestite fashion – victims, ormai tutti arcistufi di assistere a continui balletti, a terremoti inaspettati o improvvisi licenziamenti ai vertici creativi delle maison (solo poche settimane fa l’abbandono di Hedi Slimane da Saint Laurent e la sua prevedibilissima sostituzione con Anthony Vaccarello, mentre rimane ancora vacante il trono di Dior, la semisconosciuta Bouchra Jarrar eredita il compito ingrato non far rimpiangere Alber Elbaz da Lanvin e più vicino a noi perfino Massimiliano Giornetti dice addio a Salvatore Ferragamo) sapranno trarre almeno un po’ di consolazione in questi giorni dalla notizia più presente e commentata su magazine e siti specializzati di tutto il pianeta. E cioè il lancio in pompa magna della nuova linea di athleisure wear (parola di oscuro significato, comunque una sorta di mix fra sportivo – athletic – e leisure, per il tempo libero) creata in collaborazione con il patron di Topshop Philip Green (ideatore della catena di abbigliamento colpevole di aver eletto a stilista perfino Kate Moss) ma soprattutto voluta e ideata (chissà poi quanto) dall’indiscussa e onnipresente regina del pop del terzo millennio, Beyoncé (nome che noi italiani fatichiamo forse un tantinello a pronunicare correttamente, ma che stando ai rimproveri della mia amica americana Christine si dovrebbe leggere “Biònsi”, senza quella “é” finale accentata, che fa un po’ sciroppo per la tosse). Sottigliezze linguistiche a parte, l’operazione colossale di prestito momentaneo della cantante al mondo della moda, che vede tra l’altro il coinvolgimento di un gigante della distribuzione online come Zalando, sito incaricato della vendita in esclusiva della collezione sui mercati europei, ha come freccia al proprio arco, un’ulteriore, forse vincente, intuizione: quella di voler rendere cioè glam, fashion, trendy (e se volete abusare di una altro termine del genere fate pure) il momento in cui invece spesso diamo il peggio in quanto a cura del nostro look: quello dell’attività fisica. E questo a cominciare sin dal nome dato alla linea, Ivy Park, ottenuto unendo in parte il nome stesso della figlia di Beyoncé, chiamata, secondo la discutibile consuetudine diffusa fra la star di rovinare l’esistenza alla propria prole, Blue Ivy, e appunto Park, il parco, luogo per eccellenza nel nostro immaginario deputato, almeno nelle intenzioni, ad un po’ di sano moto all’aperto. Ma mentre in prossimità della bella stagione noialtri comuni mortali raggiungiamo spesso quei miseri spazi verdi urbani dandoci al jogging infagottati in felpone con vignette di Snoopy o in maxi t-shirt più coprenti di un burqa, ecco che la ben più raffinata (e senza dubbio in forma) cantante, come si evince dal poetico spot della sua linea (video allegato), riesce ad apparire impeccabile, senza un capello fuori posto, una sola goccia di sudore o una sbavatura di trucco neppure quando si trova a saltare faticosamente la corda o ad emergere dalle acque di una piscina (visto l’effetto miracoloso, forse si tratta di quelle di Lourdes). Certo, i maligni potrebbero sottolineare il ricorrere nello stesso spot al solito espediente di incrociare le ginocchia sul davanti in tante inquadrature per attenuare quei fianchi leggermente abbondanti (trucco che decenni di pose di Raffaella Carrà in tv ormai ci hanno svelato appieno) o l’incomprensibile esistenza di attrezzi ginnici quali grandi cerchi metallici a cui appendersi come bradipi, perfino la criticabile scelta di utilizzare il bianco e nero per filmare la stradina deserta in mezzo al parco, così simile a quelle inquietanti sequenze dei film horror in cui ti aspetti un folle sbucare all’improvviso dalle fronde con un’accetta fra le mani. Mentre i più dubbiosi, finita la magia della sua visione, potrebbero rimanere con un solo, irrisolto, quesito: ma quale sarebbe poi lo scopo di firmare una linea fatta per lo più di ciabatte o fascette per capelli?