Il sollievo che provo al momento, misto a un piacevole stupore, è lo stesso di chi può finalmente uscire dalla clausura del proprio rifugio, dove era rimasto ad attendere la furia distruttiva di un uragano tempestivamente annunciato, il quale invece si è andato a poco a poco trasformando in un’innocua pioggerella rinfrescante. Tutto il clamoroso trambusto che in effetti non c’è stato e che al contrario avevo previsto e temuto, si giustifica purtroppo con il ricordo semitragico di una piccola, vecchia, vicenda personale, quella della stesura del mio primissimo articolo firmato, un banale trafiletto di poche righe che, come gran parte dei nostri inutili cimeli, dovrei ancora tenere incorniciato da qualche parte. Esattamente 15 anni fa, chiamato con orgoglio ad esporre, per un modesto quotidiano locale, il mio parere di giovane studente d’arte (allora lo ero davvero…giovane, intendo) sulla temporanea installazione in piazza della Signoria a Firenze di alcune opere dell’artista colombiano Fernando Botero (noto soprattutto per le forme abbondanti e dilatate dei propri soggetti), commisi l’errore (l’inesperienza, mi dissi) di trascrivere con chiarezza il mio giudizio più che positivo sulla stessa mostra, contrariamente alla diffusa opinione comune. Ecco, un debutto incosciente, ripensandoci. Risparmiandovi il seguito di lettere inferocite che giunsero in risposta, talvolta veicolanti qualche insulto di troppo (circostanza che mi ha tolto il sonno per giorni interi e fatto dubitare di aver sbagliato strada già all’imbocco), ricordo anche tutte quelle riflessioni dei lettori (più civili) indirizzate a spiegare le ragioni della loro lieve avversità agli interventi ritenuti invasivi o dissacranti, seppure allestiti per un tempo limitato. Oggi, pur continuando io a pensarla proprio come allora, cioè vedendo in una qualsiasi piazza, soprattutto in quelle più celebri e visitate, un interessante e sfruttabile terreno di sperimentazione visiva e perché no, artistica, arrivo a capire maggiormente l’attaccamento di chi è nato e cresciuto fra i capolavori di un museo all’aperto, come lo sono spesso le nostre città, al volto ritenuto intoccabile di tanta riconosciuta e ammirata bellezza circostante. Ragion per cui alle prime indiscrezioni circolate, qualche giorno fa, sull’imminente arrivo di Monumental Pucci (foto allegata) un’originale installazione di 2000 mq consistente in una sorta di maxi-foulard, griffato ovviamente Emilio Pucci, che avvolgerà, per tutta la durata dell’ 86° edizione di Pitti Uomo, in programma dal 17 al 20 di Giugno prossimi, le pareti del battistero fiorentino di San Giovanni, la reazione che mi aspettavo era quella di un nuovo “effetto Botero”, una critica unanime e radicale verso l’intera operazione. A darmi torto è stata invece l’accoglienza entusiastica del fantasioso progetto, otto teli che rivestono gli altrettanti lati del noto monumento romanico, riproponendo alla lettera i motivi coloratissimi disegnati dallo stesso Emilio Pucci su di un suo storico foulard del 1957, chiamato appunto “battistero” ed ispirato nei decori al medesimo edificio. Non solo: la riproduzione in grande scala, realizzata dalla maison in seno alla manifestazione di Born in Florence, una delle iniziative di Firenze Home Town of Fashion ideata per festeggiare i 60 anni del Centro di Firenze per la moda italiana, sarà affiancata da ulteriori tre interventi in città siglati dalle altre storiche griffe qui fondate, Ferragamo, Gucci, Scervino. Il che spiegherebbe il successo della maxi – installazione di Pucci tra gli stessi fiorentini, che ne apprezzano la chiara finalità autocelebrativa, oltre all’indiscusso vantaggio di ricoprire con più stile le impalcature che adesso nascondono il Battistero, in fase di ristrutturazione per la visita ufficiale di Papa Francesco alla città prevista per il prossimo anno. Ad essere contestata semmai, perché le critiche sono sempre immancabili alla vigilia di certi appuntamenti, è stata invece un’altra struttura temporanea, sempre realizzata in concomitanza con i giorni della moda a Firenze, per di più innalzata proprio a pochi passi dalla citata piazza San Giovanni. Si tratta dell’ultima trovata del famoso store LuisaviaRoma, nata, come già altre in passato, dalla mente creativa di Felice Limosani e consistente questa volta in un’enorme voliera in cui rinchiudere decine di farfalle esotiche (http://www.gqitalia.it/moda/2014/06/14/parmigiani-fleurier-window-art-firmata-felice-limosani/): un’inconsueta presentazione che, basata sull’accostamento tra il volare del tempo e quello dei lepidotteri, intende lanciare la nuova collezione di orologi realizzata in esclusiva per la boutique fiorentina dal brand Parmigiani Fleurer. Il tutto, ovviamente, tra le feroci proteste degli animalisti e gli sguardi incuriositi dei passanti, più turbati che divertiti dalla presenza della gigantesca gabbia e dal suo contenuto insolito. Già, perché il tempo vola, così come le farfalle. Ma anche le polemiche, in questi casi, non sembrano essere mai da meno.
Archivio dell'autore: Alessandro Guasti
Luna nuova
▶ Shivaree – Goodnight Moon – Clipe – YouTube.
Spazzeranno via anche molti dubbi relativi alla sua vera origine, alla natura della sua misteriosa e ostile composizione, alle ragioni della sua millennaria presenza appesa in aria a scrutare i ritmi sonnolenti delle notti terrestri. Ma ad ogni nuova ricerca scientifica che spieghi qualche capitolo in più della sua lunghissima storia o arrivi a sviscerare tutti i dettagli sulla vita del nostro satellite, ho come l’impressione che venga in parte scalfita la purezza di quell’affascinante volto di romanticismo e di imperscrutabilità che il genere umano ha da sempre riconosciuto nella luna. Non c’è paragone infatti tra la freddezza dei dati che proprio in queste settimane affioravano con scrupolo in numerose testate giornalistiche nel fornire i particolari di una nuova, sensazionale scoperta, che attribuirebbe la sua nascita alla probabile e devastante collisione, avvenuta 4 miliardi di anni fa, tra la Terra e un corpo celeste di dimensioni planetarie dal nome mitologico, Theia (http://scienza.panorama.it/spazio/Ecco-come-e-nata-la-Luna), e, dal lato opposto, tutto lo sconfinato bagaglio di leggende fantasiose, riti e tradizioni che a ritroso nei secoli gli antichi popoli hanno immaginato e narrato per giustificare la sua esistenza e la sua continua e ciclica trasformazione. Il mio amore, ad esempio, di recente preso dallo studio e dalla passione per la ricca cultura indiana, pochi giorni fa, durante un viaggio notturno in auto, forse per interrompere le mie penose interpretazioni canore con cui seguo la radio, mi raccontava, con la giusta enfasi, la storia del dio Ganesha, golosa divinità indù dalla faccia di elefante, che scagliò una delle sue zanne di avorio contro la luna incrinandone la superficie e determinandone così la luminosità a fasi alterne. “E perché mai avrebbe spaccato la luna questo Ganesha?” “Perché aveva osato ridere di una sua indigestione” “Permaloso però, il pachiderma”. Altrettanto originale, anche se non così degno di essere celebrato nei libri di tradizioni popolari, è l’utilizzo infantile del nostro satellite che ne fa la mia adoratissima nipote, a cui ricorre con furbizia come diversivo per non rispondere alle domande giudicate troppo incalzanti (“Hai finito di mangiare?” “Guarda zio, c’è la luna!”) dimostrando, con la rapida scaltrezza dei suoi pochi anni, di aver già compreso il potere magnetico di quel disco celeste di distrarre le persone o di riuscire a distoglierle dai propri pensieri. Che poi è ciò che cerco appunto di fare questa notte, la prima accompagnata dall’odioso caldo torrido di stagione, che mi spinge a preferire la finestra al letto, dove almeno posso sentire sul viso il tocco rinfrescante di una brezza, che provo a trattenere il più possibile con il respiro, mentre ascolto in loop una canzone perfettamente appropriata, Goodnight moon, buonanotte luna (video allegato). In realtà so benissimo che a tenermi sveglio non è di certo la temperatura, che il mio fisico, seppur appesantito da troppi stravizi culinari, riesce a tollerare da sempre a meraviglia, quanto uno sfinente e prolungato momento di intoppo e di generale ripensamento, soprattutto professionale, che sta adesso attraversando la mia vita. When I’m alone all the dreaming stops and I just can’t stand, ‘da solo tutti i sogni si fermano e non posso sopportarlo’, continua il brano che sembra ricalcare alla lettera ogni mia più dubbiosa riflessione e che rimbalza appena sulle mie labbra mentre fisso la luna, congelata in uno spicchio di cielo tra il profilo rigoglioso di una collina, ora di un buio impenetrabile, e un mostruoso e deserto cavalcavia. Sto per mettere in discussione e forse concludere del tutto una vecchia collaborazione, seppur prestigiosa, che ho coltivato per lungo tempo con enormi sacrifici, in cui adesso però mi pare di scorgere più incognite che stimoli, mentre accarezzo sempre di più l’idea di ricominciare da un’altra parte, anche se non so bene dove, scontrandomi con tutte le paure, le ansietà e le speranze di un nuovo, ipotetico e necessario inizio. What Should I do? Che dovrei fare? Magari riuscissi davvero a saperlo, anche solo a leggerlo con esattezza sulla superficie biancastra della luna, che stanotte ha assunto la forma irregolare di uno strano recipiente parzialmente svuotato. Direi quasi un calice, un bicchiere forse, assurda e calzante metafora di come per andare avanti mi converebbe d’ora in poi riuscire a intravederne invece la metà piena. Buonanotte ottimismo. Buonanotte luna.
Cattivissimi noi
Maleficent – Trailer Ufficiale italiano | HD – YouTube.
Ci rimuginavo per l’appunto l’altra sera, ma come di frequente accade durante quel percorso sconnesso in cui si muovono le mie, spesso astruse, riflessioni, senza riuscire propriamente a fornire una risposta del tutto adeguata come anche solo a dare pace a certi inutili quesiti che continuano così a rimbalzare irrisolti tra le pareti di questa mente bizzarra. E ciò che non finirà mai di stupirmi è che, il più delle volte, a innescare dentro di me infinite e intricate serie di domande, siano normalissimi episodi quotidiani, occasioni superficiali o frivole, situazioni facilmente definibili come ordinarie o banali, sufficienti però a smuovere qualche interrogativo o questione di troppo. D’accordo, vado al sodo (ma quanto mi piacerà tirarla per le lunghe, eh?): decido, in linea con la mia indifendibile inclinazione al pop, di guardare l’ultima pellicola della Disney, Maleficent (nel video allegato il trailer), che poi altro non sarebbe che l’ultima versione per il grande schermo di una delle più celebri fiabe di tutti i tempi, quella della Bella Addormentata, narrata però questa volta da un punto di vista, almeno nelle intenzioni, più originale, quello del cattivo, anzi della cattiva, di turno, la fata Malefica appunto (lo so, pensavate fosse una strega. Anch’io. No, per quanto non esattamente docile, sempre di fata trattasi. Credetemi). E nonostante un riadattamento estetico del personaggio a dir poco affascinante, che ammanta la protagonista Angelina Jolie di una macabra e spettrale eleganza, regalandole due zigomi geometrici, che la nostra Ferilli parrebbe smunta al confronto, e un’intrigante collezione di copricapi dalle corna ritorte come solo certe antilopi africane, quella pura cattiveria che ci si aspetterebbe scorrere nelle vene di Malefica viene invece diluita nel film dalla narrazione di una serie di episodi che (non vi anticipo, tranquilli) spiegherebbero le ragioni della sua nota malvagità. Una piccola delusione insomma. Voglio dire: se c’è un pregio che possiedono le fiabe, tutte, è sempre stato il potere di ridurre i meccanismi della vita alla semplice contrapposizione tra bene e male (a parte la differenza fondamentale che nelle favole sia sempre e solo il bene a trionfare, e vissero tutti felici e contenti) di metterci di fronte, sin da bambini, alla consapevolezza che la cattiveria, il disprezzo, l’astio siano emozioni realmente esistenti, negli altri come in noi stessi, con cui un giorno dover purtroppo fare i conti. Abbiamo davvero bisogno di giustificare, mitigare, approfondire le ragioni di un’azione crudele, di un pensiero sprezzante, di un dispetto o di uno sgambetto fatto per il sadico gusto di farlo, tirando invece in ballo una qualsiasi altra motivazione o circostanza passata che sia la vera e recondita causa di certe umane e non proprio edificanti pulsioni? Occorre sul serio trasformare la strega cattiva delle fiabe in una fata dal vissuto traumatico così da poter comprendere meglio e addolcire ogni sentimento più odioso, allontanando dunque da noi l’idea che si possa semplicemente e intenzionalmente essere talvolta scorretti, immorali, diabolici? Perfino la stessa scienza sembra riabilitare certi comportamenti dettati da un pizzico di perfidia, ai quali dovremmo necessariamente ricorrere per metterci al riparo dalle delusioni in agguato dietro l’angolo, per garantirci qualche soddisfazione in più nella vita professionale e privata, per scansare infine tutte quelle inutili illusioni che una visione troppo ingenua e ingannevole delle persone e delle situazioni circostanti potrebbe al contrario fornirci (http://www.staibene.it/psicologia/articoli/single_news/article/la_cattiveria_e_utile_ecco_perche/?refresh_cens). Ma prima della sua presunta utilità dovremmo riuscire ad acquisire la consapevolezza della sua innegabile e non sempre giustificabile esistenza. Fingere che la cattiveria di per sé non ci appartenga affatto, questo sì, equivarrebbe a raccontarsi una vera, infondata, favola.
Questioni di (lato) B
Bene. Sono appena le 9.44 del mattino. E questa che mi accingo a fare è già la terza, estenuante, fila. Deve esserci un qualche crudele piano divino, penso ogni volta, in questa situazione. Perchè ho scelto, a suo tempo, di vivere qui con il mirato scopo di recuperare tranquillità, energie, una placida e flemmatica dimensione quotidiana. Piuttosto alla larga dalla schizofrenica routine cittadina. Tutti vantaggi, credevo, che solo un microscopico e sconosciutissimo centro urbano, difficilmente rintracciabile anche sulla cartina, potesse davvero regalarmi. Poco meno di tremila abitanti, si dice, anche se dubito che il numero effettivo delle persone realmente residenti in questo rustico paesino, al confine tra ultima periferia e piena campagna, abbia mai superato i tre zeri. Che poi sono le stesse, tutte, (si metteranno d’accordo sull’orario?) che riesco a beccare ogni volta in una qualsiasi coda interminabile in cui mi trovo ad attendere il mio agognato turno. C’è la simpatica ultraottantenne con i suoi perenni occhiali da sole alla Keanu Reeves in Matrix, che si sbraccia di saluti, bastone alla mano, con chiunque inchiodi con l’auto per evitare i suoi attraversamenti selvaggi di strada. C’è l’irrudicibile signore di mezza età, ciuffo brizzolato e coraggioso abbigliamento da teenager, convinto, nonostante le mie dettagliate spiegazioni in proposito, delle mie origini romane, al cui ennesimo “A Roma che si dice, tutto bene?” mi limito ormai a rispondere “B – bene, grazie!”. C’è la matura e scoppiettante primadonna della piazza, un vago accento spagnolo che scappa fuori qua e là nella sue rumorose conversazioni, sempre vestita di azzurro, in ogni stagione, come una sorta di fata turchina in salsa tosco – iberica. Bene. E poi ci sono io, che mi aggiro silenzioso, con cordiale distacco, in questa località divenuta adesso familiare, in cui faccio ancora fatica a sentirmi a casa. E che, per ingannare il tempo da spendere nei miei soliti giri, mai così brevi come desidererei, passo in rassegna, osservo, ascolto la solita gente che, al solito, mi farà fare tardi. Proprio come oggi. Prima alle Poste, dove sono tornato con rassegnazione dopo che un improvviso black-out ai terminali mi ha fatto buttare via l’intero pomeriggio di ieri. Poi al supermercato, dove anche dirigersi alla cassa automatica per sbrigarsi è del tutto inutile perche la signora davanti a me l’ha inceppata con un numero elevato e sospetto di tavolette di cioccolato. Adesso anche in edicola, dove in genere ritiro con una rapidità da guinness tutte le riviste e gli allegati che lo zelante giornalaio mi mette da parte, fingendo un po’ che interessino a qualcun altro, oltre a me. In genere. Non oggi. Bene.
Ed è qui, tra lo sconforto di una nuova attesa che si fa sempre più evidente e i capricci indomabili della bambina che al supermercato, pochi minuti prima, ha fatto il diavolo a quattro con la mamma per delle patatine e che adesso replica la stessa pietosa scena per l’album di Peppa Pig (signora, sono con lei, non ceda) che mi accorgo di una novità significativa. Bene. B la nuova avventura editoriale di Barbara d’Urso, un magazine fiammante tutto ideato da una delle signore più influenti e presenti della nostra tv, colei che, a scanso di equivoci, campeggia in copertina con un sorriso stratosferico (già visto, a dire il vero, qualche anno fa, in una pubblicità per uno studio dentistico di cui era testimonial) e una pelle luminosa e levigatissima, paragonabile solo a quella di mia nipote di tre anni. Colei che su uno smisurato repertorio di faccine, bacetti-smack-smack ed espressioni crucciate, che elargisce con abbondanza ad ogni sua intervista, sia l’interlocutore un ex premier o una ragazza madre rapita dagli alieni (perché l’ospite in studio deve raccontare storie al limite del credibile) ha costruito una delle più felici e criticate carriere catodiche. E che adesso prova ad allargare il proprio impero di consensi e di oppositori sbarcando in pompa magna in edicola, con una rivista che si preannuncia come l’ideale proseguimento cartaceo della sua, già consolidata, fama di sguazzatrice nel torbido delle notizie. I titoli non deludono le aspettative: l’incredibile e paradossale avventura della signora che ha partorito sul divano (scioccante, vero?), tutta la verità di Manuela Villa (che però ha cambiato taglio e colore di capelli) su suo padre (ancora?), e poi milioni di imperdibili consigli per evitare i disastri della prova costume, su cucina, bellezza e make-up, in un crescendo di argomenti e soggetti in bilico tra prevedibilità e trash. Avrà successo? Temo proprio di sì. E per una ragione molto semplice. C’è un po’ di B in ognuno di noi. Noi che per distrarci dalla piattezza della nostre giornate rovistiamo nell’apparenza delle esistenze altrui, pronti a sparare a zero su tutto. Noi che ci definiamo con orgoglio creativi per poi riuscire solo a fabbricare obbrobri inguardabili e dozzinali (come, ad esempio, la lampada coi cucchiai di plastica spiegata proprio nella rivista). Noi che attribuiamo a ipotetici talenti o sacrifici la nostra posizione, i nostri successi, la nostra carriera, quando sappiamo benissimo essere stata spesso una mera questione di scelte casuali, compromessi, mezzucci o spintarelle. O, in numerosissimi casi, di sfacciata fortuna. E’ per tutti noi c’è da oggi proprio B. E quel B starebbe per Barbara. Nel caso vi fosse venuto il dubbio che c’entrasse qualcosa una botta di lato B.
Avventure da couture
Se non rientrasse nella categoria preziosa e scarna dei rari amici su cui poter davvero contare nella vita, di quelli straordinariamente generosi e ogni volta così sinceri nell’esprimere le loro opinioni, anche a costo di apparire brutali, Enrica sarebbe semplicemente detestabile, tale e schiacciante è ai miei occhi la sua perfezione. A cominciare dalla sua indubbia e magnetica bellezza, mai troppo ostentata, anzi, quasi dominata con discrezione, eppure così evidente in quel viso geometrico ed enigmatico che troveresti adatto a una copertina di i-D o W Magazine, in quella dentatura regolare e abbagliante che risplende ad ogni suo sorriso inatteso, in quel suo muoversi ovunque tra le gente con flessuosa e invidiabile disinvoltura, come se detenesse il potere singolare di rimpicciolire o di offuscare di colpo, con la sua sola presenza, qualsiasi ambiente stia attraversando per caso o qualsiasi altra persona possa sfiorarla. Senza considerare inoltre la sua sconfinata ed eclettica cultura di accanita lettrice che emerge nelle nostre numerose e piacevoli discussioni come nel suo riuscire a rimanere immobile e concentrata ovunque, anche in metro, magari immersa in un’opera di Dostoevskij, o il suo innegabile talento di giornalista, che prende corpo in pagine di articoli sempre stimolanti e privi di ovvietà, rafforzati da un linguaggio arguto, avvincente, esatto. Per non parlare infine del suo accattivante look personale e del suo eccezionale fiuto in fatto di stile, facile prerogativa di chi può apparirti comunque splendida anche solo indossando una divertente t-shirt delle Spice Girls (l’ho desiderata da subito anch’io!), smilzi pantaloni kaki e un paio di sneakers dai colori segnaletici, impossibili da non notare. E’ così infatti che mi accoglie, solo pochi giorni fa, nella caotica e superba cornice della sua Roma, investita da un caldo tropicale e ammutolente, mitigato in parte dall’incanto che si sprigiona alla mia vista ad ogni piccolo e grazioso angolo di Rione Monti, vero cuore artigianale della Capitale, in cui Enrica mi trascina inebriato da tanto fascino, mostrandomi, con la giusta dose di orgoglio, la sua ultima e riuscitissima avventura nella moda, Moll Flanders (http://mollflandersroma.wordpress.com/)
Un nome letterario e controverso, chiara evocazione del mestiere più antico del mondo, un tempo anche il più frequente nell’oscurità dei portoni di via dei Capocci, oggi invece stradina curata e pittoresca, tutta botteghe e terrazzini di gerani, in cui si affaccia anche la sua, altrettanto deliziosa, attività. Ma quella scelta pare soprattutto assumere il ruolo di richiamo alle possibilità offerte da una seconda nuova vita, proprio come le innumerevoli e movimentate vissute dal celebre personaggio di Daniel Defoe e come quelle che Enrica, insieme al fratello e a due amici/soci, riesce a donare ai tanti abiti e accessori firmatissimi che affollano il loro sorpendente negozio. Tutte creazioni originali e in ottimo stato, troppo recenti per rientrare esattamente nella definizione di vintage, troppo raffinate per essere banalmente liquidate come un normale usato, seppur di lusso; si tratta piuttosto di un’accurata selezione, operata con occhio critico e competenza, di splendidi capi realizzati dai più famosi brand internazionali (Prada, Alberta Ferretti, Balenciaga, Stella McCartney), affiancati da piccole proposte di designer giovani o emergenti, rimessi poi in commercio a prezzi più che accessibili. Elegantissimi o stravaganti pezzi d’abbigliamento sia maschili che femminili, e poi un’infinità di scarpe e borse di ogni formato o capienza, bigiotteria ricercata e strepitosi occhiali da sole, il tutto perfettamente calato in un’atmosfera giocosa che ricorda un piccante boudoir o un salottino di epoca vittoriana. Dove adesso hanno trovato spazio anche due Borsalino provenienti dal guardaroba privato del sottoscritto, che non mi sono mai azzardato ad indossare in pubblico, perché scoraggiato dall’aria clownesca e poco convincente che mi hanno sempre donato. E che mi sono parsi al contrario subito rianimati da un nuovo e più sofisticato spirito non appena sistemati tra le ironiche mura di Moll Flanders, dipinte a righe alternate. Per non parlare naturalmente dell’effetto che fanno sul volto di Enrica: provati per scherzo, la rendono uno schianto. Ma come diamine è possibile che le stia sempre bene tutto?