Istanti con…gelati!

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La sabbia sotto i piedì è così bollente da costringermi ad eseguire una coreografia di piccoli e ridicoli balzelli e a maledire bisbigliando lo sciagurato momento in cui ho deciso di lasciare i miei, adesso agognati, sandali vicino l’ombrellone (“tanto devo solo arrivare al bar” pensavo, ingenuamente). La mia amica Valentina, più avveduta, mi precede a passi svelti con le sue ciabattine e il suo nuovo, esplosivo, bikini giallo zafferano, ridacchiando e raccogliendo, quasi senza accorgersene, gli sguardi ammirati di tanti uomini e quelli traboccanti di invidia delle rispettive donne (causa anche di un paio di gomitate punitive volate tra moglie e marito da una sdraio all’altra). In coda ci segue il mio amore, che ad ogni bella stagione mi fa accrescere il sospetto di essere stato, nella sua vita precedente, una qualche creatura degli abissi o un abitante della mitica Atlantide, tale e sconfinata è la sua passione per il mare, visto che le uniche occasioni in cui a fatica riesco a fargli abbandonare l’acqua dopo ore e ore di bagno sono quelle in cui dalla spiaggia vado sbracciandomi per segnalare il giunto momento per una pausa pranzo e/o caffé/merenda/aperitivo (annuncio che in genere mi ritrovo ad eseguire dalla riva in sincrono con una o più mamme che tentano di recuperare allo stesso modo dalle onde il figlio undicenne). Al bancone dei gelati il barista, un giovanotto troppo abbrustolito dal sole e sul cui viso una lametta pare ormai latitare da troppo tempo (questa convinzione che basti solo un po’ di barba per essere automaticamente più belli o sexy da dove vi arriva?) sembra ignorare le nostre richieste, tutto intento com’è a pavoneggiarsi e a gigioneggiare con due turiste del noto e riconoscibile genere “gatta morta in vacanza” (“guarda che stanno solo tentando di farsi offrire da bere” mi verrebbe da suggerirgli). Valentina prova allora a ripiegare sul distributore automatico di bibite e snack lì vicino, ma vuoi per la sua incorreggibile svagatezza, vuoi per quell’attimo di stordimento dovuto al caldo soffocante, al posto del comprensibile desiderio di una bottiglietta di Coca – Cola ecco volare giù dalle spirali metalliche che separano le varie confezioni un insulso pacchettino di Ringo, cibo che non so a chi mai potrebbe venire in mente di consumare sulla spiaggia, date le scarse proprietà rinfrescanti (“accanto ci sarebbero anche dei taralli, mica penserai di prendere anche quelli?”). Ed ecco lì, sull’imprescindibile tabellone metallico dei gelati, quello che illustra scientificamente tutte le tipologie presenti e i loro singoli prezzi, quello che ogni sacrosanto stabilimento lascia ogni anno fuori a sbiadire alla luce del sole e che a fine stagione viene riempito di correzioni a pennarello, delle drammatiche “X” per indicare i cornetti o i ghiaccioli non più disponibili, troneggiare il Magnum ideato e disegnato in edizione limitata nientepopodimenoche da Dolce&Gabbana per il 25esimo anniversario dello stesso prodotto (foto allegata). In realtà, nonostante sia la prima volta che lo noti in un luogo pubblico, il gelato griffato, al gusto di vaniglia e pistacchio e ricoperto di cioccolato bianco, come mi aveva comunicato solerte una newsletter giunta qualche mese fa per e.mail (e probabilmente cestinata) si trova in commercio già dallo scorso Giugno in un apposito ed elaboratissimo astuccio da conservare e collezionare. Inevitabili a quel punto le seguenti domande sollevate dai miei accompagnatori: “L’hai visto il Magnum di Dolce&Gabbana?” “Lo prendiamo?” “Ma come mai lo hanno disegnato loro?” “Forse perché avranno iniziato negli stessi anni?” “Ma l’hai vista carina la loro prossima collezione invernale?” “Ale che ci dici?”. Niente. Buio. Non una data, un abito, un accidenti di indizio che mi sia venuto in aiuto in quell’istante. Non un ricordo, un appiglio, una parvenza di risposta pseudoprofessionale che sia riuscito a fornire loro, all’altezza del mio strombazzato status, di chi si vanta cioè di scrivere di moda da anni. La sola giustificazione alla mia momentanea amnesia risiede nel fatto che quando mi trovo in vacanza come adesso, ed era da tempo che non mi godevo un Agosto di così completa e sfacciata nullafacenza, stacco di netto con la vita di tutti i giorni, accantono passioni e incombenze, mi limito a discutere di mare, feste sulla spiaggia, cene e vari divertimenti, dimenticandomi spesso di chiamare amici e genitori (che mi subissano di sms del tipo “sei vivo?”) come delle più elementari e consuete informazioni con cui sono solito imbattermi per lavoro o per piacere. Esattamente come di possedere un blog tutto mio: non lo stavo aggiornando da circa una settimana, ma perché non mi avete detto niente? (Ndr. Dolce & Gabbana hanno cominciato nel 1985. La loro prossima collezione invernale femminile mischia la consueta ispirazione alla Sicilia ad un’atmosfera da vecchia fiaba. L’ho riguardato appositamente per voi. Sotto l’ombrellone).

Le mille bolle blu

Dopo aver attentamente seguito con i suoi fratelli, dall’alto della cancellata che sovrasta il parcheggio, quelle due o tre manovre svogliate e audaci con cui finisco per posteggiare l’auto sempre e solo dal lato sinistro (d’altronde soltanto così mi riesce), il primo a rivolgermi la parola è Davide, 7 anni, occhi enormi e indagatori, i capelli venati di un simpatico colore rosso, proprio come il manto di certi scoiattoli che talvolta si vedono scendere giù dagli alberi. “Me lo dici come ti chiami?” gli faccio io subito dopo averlo raggiunto, ricambiando quel suo sguardo liquido e dubbioso, ed eccolo finalmente allargarsi in un primo, disarmante sorriso, per rispondere con prontezza inaspettata alla mia domanda “No!”. Appunto. “Lui è Mister No!” esordisce d’un tratto Giancarlo, un anno più piccolo, stessa aria svelta e furba del fratello, di chi ha imparato troppo presto a cavarsela da solo, mascherata però da un aspetto più mite e angelico, corredato di capigliatura biondissima ed occhi chiari e scintillanti. “Io mi chiamo Renata” aggiunge infine, con una dolcezza irresistibile, l’unica femminuccia del gruppo, sorella di entrambi e gemella di Giancarlo, come conferma l’identico sguardo luminoso e felino, incorniciato da un viso lievemente più paffuto, su cui svetta un piccolo tocco di civetteria, un minuscolo fermaglio a scostare dalla fronte qualche ciuffo di capelli. La temuta fase di presentazione, penso io, è andata meglio del previsto: tenuto a bada quel capriccioso groviglio di emozioni, causa di improvvise e inarrestabili lacrime che spesso si affacciano nei momenti meno opportuni, faccio finalmente la conoscenza della nuova, numerosa e scoppiettante, formazione familiare dei miei amici Silvia e Marco. Tra le pochissime e insostituibili persone su cui posso fortunatamente contare nella vita, di quelle che potresti svegliare nel cuore della notte certo che accorrerebbero senza porsi troppe domande, Silvia è senza dubbio la più indipendente, la più imprevedibile, quella dotata di una risata così fragorosa e coinvolgente da riuscire a trascinare chiunque in ore e ore di singhiozzi incontrollabili e divertiti. “Ho conosciuto un uomo interessante” mi confessò all’improvviso una sera d’inverno di qualche anno fa, lei che non aveva mai apertamente incluso la vita di coppia tra le sue priorità, “E? Dimmi di più!” la incalzai, “Beh, è riservato, ironico, molto piacevole…forse brutto!” “Brutto? Come brutto? Tipo Danny de Vito?” “Direi più Giancarlo Magalli!”. Ovviamente Marco, quell’uomo speciale di cui Silvia era rimasta allora così colpita, non assomiglia neanche lontanamente (e per fortuna) al nostro Magalli. Ovviamente, dopo poco più di un anno da quell’episodio, mi ritrovai piuttosto brillo e forse ancora incredulo a brindare al loro felice matrimonio.

Qualche mese fa, con la stessa consueta naturalezza con cui pochi minuti prima a tavola, durante una delle loro superbe e ipercaloriche cene che spesso preparano per me e il mio amore, ci avevano rivolto frasi cordiali del tipo “Prendi pure dell’altro arrosto. Vuoi ancora un po’ di vino?” Silvia e Marco ci confidarono, quasi all’unisono, dopo un breve sospiro: “Abbiamo deciso di adottare dei bambini!”. Silenzio. Stupore. Stavolta piango. “Bambini? Plurale? Più d’uno, quindi?” riuscii, non so come, a balbettare. “Sì, tre!”. Di nuovo silenzio. E mille parole saltar fuori all’improvviso e rincorrersi tra le pareti della testa. Coraggio. Incoscienza. Attesa. Follia. Amore. Soprattutto amore. Perché non credo esista un’altra e più plausibile ragione che possa spingerti ad affrontare mesi, forse anni, di lungaggini e asperità burocratiche, di continue e concrete speranze spesso rinviate o disattese, di momenti stancanti e precipitosi in cui sei chiamato a rivoluzionare tutta la tua vita per far spazio alle esigenze affettive e materiali di chi d’ora in poi diventerà tuo figlio. E poi tutte le domande, i dubbi, le paure talvolta paralizzanti con cui chi si appresta a diventare genitore deve fare necessariamente i conti, complicate da quel periodo delicatissimo e imprescindibile di contatto, conoscenza e confidenza da dover consolidare in un lungo soggiorno nel paese d’origine dei bambini, spesso uno Stato lontano, di cui è facile ignorare la lingua come le abitudini più elementari. “Stanca? No, perché?” fu la risposta immediata e serena di Silvia, contattata via Skype la prima volta, in una situazione che avrebbe fiaccato chiunque alla sola vista, i tre bambini a scorrazzare su e giù per casa e a salirle in braccio a turno, di sottofondo un escalation di richieste alla rinfusa, immancabilmente concluse con un emozionante coro di “mamma, mamma”! “Sono bellissimi, gioviali, ubbidienti e impazziscono per le bolle di sapone” fece inoltre in tempo ad aggiungere: un’informazione importante a cui sono ricorso per il mio primo regalo, tre coloratissime pistole sparabolle a pile, corredate di tre lacci per maxi-bolle, più una buona scorta di sapone. Risultato: dopo solo venti minuti dal nostro primo incontro, Davide, Giancarlo e Renata non solo avevano i capelli fradici, le mani tremendamente appiccicose e gli abiti pieni di aloni ma avevano soprattutto sepolto il giardino di casa sotto un infinito e surreale tappeto di bolle. “La prossima volta cerca di presentarti con un peluche” mi fa Silvia con un sorrisino sarcastico, incrociando complice lo sguardo di Marco in un puro momento di felicità. Perché diventare genitori è sempre un’esperienza speciale: in qualche caso, semplicemente, un po’ di più.

Mambo italiano

Elena feat. Glance – Mamma mia (He’s italiano) Official Video – YouTube.

Era stato un pomeriggio impegnativo e frustrante quello trascorso, in una Dublino come al solito prigioniera di una pioggerella incessante e fastidiosissima, in compagnia della mia amica Lucy, cinese dello Zhejiang, regione costiera poco più a sud di Shangai, conosciuta in multietnico e salvifico corso d’inglese in cui ero approdato per colmare le mie troppe lacune in una lingua che mi sarebbe stata di sicuro utile per il mio futuro professionale e soprattutto per smorzare quella ridicola pronuncia anglo-toscana appresa dai troppi insegnanti di scuola non esattamente di Oxford. Lei era giunta in Irlanda con un simile obiettivo l’anno precedente, e affascinata dallo stile di vita dei suoi coetanei europei e per nulla infastidita dalla deprimente tonalità del cielo noiosamente oscillante tra il grigio topo e il grigio perla, aveva deciso di prolungare oltre la sua permanenza in città, scopo per il quale aveva bisogno, esattamente come me, di mantenersi con un qualche lavoro, che entrambi eravamo decisi a trovare proprio quel giorno, consegnando di persona centinaia di curriculum implacabilmente accantonati invece dopo pochi istanti sotto i nostri occhi speranzosi. E così, scoraggiati, rassegnati, ovviamente fradici, ci sedemmo per qualche minuto l’uno accanto all’altra, senza chiudere i nostri ombrelli, sulla panchina (verde) di un giardinetto pubblico (verde) a rimuginare su di una possibile soluzione per risollevare le nostre finanze (al verde). “Questi irlandesi mi sembrano tutti uguali” mi fece d’improvviso Lucy, “sai che non riesco a distinguerli mai? Stessi capelli biondi o rossicci, stessi occhi chiari…un po’ come voi italiani, tutti così scuri!” “Stai scherzando, vero?” risposi sorpreso “guarda che una buona metà della mia famiglia come dei miei amici ha occhi azzurri e pelle chiarissima, e poi” continuai “potrei dirti la stessa cosa, che voi cinesi avete tutti gli occhi a mandorla e capelli neri e lisci” “Non è vero”, replicò Lucy “prendi me, io ad esempio ho i capelli ricci” e davanti al mio sguardo sempre più in preda allo stupore si sfilò delicatamente dalla testa la lunga parrucca che indossava quasi sempre per mostrarmi i suoi veri capelli, cortissimi e naturalmente ricci. Andammo avanti a ridere per almeno una mezz’ora, complice la stanchezza, le difficoltà nel comunicare tra noi mai del tutto superate ma specialmente la volontà, da quel momento, di tentare di demolire ogni più radicato cliché o pregiudizio che avevamo l’uno nei confronti del popolo di appartenenza dell’altra e viceversa. Io per cominciare le confessai di non aver mai sentito suonare un solo mandolino in tutta la mia vita e di non aver mai conosciuto nessuno in grado di farlo, ammisi la mia pressoché totale e demoralizzante incapacità ai fornelli, al contrario del diffuso stereotipo che ci vorrebbe quasi tutti chef oltre che buone forchette, le dichiarai candidamente di non rientrare affatto in quella maliziosa definizione di italiano rubacuori o latin lover. Lei proseguì dicendomi di non chiamarsi neppure Lucy, ma di aver scelto quel nome, oltre perché privo di “r” (“questo è vero, non riusciamo a pronunciarle” aggiunse ridendo) perché nessuno a Dublino ne imparava o ricordava quello vero (neanch’io in realtà, era qualcosa tipo Zai Xing, dal poetico significato “fiore del mandorlo”), continuò ammettendo di essersi sentita discriminata in quanto donna in Europa molto più che in Cina, concluse infine la nostra piacevole chiacchierata con un caloroso invito a cena da lei, per dimostrarmi specialmente che la cucina cinese non consistesse soltanto in involtini primavera e ravioli al vapore. “Ma ti dirò gli ingredienti solo quando avrai mangiato tutto!”. Accettai. E quella sera da Lucy mangiai, per la prima volta, delle buonissime orecchie di maiale al sugo (cosa fossero lo seppi davvero alla fine della cena). Un episodio divertente a cui ritorno con la testa ogni volta che si parla dei più noti stereotipi su nazioni e popoli, quando tentiamo cioè di imbrigliare in etichette frettolose e superficiali, del tipo “tedeschi uguale crauti, francesi snob, spagnoli movida e sangria”, difetti e virtù di ogni possibile cittadino straniero. Operazione che, in alcuni casi invece, può davvero fruttare una fortuna, come dimostra la cliccatissima hit (più di 5 milioni di visualizzazioni solo su YouTube) “Mamma mia” (video allegato) brano incalzante e spensierato della cantante rumena Elena Gheorghe, tutto giocato sui più famosi cliché con cui è visto l’italiano medio all’estero: mammone, bugiardo, galante, naturalmente irresistibile (seh, ve piacerebbe, eh?). Il tutto immerso nell’atmosfera più trash che neorealista di un buffo e caotico matrimonio che fa da sfondo alla clip, zeppa di ammiccamenti, intrighi e tradimenti plateali. Unici, inspiegabili assenti sulla tavola imbandita a festa i nostri beneamati, imitatissimi e celebri spaghetti (possibile?). Gli stessi che provai a cucinare qualche giorno dopo a Lucy per sdebitarmi del suo gentile e inaspettato invito: una carbonara per l’esattezza, probabilmente la prima e la peggiore di tutta la sua vita.

Eterni bagliori

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Fate pure tutti gli scongiuri del caso, ricorrete tranquillamente, se vi sembra opportuno, a tutto il necessario, più o meno simpatico, talvolta volgare repertorio di gesti e gestacci di natura scaramantica, di quelli che spesso ci troviamo ad eseguire con studiata nonchalance, di nascosto, sotto i tavoli o appena voltate le spalle al nostro interlocutore, quando il viso rimane a lungo congelato in quell’espressione tirata e indefinita di vago disagio, al contrario delle nostre mani che, prontamente trasformate in corna di circostanza, cercano il contatto con il ferro o con altri intimi gingilli. E adesso che vi siete premuniti a dovere contro le eventuali sciagure potenzialmente attirate, come orsi dal miele, dall’argomento di tono funereo e vi sentiti al riparo nonché refrattari ad ogni forma di disgrazia incombente, grazie alla comprovata efficacia di tutti i vostri più strambi e collaudati rituali di superstizione, tirate un respiro profondo e servitevi allegramente della giusta dose di leggerezza occorrente per affrontare il prossimo, delicatissimo, tema. Perché parliamo di morte. Allora? Via quelle mani di lì, ho detto. Ma possibile che basti scomodare quella semplice parolina, cinque, comunissime lettere, m-o-r-t-e, ed ecco sgorgare fiumi di terrore e di angoscia a riempire indistintamente occhi, cervello e cuore, mentre nella testa si fa sempre più forte una vocina spaventata a suggerirci con prontezza “vabbè, parliamo pure d’altro!”?. Eppure, per quanto sia umano e comprensibile allontanarne di qualche galassia più in là il solo, agghiacciante pensiero, dovremmo esserci ormai abituati o rassegnati all’idea di un suo, inevitabile e perciò detestato, arrivo: voglio dire, questa meravigliosa, spiazzante, talvolta schizofrenica ma senza dubbio straordinaria (e naturalmente speriamo anche lunga) esperienza chiamata vita, per goderci e forse complicarci la quale siamo stati messi al mondo, dall’età in cui più o meno acquisiamo (più o meno) la nostra ragione sappiamo perfettamente averla ricevuto in dono con una sua (misteriosa, questo ve lo concedo) data di scadenza. E allora perché non preoccuparsi già, con un pizzico di audacia e di tempismo, del futuro destino che desideriamo riserbare a questo nostro corpo effimero, una volta che sarà diventato un’ingombrante e deteriorabile carcassa, se non altro per quell’enorme rispetto che indifferentemente tutti gli dobbiamo dopo averlo, per decenni, ignorato o maltrattato più che curato e coccolato? Soprattutto se, al pari del sottoscritto, rientrate anche voi nella cinica e materialistica categoria di chi non aspira affatto a sopravvivere sotto forma di anima per godersi l’eterna beatitudine di paradisi ameni (o per arrostire nei secoli tra il guizzo di alte fiamme di dannazione), o meglio, di chi non si illude di possedere neanche una minima traccia di una qualsivoglia sorta di anima, ed è anzi fermamente convinto che, lasciata a malincuore questa vita, quel giorno non ci sarà ad attenderci proprio niente e nessuno, nessun santo “chiavi in mano”, nessun luogo concreto, forse solo lo stesso, indefinibile, dove abbiamo distrattamente albergato prima di nascere. E se rabbrividite almeno quanto me alla sola, spiacevole, ipotesi di passare chissà quanto tempo sigillati e compressi (ma ben vestiti) dentro una scomoda bara, e preferite al contrario che i vostri resti vengano definitivamente bruciati per essere poi conservati in un’urna da due soldi, dispersi al vento o dati in pasto ai pesci (ah, quest’ultima sarebbe la mia opzione, mi raccomando, adesso che è tutta nero su bianco, vediamo un domani di metterla in pratica, che non potrò essere lì a vigilare direttamente sulle vostre azioni), ebbene, da qualche anno abbiamo anche un’ulteriore scelta: quella di essere trasformati in pietre preziose. In diamanti, per la precisione, come promette, con un filo di macabro sarcasmo, la campagna pubblicitaria dell’azienda capitolina di pompe funebri Taffo (foto allegata) proprio in questi giorni affissa, con un inimmaginabile e riuscito ritorno mediatico, per le strade di Roma e provincia. Grazie ad un accordo esclusivo con alcuni laboratori in Svizzera, deputati ad occuparsi dell’insolita operazione, sarebbe dunque possibile ricavare dalle normalissime ceneri di un caro estinto la quantità di grafite necessaria per ottenere un diamante (di cui si può inoltre scegliere la caratura, con costi che oscillano fra i 3 ed i 15 mila euro), da montare eventualmente su un gioiello da indossare e perché no, esibire, anche con frasi del tipo “sai, mio zio Paolo, te lo ricordi? Eccolo qui!” Una scelta bizzarra, forse, non ancora di successo, ma supponiamo in crescita, consigliabile soprattutto per due ordini di motivi. Dare, in primo luogo, la possibilità anche a chi non ha mai particolarmente brillato durante la sua stessa esistenza di riuscire invece a farlo, in altro modo, dopo la sua morte. E poi, dato che l’ironia è sempre stata un’ottima risorsa per contrastare le numerosissime difficoltà di questa vita, che sia anche la strumento migliore per affrontarne la fine?

Next, please!

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Per sua natura abbagliante ed esclusivo, in apparenza privilegiato, seducente e dunque ambitissimo, insopportabilmente autoreferenziale ed elitario sino allo stremo, ben camuffato dietro i suoi riflessi rutilanti che ne occultano le troppe zone d’ombra dove si muovono di continuo misteriosi ingranaggi oliati da una competizione e un arrivismo sfrenati, il mondo della moda è a tutti gli effetti la più moderna, ammaliante e al tempo stesso spietata reincarnazione del mitologico Giano bifronte. Un’irresistibile ma crudele divinità a due facce, una sorta di inafferrabile creatura dalla doppia, sfuggente, identità, pericolosamente e perennemente oscillante tra superficie e profondità, tra forma e sostanza, tra essere ed apparire. E le numerose e oramai capillari settimane della moda, mediaticamente assurte al rango della sua più degna, vorticosa ed efficace espressione, ne rispecchiano con fedele esattezza e ne amplificano in maniera inquietante ed emblematica la sua duplice, ambigua e mutevole essenza, imponendo spesso l’illogicità di precise regole e codici da seguire una volta varcata la soglia di quell’universo singolare e controverso. Al punto da ritenere oggigiorno inconcepibile presenziare a una qualsiasi sfilata se non tentando di gareggiare, in quanto a ricerca di sbalorditivi eccessi nell’abbigliamento, con le stesse creazioni da criticare, apprezzare o applaudire in passerella, rubando riflettori e scena, nello spasmodico e, chissà fino a che punto appagante desiderio di una qualche fugace notorietà, al lavoro e all’impegno di stilisti e designer da dover valutare, esibendosi in mirabolanti acrobazie per esser narcisisticamente riconosciuti, ammirati, fotografati ad ogni party, mostra od occasione blindatissima presente in calendario. Ancor meglio se armati fino ai denti di smartphone, iPad e qualsiasi altra protesi tecnologica di ultima generazione con cui poter catturare soddisfatti milioni di immagini da condividere, postare, diffondere sul web al fine di urlare all’invidioso popolo virtuale “Io c’ero!”, sempre pronti a girandole di commenti ed espressioni di trito e vuoto significato come “Favoloso, pazzesco, un sogno!”,  immancabili, ovunque, ad ogni appuntamento, senza mai dare purtroppo l’impressione di gradirne sul serio qualcuno.

Tra le righe di tutto questo prevedibile, sfiancante ed inutile copione, imprescindibile cornice e specchietto per le allodole che adorano svolazzare nei parterre sempre gremiti di tutte le fashion week, somiglianti a un vivace calderone di egocentrismo imperante, esiste sempre, per fortuna, un margine di nuda, pura e rigenerante creatività, impersonato dalla freschezza e dalla godibilità di idee dei molti giovani talenti del settore. Che, nei cinque giorni dell’ultima edizione della kermesse capitolina di haute couture AltaRomaAltaModa in programma dallo scorso 12 Luglio e conclusasi soltanto ieri, hanno invece furoreggiato e catalizzato la generale attenzione su di se’, in barba a quanti sostengono che in fatto di stile sia ormai giunto il triste momento di non riuscire più a inventare o a proporre alcunché di nuovo. Debole tesi facilmente smentita dalle proposte originali e fantasiose che hanno invece animato la passerella di Who is on next? celebre concorso internazionale ideato e realizzato da AltaRoma stessa in collaborazione con Vogue Italia e che, giunto già alle sue prime dieci candeline, si conferma tra i più prestigiosi momenti di lancio e di supporto delle nascenti realtà nell’industria della moda. Come per l’emozionante ed emozionatissimo Salvatore Piccione del brand Piccione.Piccione, vincitore di questa edizione 2014 nella sezione abbigliamento, o per la serba Milica Stankovic, anima creatrice di Corion, marchio trionfante al contrario nella sezione accessori: senza dimenticare la menzione d’onore per l’israeliana Daizy Shely, i cui abiti dal gusto un po’ acerbo ma comunque dirompente si distinguono per le innegabili potenzialità. Altrettanto sorprendente anche l’occasione autocelebrativa della mostra 10th Anniversary Who is on next? La nuova generazione della moda, allestita nella sale di Palazzo Braschi a Piazza Navona (foto allegata), evento che ha di nuovo sottolineato il decennale ruolo del concorso nella scoperta e nella promozione dei designer emergenti. Un esaustivo e articolato excursus fra gli splendidi e rappresentativi abiti di tutti i protagonisti che si sono distinti e succeduti nelle varie edizioni, i cui nomi, come quelli di Albino D’Amato, Gabriele Colangelo, Marco de Vincenzo, vengono attualmente annoverati di diritto tra le personalità più interessanti e seguite dell’intero fashion – system. Perché al di là di quell’assurda, macchinosa e incomprensibile maschera di edonismo e superficialità, nella moda c’è sempre spazio per il talento. Avanti il prossimo!