Campi minati

▶ Mina – La palla è rotonda [Mondiali di calcio Brasile 2014] – YouTube.

In determinate circostanze penso immediatamente che dovrei davvero ampliare la lista dei miei (scarsi) interessi, esplorare almeno una di quelle strade mai percorse che un nuovo hobby, in precedenza neanche preso in considerazione per un minuto, fosse anche il cake design o la danza sufi, potrebbe d’un tratto apririmi. Oppure provare a buttarmi coraggiosamente a capofitto nello studio di una materia fino adesso esclusa dalle mie limitate attenzioni, anche ripescandola tra quelle abbandonate troppo presto negli anni scolastici, come la chimica o la geografia astronomica, magari riscoprendo in loro un nuovo fascino che la mia accondiscendenza di uomo semi-maturo, a dispetto di certe rigide e giovanili repulsioni, sarebbe in grado adesso di riconoscere. E ci penso soprattutto in quelle rarissime occasioni in cui mi ammutolisco di colpo, la bocca silenziosa ma aperta per lo stupore, gli occhi che si fanno più sottili e attenti, perché letteralmente sedotto dalla potenza, dall’espressività e dal colore di altri linguaggi che, solo chi è avvezzo a praticare terreni da me poco battuti, riesce a padroneggiare o anche solo a comprendere. Talvolta ad esempio mi succede al ristorante, come quando l’altra sera, mentre la mia amica Simona mi chiedeva delucidazioni sulla crema al rosmarino (“Sai cos’è? L’hai mai mangiata?” “No, e dubito di farlo proprio oggi!”) ecco piombare tra di noi il sommelier, un ragazzo che dal viso non avrei giudicato troppo sveglio, a elencarci prontamente le qualità dei vini a disposizione da abbinare al nostro eventuale menu (“ma ‘sta crema poi la prendiamo?” “ma due fettuccine invece come le vedi?”). Ed ecco soprattutto dalle sue labbra schiudersi d’improvviso e prender vita davanti a noi mondi diversi e paesaggi pittoreschi, sentori e sapori anche lontani, evocati dalle sue parole con un’enfasi inaspettata, con un lessico barocco e iperbolico, che continuavo a trovare smisurato per poter essere tutto racchiuso in quella che ai miei occhi appariva ancora come una semplice bottiglia di vetro con del liquido alcolico all’interno. Ho capitolato infine di fronte al suo deciso sottolineare “al palato è tondo”, perché scosso dall’efficacia della presenza dell’aggettivo “tondo”, che posto a fianco del termine “vino”, potessi trascorrere anche interamente altre sei vite a scrivere, non mi salterebbe purtroppo mai in mente di utilizzare.

Stessa cosa mi accade quando, soprattutto negli assonnati e detestati lunedì mattina, mi accorgo di captare un po’ ovunque, a partire dal vocìo degli studenti scalmanati che affollano il bus ai capannelli di persone incaravattate fuori dagli uffici, delle colorite e originalissime (oddio, non sempre) discussioni di calcio. Tralasciando il limite della mia più cupa e scoraggiante ignoranza in materia, ciò che trovo avvincente è, oltre al calore e al trasporto che spesso permeano certi confronti post partita, l’uso di un vocabolario quasi epico, di espressioni ridondanti, di perifrasi ardite poggiate su termini che se utilizzati in altre situazioni quotidiane stonerebbero di certo perché troppo aulici. Che poi è decisamente lo stesso effetto che mi fa seguire i vari servizi sul pallone propinati da qualunque tg (me lo permettete un piccolo appello al direttore Mentana?: Enrì, uno a edizione sarebbe sufficiente, grazie!) in cui, a commento di quelle immagini che a me sembrano sempre identiche (un campo verde delimitato da due porte dove una ventina di giocatori corrono su e giù come forsennati) si intrecciano le più fantasiose e mirabolanti descrizioni, si indugia nella narrazione di azioni spettacolari e ipoteticamente mozzafiato, si ricamano parole immaginifiche che fatico ad abbinare alla visione di un qualche banale spezzone di partita. E che adesso ritrovo tutte fortunatamente concentrate, come in un approfonditissimo e senza dubbio ironico formulario, nel testo della nuova canzone della stravenerata (da me, in primis) Mina, La palla è rotonda (qui, almeno, sulla pertinenza dell’aggettivo non si discute), un samba coinvolgente, omaggio alla tradizione musicale del paese ospite degli imminenti Mondiali di calcio, il Brasile, per di più scelta da mamma Rai come sigla ufficiale delle trasmissioni del tanto atteso evento sportivo. Un brano più ritmato e trascinante della, pur onnipresente, colonna sonora dei Negramaro, Un amore così grande, di cui c’eravamo già occupati (http://www.tempiguasti.it/?p=2862), lanciata per la medesima occasione, il quale pare inoltre ribadire il ruolo, mai peraltro messo in discussione, della Tigre di Cremona come la nostra più eccezionale interprete di tutti i tempi, in grado, a 74 anni suonati, di essere ancora riconosciuta la sola degna di incarnare televisivamente le differenze dello sconfinato pubblico italiano che si radunerà di fronte alle partite. E che ho intenzione di imparare subito a memoria, se non altro per quell’uso sensazionale dell’aggettivo “ubriacante”, l’unico che forse avrei utilizzato, non proprio a casaccio, con il mio troppo saccente sommelier.

Lunga vita (virtuale) al Re!

Michael Jackson – Slave To The Rhythm – YouTube.

C’è chi lo negherà fino alla morte (perché, per quanto negli anni ti possa faticosamente esser riuscito di conquistare l’opinione di persona assai figa, per retrocedere all’infimo gradino di esemplare ridicolo basta invece un attimo) ma sfido a scovare anche un solo trenta/quarantenne degli attuali anni ’10 del terzo millennio che, due o più decenni or sono, non c’abbia provato almeno una volta. Magari allenandosi di continuo allo specchio nella blindata solitudine della propria cameretta, o forse fornendo un saggio discutibile delle proprie abilità danzerecce, spronato da quella scioltezza e dalla caratteristica faccia di bronzo che un qualsiasi pessimo vino, scolato senza freni in una qualsiasi festa casalinga, può regalare anche al più legnoso, restìo o timoroso dei ballerini. Di sicuro consumando prematuramente e in maniera sbilenca quella scomoda suola rasoterra, prerogativa di una certa marca di scarpe da tennis (perché sneakers è un termine fin troppo moderno, mentre gli attuali, coloratissimi e iperstrutturati modelli con ammortizzatori non sono proprio adatti allo scopo), oppure riuscendo a bucare sempre nello stesso punto centinaia di paia di calzettoni, perché in effetti, senza scarpe, cimentarsi in quel lento scivolare all’indietro sul pavimento poteva sembrare, almeno all’inizio, di una facilità impressionante. Per farla breve (che, diciamolo, non è proprio il mio forte) bastava accennare, anche in maniera scomposta, due passi, seppur incerti, del celebre moonwalk e ti pareva quasi di essere investito e in parte toccato da quell’unicità di grazia e dallo smisurato talento del solo, indiscusso e impareggiabile Re del Pop, Michael Jackson. E per quanto, all’epoca, potevate invece appartenere alla già esistente e altrettanto scatenata fazione dei madonnari convinti (nel senso di fan sfegatati, tutti pizzi e crocifissi, di Miss Ciccone, non di artisti da gessetti di strada) vi sarà comunque impossibile non riuscire ad ammettere il vostro debito di riconoscenza verso sua maestà Jackson. Colui che ha contribuito, soprattutto, a fissare nella vostra memoria di italiano così allergico alle lingue straniere quei cinque, sei, termini di inglese basico (tipo bad, dangerous, beat, o black e white) facilmente spendibili anche nella conversazione più improvvisata o spicciola, oltre naturalmente a quei sensuali movimenti pelvici che almeno in una circostanza (una di sicuro) vi saranno tornati piuttosto utili. Insomma, tutti coloro che ricordano a menadito le coreografie di Billie Jean o Smooth Criminal, che sono rimasti come ipnotizzati di fronte al fasto di videoclip come Remember the time o Scream, talvolta più lunghi e costosi di un’intera soap opera nostrana, che hanno assistito, sgomenti, alla radicale trasformazione di King Michael, causa delirio da eccesso di miliardi e di chirurgia plastica, da gradevole esemplare maschile di colore a femminea ed eburnea creatura priva di naso, che sono infine rimasti spiazzati e in qualche modo addolorati, cinque anni fa, dalla sua precoce e mai del tutto chiarita scomparsa, potranno in parte gioire questi giorni per il suo singolare ritorno sulle scene. Non tanto sul piano musicale, con l’uscita dell’album postumo Xscape, che, come già avvenuto per decine di artisti amatissimi e improvvisamente mancati, fa leva sulla pratica del necro-business sfruttando qualche traccia scartata nel confezionare lavori precedenti, magari arricchita di un qualche duetto con un cantante adesso in auge, così, tanto per darle una rapida ed orecchiabile svecchiata. Quanto quello avvenuto su un palcoscenico vero e proprio, sabato scorso a Las Vegas, in occasione dei Billborad Awards 2014, grazie a un sofisticato e studiatissimo ologramma virtuale che ha dato, per una notte, l’illusione di una sua coinvolgente performance in perfetto vecchio stile (video allegato). Che, nonostante la sincronizzazione non proprio perfetta con il corpo di ballo (vero e) presente e i mai superati difetti insiti nelle, ormai usatissime, ricostruzioni al computer, come una certa piattezza di ombre e l’inconsistenza materica dei corpi che sembrano galleggiare nello spazio, ha riportato sotto i riflettori le sue indimenticabili ed imitatissime movenze come la sua ineguagliabile bravura. Solleticando allo stesso tempo tutti i numerosi ricordi, la stima e la nostalgia dei suoi tanti sudditi ancora affascinati dalle capacità di un sovrano mai del tutto rimpiazzato.

Alla mia età

“Tranquillo Ale, in qualche modo mi organizzo. Grazie comunque, sei gentilissimo”. A schivare con placida cortesia le mie ansie telefoniche è mio cugino Piermario, poco più di vent’anni, un’invidiabile e sempre impeccabile chioma scolpita, un tatuaggio vistoso che fa capolino dall’avambraccio destro e un guardaroba puntualmente aggiornato di tutto il repertorio della più moderna vanità maschile. Un giovane uomo, che si dedica con devozione quasi rigorosa all’eleganza e alla forma fisica, che si preoccupa di scegliere con scrupolo cosa indossare, cosa mangiare, cosa evitare, che riesce a condire l’ineccepibile cura del suo aspetto con modi affabili e cordiali, con un sorriso pacato, con l’anacronistica educazione di chi, quando ti parla, rinuncia a rimanere per ore a testa bassa maneggiando il proprio smartphone. Una delle rare persone verso cui, in questa esistenza, ho sviluppato, in maniera straordinaria, un graduale e quasi soffocante istinto protezionistico, avvertito chiaramente la prima volta quando uscii in tutta fretta da scuola per catapultarmi in ospedale dove rimasi per ore immobile, a fissarlo, roseo e sgambettante, pochi momenti dopo la sua nascita, da dietro il vetro di una stanzetta surreale e asettica dove giaceva, con altri (secondo me più bruttini) neonati. Quell’irrazionale e mai sedato senso di crescente responsabilità che mi sono trascinato nel tempo quando, lui bambino più che esuberante, io adolescente irrequieto, spendevo volentieri i miei pomeriggi aiutandolo con i compiti di scuola, a fargli studiare, talvolta invano, i confini della Valle d’Aosta o il present continuous, accompagnandolo per mano, con orgoglio e incoscienza, dai miei amici che impazziti facevano a gara per tenerlo sulle spalle o per insegnargli nuove parolacce (che imparava più velocemente della geografia). E che non riesco ad accantonare neanche adesso che Piermario, quasi adulto eppure ancora cucciolo ai miei occhi, ha scelto di girare l’Italia inseguendo una malcerta carriera nella moda (una maledizione genetica, oserei dire), causa di telefonate improvvise del tipo “faccio un salto a Milano per un casting, forse poi riesco a fermarmi da te”, a cui reagisco fremendo per mettergli a disposizione casa, riempiendo il frigo di cibi salutari e ipocalorici che in genere snobberei, sperticandomi in valanghe di sms e consigli asfissianti per monitorarne spostamenti e successi. Con quell’evidente impulso ansiogeno, forse irrefrenabile, quasi paterno. Che mi fa sentire tremendamente vecchio.

Quella stessa sera che tentavo di definire, per telefono, i dettagli di una sua evenutale e graditissima visita, avevo però un appuntamento che mi avrebbe momentaneamente placato, o così credevo, quell’insensata autoimpressione percepita di “uomo-maturo-con-precise-responsabilità-e-doveri” di cui ogni conversazione intrisa del giovanile entusiasmo di Piermario mi lascia in balìa. Perché i miei infaticabili e diligentissimi studenti over 65, conosciuti tra i banchi di un interessante corso per la terza età in cui mi sono ritrovato, con soddisfazione ineguagliabile, a insegnare storia del costume, avevano organizzato una cena spettacolare di fine anno che non avrei potuto perdermi per nessun motivo. Alla quale mi ero presentato, in realtà, armato delle più buone intenzioni di non ferire, casomai, la loro generosa disponibilità anche quando, temevo, avrebbero potuto cominciare a intavolare discorsi incentrati su malanni o malesseri tipici della loro età (“sai, ho ritirati le analisi…questo non potrei mangiarlo…se non fosse per quest’artrite…etc, etc.) Ecco, non è andata esattamente così. L’esordio imprevedibile di tre di loro piuttosto è stato: “Ale, scusaci, non siamo potute venire alla tua ultima lezione, ma eravamo in Uzbekistan” “In Uz..in Uzbekistan?” faccio io, tentando di nascondere lo stupore “Sì, ci sei mai stato?” “No, mai (in realtà adesso non saprei collocarlo neanche con precisione nel mondo)” “Devi andare, è favoloso. Stiamo già pensando di ritornarci”. E non si è neanche trattato di un episodio isolato, anzi, la serata si è svolta unicamente su un registro del tutto simile. “L’altro giorno ho fatto un magnifico giro in mongolfiera” mi fa d’un tratto un’altra allieva “ma ci sarai già salito anche tu, no?” “A dire il vero no (ed escludo di farlo in questa vita)” replico io, sempre più scioccato “Te lo consiglio, davvero, non sai che ti perdi”. “Vai a ballare domani?” mi chiede poi un’altra ancora “Non penso. Perché tu sì?” “Sì, certo. Ma devo rientrare presto. La scorsa settimana, quando sono rincasata, alle 6.45 (giuro) ho beccato mio nipote che andava a lavoro e mi ha rimproverata”. E vi assicuro che riuscire a gustare la cena, o anche solo a deglutire qualche boccone, è stato in alcuni momenti piuttosto difficile, perché le narrazioni avventurose dei loro recenti viaggi in tutto il pianeta, dei loro quotidiani allenamenti in palestra o in piscina, dei loro hobby numerosissimi e a volte pericolosi, che hanno fatto da sottofondo a tutta la sorprendente serata, mi hanno letteralmente preso in contropiede, turbato, sconvolto. E fatto sentire, di nuovo, in maniera diversa e inaspettata, vecchio.

Divertito ma pensieroso faccio finalmente rientro a casa. Trovo il mio amore ancora in piedi, con tutta probabilità stava leggendo uno di quei classici mattoni da migliaia di pagine che adora tanto. “Com’è andata? Ti sei annoiato?” mi chiede con curiosità, ed io “Tutt’altro, credimi. Una vera e propria rivelazione! Piuttosto” proseguo “ma quanti anni ho?”. Per fortuna, conoscendo ormai perfettamente tutti i miei devastanti arrovellamenti sul tempo che passa, invece di allarmarsi di fronte all’apparente illogicità della domanda, replica, come migliaia di altre volte in passato, con “Non preoccuparti. Sei ancora giovane”. Questa volta però leggo una maggiore esitazione in quelle parole, un silenzio di qualche secondo di troppo piazzato inavvertitamente prima della sua risposta. Non va bene. “Almeno tu ricordi, vero, quanti anni abbia io, di preciso? Non quanti ne dichiaro, quanti ne ho”. Uno dei disarmanti pregi della mia dolce metà è che è del tutto incapace di fingere, che messo improvvisamente alla strette non spara la prima bugia di rattoppo, ma si rifugia in una risata contagiosa e colpevole, che si arrampica fino all’azzurra limpidezza dei suoi occhi. “Ecco, adesso, così, su due piedi…” “Su due piedi un corno”, ribatto irritato ma cominciando ugualmente a ridere “stiamo insieme da quando esistevano i Take That e non riesci a ricordare esattamente la mia età?” “E va bene”, continua “se proprio insisti. Quasi quaranta”. Taccio. Soprattutto per aver sentito “quella” cifra. Poi riprendo “Questa conversazione ha preso una bruttissima piega. Ne riparliamo domani”. La notte mi sveglio all’improvviso, mi ritrovo a contare e ricontare i miei anni, mi sembrano molti di più. “Quasi quaranta” penso nel dormiveglia “Non può essere. Secondo me sono troppi. Domani forse arriva Piermario. Quasi quaranta. Sì, sono troppi. Mi sento vecchio. E’ il caso di prenotare un giro in mongolfiera”.

Virale di brutto!

Pittarello Rosso diventa PittaRosso con Simona Ventura [SPOT TV 2014] – YouTube.

Nessuno rimarrà sorpreso o sconvolto dalla seguente affermazione, ma detesto avere torto. E va bene, mi si dirà, in fondo è una caratteristica piuttosto tipica, forse indicativa, di tutti quegli individui che, sopravvalutando il peso delle proprie opinioni, non si limitano a rivestirle di una fittizia e quasi sacrale importanza, ma fregandosene dei limiti della comune decenza o di una discrezione talvolta apprezzabile, si dimostrano perfino così presuntuosi da costruirci intorno, ad hoc, un personalissimo quanto insensato spazio virtuale. Motivo per cui, quando a darmi in qualche modo contro o ad evidenziare l’infondatezza di certi miei pensieri ci si mette il web stesso, mezzo su cui mi vado illudendo, da tempo, di avere anch’io una mia, seppur flebile, voce in capitolo, ecco che stizza e malcontento raddoppiano. Proprio l’altro giorno, a riprova di quanto io stesso possa naturalmente beccare in rete qualche granchio, una mia amica che decide di postare sulla sua pagina Facebook uno spot amatoriale (mi si perdoni la momentanea dimenticanza, non ricordo più di cosa), parodia di una tra le più celebri pubblicità del passato, quella del profumo Egoiste di Chanel (per chi ha la memoria corta o un’invidiabile giovane età linko qui l’originale: http://www.youtube.com/watch?v=2JSRXtH3wRk). Ebbene, credevo, per quanto all’epoca riuscito, famoso, costoso (venne appositamente costruita dal niente la facciata di quel finto hotel), lo spot di Chanel sbeffeggiato è però troppo vecchio (anno 1990, quasi un quarto di secolo) per mantenere ancora una sua efficacia comunicativa, per permettere a chiunque di cogliere esplicitamente quel richiamo, anche ironico, che presuppone però un preciso tuffo indietro negli anni. Mi sbagliavo (frase che vi consiglio di leggere attentamente adesso, può darsi che non la ritroviate mai più): pollici su e commenti di apprezzamento continuavano a moltiplicarsi sotto la pubblicazione dell’anteprima del video e soprattutto sotto i miei occhi increduli, sintomo di quanto anche una semplice e non più recente pubblicità, se basata su un’idea convincente e ben realizzata, possa arrivare a godere di una fama più duratura di quanto probabilmente si sarebbero mai aspettati i suoi stessi creatori. Per un’irritante e sgradevole coincidenza, grazie ad un successivo messaggio di quella stessa amica, mi ritrovo per di più ad essere smentito nelle mie convinzioni una seconda volta, e nel giro di pochi giorni poi: perché, in mezzo ai suoi affettuosi saluti e ai racconti della sua movimentata vita familiare e professionale, ecco che mi piazza un diretto “ma l’hai visto lo spot di PittaRosso (video allegato)? non pensi sia il caso di scriverci qualcosa?”. Ed io, dall’alto del mio piedistallo di spocchia, con tutta la sufficienza del caso, che le rispondo lapidario “ma è così brutto, a chi vuoi che interessi?”. A chiunque, tranne che a me, mi verrebbe adesso da aggiungere, visto che dopo Suor Cristina e Conchita Wurst (personaggi di cui, per fortuna, mi sono occupato con una discreta tempestività) è forse il terzo fenomeno più commentato, scandagliato, preso di mira dall’intero e cattivissimo popolo della rete. Che, giustamente, ne ha fatto l’emblema della pressappocaggine e della più ripugnante banalità oggigiorno imperante sui nostri media. Che, a ragione, ne ha sottolineato, colpito, demolito quella sciatteria di realizzazione, la totale ed evidente mancanza di una trovata di base, l’incomprensibilità di quell’odiosa musichetta martellante su cui allestire l’insulso ballettino, una marcia zoppa e disarticolata, evocazione pessima dei famosi e già imitatissimi passi degli All Blacks. Che, come prevedibile, si è più volte interrogato sulla presenza di un volto noto come la Ventura e sulle oscure ragioni che l’avranno spinta a metterci la faccia (soldi? una fornitura vitalizia di scarpe? una scommessa persa?), sull’ambiguità di quella frase “te lo dice la Simona in rosso” pronunciata però in abito candido (errore? furbizia? budget esaurito?), sul disastroso risultato finale, di un orrore epocale, difficile da dimenticare. Elevandolo, al contempo, come ineguagliabile termine e idolo assoluto della bruttezza contemporanea, un’apologia della sconclusionatezza e del mal riuscito che si trasforma, a tutti gli effetti e suo malgrado, in un clamoroso successo. Bersagliato, scimmiottato e cliccatissimo. Con il reale rischio di ritrovare, fra venticinque anni, ancora qualcuno disposto a prenderne nuovamente ispirazione per l’ennesima, avvilente, parodia.

Innocenti ossessioni

Giorgio Pasotti “DIARIO DI UN MANIACO PERBENE” – Trailer Ufficiale HD – Dall’8 Maggio al Cinema – YouTube.

A stuzzicare la mia, ormai nota, curiosità è stata soprattutto quella scelta singolare del titolo. Con un ossimoro così ben confezionato, forte di una stringente e contrastante dualità, a chi come me ha imparato solo con il tempo a convivere, sdrammatizzandone gli effetti, con le proprie ossessive stramberie, quelle parole sembravano infatti fin troppo calzanti per non buttarsi a capofitto nella visione di una storia in cui poter, forse, ritrovare qualche traccia della stessa, imperfetta e rocambolesca, umanità. Aspettativa, questa, che la pellicola in questione, apprezzata e apprezzabile, non delude affatto: perché Diario di un maniaco perbene, primo, fiabesco eppur verosimile lungometraggio di Michele Picchi, proprio in questi giorni nelle nostre sale cinematografiche, è una commedia fresca e rassicurante, che, dosando garbo, tenerezza e ironia, tratteggia uno spaccato di una quotidiana e, allo stesso tempo, speciale esistenza, perennemente in conflitto con le proprie, inevitabili, voragini interiori e il desiderio di non lasciar trasparire all’esterno le più profonde o lievi incrinature dell’anima. Quelle, naturalmente, con cui si trova a fare i conti l’inquieto e stralunato protagonista, Lupo (Giorgio Pasotti), pittore quarantenne travolto da una sotterranea crisi personale e artistica, acuita da un approccio a tratti spiritosamente voyeuristico nei rapporti con il variegato universo femminile che lo circonda e da cui, talvolta, rimane irrimediabilmente turbato. Debolezza che tuttavia non gli impedisce di attirarsi sempre, e in parte di subire, le simpatie e gli apprezzamenti degli altri, invadenti o stravaganti, individui che gli ruotano attorno, a cominciare dai pochi amici, forse sinceri ma non altrettanto disinteressati, passando per una ex ancora asfissiante, preda di un catastrofico vittimismo sociale, fino ai vicini, calorosi e bizzari, tutti in qualche maniera sensibili ai suoi modi fin troppo cordiali e alla sua apparente linearità di condotta. Già, perché solo lo spettatore viene reso partecipe del sottile dramma, se così si può dire, presente nella testa di Lupo, leggibile tra le righe di quel travolgente flusso di pensieri all’origine di una vita più immaginata che vissuta, imperniata su una continua fuga dalla realtà per supposta inadeguatezza, la stessa che gli fa spesso accarezzare l’idea di un suicidio plateale, senza mai prenderla veramente in considerazione. Tutto sembra dunque scindersi per contrapporsi o per continuare a viaggiare su binari paralleli: la Roma “caciarona” e un po’ becera che il protagonista pare solo apprezzare dall’alto dei tetti, al rifugio nel suo appartamento sgangherato, i silenzi che seguono la gentilezza di un sorriso e che nascondono invece grovigli di riflessioni, i difetti di un’identità travagliata, invisibili a chi si ferma alla piacevolezza della superficie e che emergono dirompenti invece nei momenti di piena solitudine. Gli unici tra l’altro caratterizzati da una necessaria e spiazzante sincerità, altrove unicamente affiorata nel tenero rapporto di Lupo con la nipote, una bambina di nove anni, la sola di fronte a cui il portagonista sembra finalmente non temere l’eventuale ridicolaggine dei suoi comportamenti. Un film delicato, surreale ma concreto, consigliabile a chiunque, soprattutto a chi crede che nella vita, come in un qualsiasi altro gioco, non si tratti semplicemente di vincere o di perdere ma di provare almeno a imparare le regole.