Mostruosi ricordi!

The Addams Family TV Show Opening 1964 – YouTube.

Nella convulsa quotidianità di un adulto, definzione che in base a quella cifra incontestabile presente alla voce “data di nascita” sulla carta d’identità dovrebbe inculdere anche me, trovarsi a ripescare occasionalmente nella testa i ricordi un po’ offuscati della propria infanzia rappresenta in molti casi un piacevole e non sempre pianificabile passatempo, una distrazione placida e imprevista in cui immergersi quando la memoria ti coglie di sorpresa divertendosi a spalancare a casaccio alcune finestre sul tuo vissuto. Naturalmente è così anche per me: quel misto di tenerezza e imbarazzo che mi provoca rievocare la mia immagine di bambino perennemente sbrindellato, sudacchiato, un po’ selvatico, che rientrava a casa solo quando era impossibile continuare a ignorare i richiami via via più minacciosi di mia madre alla finestra, con i calzoni della tuta sempre macchiati d’erba e un’immancabile crosta di sangue al ginocchio sinistro, di cui conservo una simpatica cicatrice ancora oggi, si accompagna all’enigma mai risolto di come abbia fatto a trasformarmi negli anni in un esemplare di persona oggi comunemente ritenuta mite e piuttosto affidabile. Non che fossi un tipino poi così irrequieto e scavezzacollo: ma dietro quell’apparenza calma e assenata, frutto di un’indole quasi timida e di un rendimento scolastico medio – alto, dovuto al dono provvidenziale di una memoria da elefante che mi ha sempre garantito buoni risultati con il minimo sforzo, rimaneva da gestire un’energia anche fisica che talvolta finiva per essere incanalata in pericolosi svaghi, dal salire appena possibile sugli alberi nei giardini all’eseguire ovunque capriole e giravolte rischiose, con un’agilità poi purtroppo svanita chissà dove. Questo per chiarire maggiormente quale trauma possa aver rappresentato per me affrontare a circa 8 anni, di fronte a una platea di altri classi semiannoiate, il mio primo e unico ruolo ottenuto in una recita scolastica, la sola che le mie insegnanti ci permisero di mettere in scena, giustificando la propria evidente incapacità di tenerci a bada in simili occasioni con un banale “sono troppo vivaci”. Per di più, invece di legare l’evento, come da consuetudine, alla sentita tradizione religiosa, che prevedeva l’allestimento di uno spettacolino amatoriale verso Natale o Pasqua, con bambini in vesti rabberciate a mo’ di angioletti, pulcini, fiocchi di neve o fiorellini, le mie maestre, dimostrando senza dubbio originalità e un senso dell’umorismo un tantinello lugubre, decisero, forse ambiziosamente, di farci addirittura cimentare nella Famiglia Addams, il celebre telefilm che proprio questi giorni va compiendo 50 anni dalla sua prima messa in onda negli States (nel video, la sigla originale). E dato che Stefania, la mia compagna di classe colpevole di avermi dimostrato con troppo entusiasmo la sua cotta colpendomi con una sedia dritto sulla testa, era stata ritenuta perfetta per la parte di Morticia, ma un mio eventuale affiancamento nei panni di Gomez avrebbe messo a rischio ancora una volta la mia incolumità e i nervi già provati delle insegnanti, la soluzione migliore fu quella di tenermi a debita distanza da lei assegnandomi il ruolo assai gratificante di, udite udite, Mano. Il che significò che per tutto il tempo delle prove così come per la durata stessa della recita, percepita come infinita, sarei dovuto rimanermene accovacciato e quatto quatto sotto alcuni banchi accostati, coperti da una polverosissima tovaglia bordeaux con le nappe, sistemata per nascondere l’apertura strategica da cui avrei far dovuto fuoriuscire la mia mano che faceva così la sua magica comparsa sbucando da una scatola di scarpe ridipinta. Un gran debutto artistico, non c’è che dire. L’unica consolazione era sapere (perché di riuscire a vedere qualcun altro, là sotto, non se ne parlava) che “sul palco” ci fossero altri compagni ancor più pubblicamente ridicolizzati: Merygiusy (mi pare si scrivesse così) ad esempio, a causa dei suoi lunghi capelli lisci color miele, fu scelta per impersonare il cugino It e costretta dunque a recitare in ginocchio, di spalle al pubblico, con un paio di occhiali da sole indossati al contrario sulla nuca. Emanuela, data la sua corporatura gracile e il faccino pallido perennemente imbronciato, divenne, con pochi piccoli accorgimenti, una copia quasi fedele di Mercoledì, e dunque poi condannata a fare i conti con quel cupo soprannome per alcuni anni a venire. Perché va precisato: uno dei motivi per cui tutti ricordiamo volentieri il telefilm, oltre al quell’efficace humour nero e alla stravaganza di vicende, dalle quali nei primi anni ’90 è stata tratta una riuscita versione cinematografica e adesso anche un musical, è per averci soprattutto fornito un noto e riconoscibile campionario di tipi fisici e relativi nomignoli con cui etichettare o sbeffeggiare chicchessia. Quello che ho pensato proprio qualche giorno fa quando ho dovuto rinnovare il mio tesserino di accompagnatore turistico: una rapida occhiata alla nuova foto, ed ecco che la mia infanzia traumatica di Mano ha lasciato adesso il posto ad una più spettrale maturità da zio Fester.

Sì, lo voglio!

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Ecco, ci mancava pure il blindatissimo (solo 150 invitati, si dice) eppure strafotografato e onnipresente (sul web e non solo) matrimonio della nostra Elisabetta Canalis, colei che dopo aver collezionato nel tempo stuoli di amori vip, i cui dettagli hanno riempito per anni il palinsesto di tutte le trasmissioni di gossip e ogni edizione di Studio Aperto, ha deciso qualche giorno fa, in linea con quella che sembra ormai diventata l’ultima mania tra le star, di convolare frettolosamente a nozze, nella sua magnifica Sardegna (il fortunato però, spiacenti, non è affatto un volto noto, ma un chirurgo americano, Brian Perri, provvisto di quel profilo un po’ schiacciato che farebbe pensare più ad un pugile). Già, come se in questo ultimo scorcio d’estate, tutt’altro che avara di scoop, non ci avessero già abbastanza tediato prima con le insinuazioni e i sospetti crescenti, sostituiti poi dalla scioccante certezza, del fatidico sì pronunciato in terra francese dai due belloni di Hollywood per eccellenza, Angelina Jolie e Brad Pitt, i quali, sebbene per tutto il decennio della loro chiacchieratissima storia abbiano reso noto a mezzo stampa, sistematicamente, ogni singolo incremento di prole, tatuaggio o acquisto di qualche villa milionaria sparsa per il pianeta, si sono d’improvviso scoperti creature riservate e amanti della privacy, lasciando trapelare i particolari e gli attesi scatti del loro matrimonio solo a nozze avvenute. E siccome lo spirito di emulazione in questi casi è sempre presente, e per quanto vi preoccupiate di fingere disinteresse per l’argomento magari in fondo a quell’angolo imperscrutabile del vostro cuore un microscopico pensierino l’avete pur fatto, o forse al momento state davvero scalpitando in attesa che vi si concretizzi davanti agli occhi una sorta di proposta semidecente, eccovi la solita, insensata ma attendibilissima lista di brevi consigli finalizzati alla scelta dell’abito giusto per un eventuale, sospirato o più o meno realizzabile, matrimonio.

1) Per lei. Amiche mie, siete sempre così ipercritiche verso voi stesse, soffrite più o meno tutte di un leggero dismorfismo corporeo, che vi porta a scovarvi un’enormità di difetti inesistenti e a lasciare in balìa delle tarme un numero spropositato di capi sexy o costosi condannati per sempre alle tenebre dei vostri armadi. Come si spiega allora che nella ricerca estenuante dell’abito da sposa perdiate ogni cognizione del vostro fisico e vi ostiniate a provare tonnellate di abiti vaporosamente kitsch, dall’improbabile linea a sirena, nell’uno o nell’altro caso del tutto inadatti? Lasciate dunque alla Canalis o alla Jolie la ridicola prerogativa di milioni di balze e di ricami stravaganti, loro sarebbero apparse comunque gnocche anche con un sacco dell’immondizia annodato sulle spalle. Fate così: oltre alla mamma (so che non potete murarla a casa quel giorno, anche se lo desiderate) scegliete di farvi accompagnare negli interminabili e necessari giri per boutique proprio da quell’amica stronza (tutti ne abbiamo una), la stessa che da anni va narrando ad ogni cena le circostanze imbarazzanti dell’unica vostra ubriacatura colossale, la sola che appena uscite dal parrucchiere vi riporta a casa per mano per rifarvi uno shampoo e una messa in piega meno svettante. Quella. Il suo, credetemi, è il parere migliore.

Per lei 2: Se il vostro modello di riferimento vip per l’abito da sposa non è un’irragiungibile diva planetaria ma una bellezza più acqua e sapone, una fanciulla della porta accanto, insomma una celebrità casalinga del genere “sì, carina, ma ti vorrei vedere al mattino ancora struccata”, potete sempre ispirarvi all’altro strombazzatissimo matrimonio di stagione, quello celebrato qualche settimana fa a Capri tra la conduttrice Caterina Balivo ed il suo compagno, il manager finanziario Guido Maria Brera (e qui in genere la malignità si trova ad un bivio, se aggiungere un commento velenoso sul mestiere o sul nome di lui). La Balivo ha ripiegato (azzeccandolo abbastanza, ve lo concedo) su di un abito vintage originale anni ’50; se siete orientate ad una soluzione simile, vi ricordo che per vintage si intende esclusivamente un capo che abbia almeno venti anni di storia, meglio se rappresentativo dello stile della propria epoca di appartenenza. In tutti gli altri casi si tratta, senza tanti preamboli, di un abito vecchio, dismesso, di un banalissimo e non sempre in buone condizioni, usato: non azzardatevi ad acquistare o a spacciare per vintage un pezzo se non siete sicure della sua qualità o della sua provenienza. L’effetto “gattara” è quanto di più mortificante vi possa capitare al vostro matrimonio.

Per lui: Amiche, mi rivolgo sempre a voi, tanto, parliamoci chiaro, cosa volete ne capisca lui di abiti da sposo? Sapete meglio di me che il vostro futuro maritino sarebbe davvero in grado di presentarsi quel giorno all’altare in t-shirt, bermuda fiorati e ciabatte ai piedi (forse sulla comodità non avrebbe poi tutti i torti). Mi raccomando: non lasciatelo da solo nelle mani di quella che sarà vostra suocera, lei l’ha messo al mondo, lei è incapace di vederne i difetti, lei potrebbe sul serio consigliargli quel terribile completo di un tessuto verdino o blu elettrico con cui credevate potessero confezionare solo le tutine dei Power Rangers. Sostenetelo, incoraggiatelo e soprattutto non perdetelo di vista neanche un secondo: men che mai nelle grinfie dell’amica stronza di cui al punto 1. Nella scelta del vostro abito sarà pure fondamentale; per la rovina anticipata delle vostre nozze, un rischio troppo grande, da non correre.

(photo Miles Aldridge, Vogue Italia, Settembre 2011)

Le faremo sapere

Può succedere a chiunque, in qualsiasi momento della vita. Che siate giovanissimi o 29enni bugiardi e recidivi, come me, che abbiate una preparazione formidabile e competenze assai richieste o un’affascinante quanto inutile laurea in storia del costume, come la mia, lasciata a marcire in qualche cassetto della segreteria dell’Università. Che siate poco abituati agli scossoni professionali e a rimettervi in gioco ogni due, tre anni o ormai rassegnati, al pari del sottoscritto, a cercare di far fronte alle spese quotidiane con spericolati equilibrismi che richiederebbero il dono dell’ubiquità. Può succedere a chiunque, dicevo, di trovarsi improvvisamente o di nuovo senza più un lavoro e di doversi rimettere a capo chino a cercare un altro posto o un altro impiego, una sfida che può diventare ogni volta più sfiancante e temibile della precedente. Esattamente quello che sto vivendo io da qualche mese, da quando, dopo aver rifiutato con un moto di orgoglio e di incoscienza, un gratificante ma sottopagato incarico professionale svolto negli ultimi tempi, ho ricominciato a inondare il web di curriculum e proposte di collaborazione, migliaia, a cui sono arrivate risposte (poche) più o meno incoraggianti. Quella che segue è perciò la sintesi semiseria, in forma di dialogo, degli strampalati ma reali incontri con i vari personaggi che hanno dimostrato un minimo d’interesse alla mia nuova e coraggiosa richiesta di un lavoro. Buon divertimento:

- Responsabile comunicazione azienda di moda: “Sarò sincero, è difficile inquadrarla all’interno di un’azienda, ha avuto tante esperienze così diverse. Il suo curriculum sì, è piuttosto interessante, però è, come dire…” “Eclettico? (boh, gli butto lì un aggettivo, magari gli è di aiuto!)” “Sì, eclettico, stavo quasi per dire schizofrenico, ma eclettico può andare. Ecco, e lei lo è?” “Schizofrenico? (ma che gli sembro matto?)” “Intendevo dire eclettico” “Ah, scusi, non avevo capito (e niente, con questo tizio non c’è proprio feeling)”.

- Responsabile comunicazione azienda di moda 2: “E mi dica, Alessandro è più veloce o più preciso?” “(ma ora perché parla di me in terza persona? e che razza di domanda è? Di sicuro è un trabocchetto, proviamo a pensarci un attimo. Però ci sto impiegando troppo tempo a rispondere, non posso mica più dirgli “veloce”, sembra quasi lo prenda in giro) Beh, direi più preciso!” “Ok, però si ricordi che anche la tempestività è importante nella comunicazione!” “Quindi avrei dovuto rispondere veloce? (lo sapevo, era un trabocchetto).

- Responsabile progetti digitali agenzia eventi: “Le va di parlarmi dei suoi genitori?” “(e questa poi? mica sarò finito, senza saperlo, dallo psicoanalista? Qui c’è qualcosa che mi puzza, proviamo prima a tastare un po’ il terreno) Certo. Potrei solo sapere, per curiosità, perché me lo sta chiedendo?” “Serve per valutare la sua reazione emotiva. Un’altra candidata, per esempio, alla stessa domanda mi è scoppiata in lacrime” “Ah, capisco (oddio, mica tanto). Ma non si preoccupi, non è mai successo che abbia pianto parlando dei miei. Forse, di questi tempi, è più probabile il contrario. Ma dovrebbe chiedere a loro!

- Agenzia di lavoro interinale: “Vedo dal suo cv che la sua conoscenza dell’inglese è ad un buon livello. Al punto che potremmo continuare questa nostra conversazione in inglese?” “Beh, sì, se vuole (capirai, fino adesso abbiamo parlato solo delle stranezze del tempo e di quanto faccia caldo oggi)!” “Ah, no, si tratta di una semplice domanda di routine. Si figuri, io poi ho studiato francese!” “Quindi la sua valutazione del mio livello d’inglese è, diciamo così, basata sulla fiducia? (averlo saputo prima mi sarei spacciato per madrelingua!).

- Agenzia di lavoro interinale 2: “Però, ha lavorato anche in tv. Ma non mi sembra di averla mai vista! “(Eh? Ho capito male. Cioè, sta pensando sul serio che comparissi davanti alle telecamere? E chi mi crede, Gerry Scotti?) Ecco, vede, lavoravo in una redazione tv. Significa che scrivevo testi e curavo dei pezzi per una piccola trasmissione, ma dietro le quinte, diciamo” “Ah, sì, infatti nel suo curriculum ha messo “redattore” “Appunto. Era quello che facevo. Sennò avrei scritto “conduttore” (o valletta. Questa però è scema forte).

- Addetto comunicazione casa di produzione (via e.mail). “Gentile dott. Guasti, avremmo bisogno, per fissare un colloquio conoscitivo, anche di un suo curriculum più “motivazionale” (scritto proprio così, tra virgolette). Ad esempio, cosa l’ha spinta a cercare una collaborazione qua da noi”. “Gentile dott. Vattelappesca, direi innanzitutto la mia voglia di misurarmi in un ambiente di lavoro stimolante, la curiosità verso un’azienda qualificata come la vostra…(e giù un’intera e.mail di salamelecchi e false carinerie)”. La data del colloquio ovviamente non è mai più stata fissata. Colpa mia: forse avrei dovuto allegare anche l’ultima bolletta del gas da 634 euro. Sarebbe sembrata di certo più “motivazionale”.

- Titolare studio comunicazione (via e.mail): “Gentile dott. Guasti, potrei incontrarla per un colloquio conoscitivo appena avremo terminato i lavori per un nostro cambio di sede. Mi ricontatti alla fine del mese”. Dopo un mese “potremmo fissare un giorno al mio rientro dalle ferie. Mi chiami tra due settimane”. Dopo altre due settimane “Mi dispiace, ma ho avuto un piccolo infortunio alla gamba, non so dirle quando potremmo incontrarci”. Ora, non so se quell’infortunio sia vero. Posso dire che da una parte me lo auguro tanto?

- Titolare ufficio stampa: “Leggo qui che ha anche un blog. E di cosa scrive?” “E’ solo un piccolo progetto personale, mi diverto a scriverci un po’ di tutto, di moda, di costume, delle varie notizie che mi colpiscono e della mia vita privata. Scrivo tante cretinate, soprattutto” “Ah. Immagino che lo utilizzerà anche per togliersi qualche sassolino dalle scarpe” “In realtà no, finora non è mai successo. Però lo sa che mi ha appena dato un’ottima idea?”

Talenti serpenti!

Nicki Minaj – Anaconda – YouTube.

Eppure qualcuno dovrebbe davvero prendersi la briga di spiegare a Gianni Belfiore, storico paroliere di artisti come Fred Bongusto e Raffaella Carrà, ma soprattutto stretto collaboratore di Julio Iglesias, autore di alcuni suoi indimenticabili successi come Manuela e Se mi lasci non vale (è stato lui, con quel suo verso un tantinello criptico “se un uomo tradisce, tradisce a metà” a fornire a lungo l’alibi a milioni di fedifraghi impenitenti), che i tempi sono, ahimè, drasticamente cambiati, che ci troviamo ormai, volenti o nolenti, nel 2014, e che per cantare passione e desiderio occorre abbandonare del tutto quei toni dolciastri da telenovela sudamericana, a cui c’avevano appunto abituato le struggenti interpretazioni di Julio. Perché nei giorni scorsi, proprio mentre lo stesso Belfiore ci teneva a rendere nota pubblicamente, attraverso le pagine di una celebre rivista di gossip, la sua ultima fatica in musica, il brano Immagine, nelle intenzioni pensato per la voce nostrana di Cesare Cremonini e del tutto inaspettamente ispirato al fascino un po’ altezzoso di (tenetevi forte) Maria Elena Boschi, il nostro attuale Ministro per le Riforme Costituzionali, a spadroneggiare invece fra le ultimissime news musicali è stata la contemporanea uscita di un pezzo (accompagnato da relativa e scandalosa performance live) di tutt’altro e più esplicito genere. Due canzoni impossibili da paragonare, tale e abissale è la differenza tra rime garbate come “sei come la compagna di scuola del liceo, il simbolo dell’amore dove il sesso si fa reo” tratte dal testo di Belfiore, a cui va comunque il merito di restituire alla perfezione quell’aria da crocerossina spedita al fronte (che tanto sembra piacere agli uomini) della Boschi, e il testo di Anaconda, ultimo e (credetemi) inarrestabile successo della rapper statunitense, originaria di Trinidad, Nicki Minaj (video allegato), forte di un ciclico ritornello a luci rosse, intonato da una voce maschile, che afferma senza mezzi termini “my anaconda don’t want none unless you got buns (qualcosa tipo “la mia anaconda non vuole nessuno che non abbia le chiappe”!). Insomma, anche in questo caso, l’anaconda non è un serpente, si potrebbe aggiungere parafrasando Kobra, il celebre brano della Rettore, a suo tempo la prima interprete colpevole di essere ricorsa in una hit alla furbizia di doppi sensi col mondo dei rettili ma che, rispetto alle attuali e fin troppo palesi allusioni della Minaj, il cui video in questione ha comunque ottenuto, fino adesso, oltre 120 milioni di visualizzazioni solo su YouTube (capito, sì?), sui paragoni zoologici c’era andata un po’ più cauta. A quanto pare però la volgarità rende: e per rincarare la dose, la procace rapper, già collaboratrice in passato di star del calibro di Mariah Carey, Rihanna, Madonna, ha pensato bene di riproporre la cliccatissima coreografia osè del video (seppur privata di quel contorno di banane, panna montata ed altri espedienti culinari da film di Pierino) sul palco degli MTV Music Awards 2014, tenutisi lo scorso 24 Agosto in California, riuscendo così ad ottenere un ritorno mediatico maggiore anche di quello della stessa Beyoncé, trionfatrice della serata, e ad essere indicata, dopo Miley Cyrus, come la nuova reginetta musicale dello scandalo. Titolo per aspirare al quale, a questo punto, sembra non ci voglia poi molto: scoprire e dimenare il più possibile il proprio fondoschiena (meglio se piuttosto abbondante), preferibilmente sulle note di un brano piccante e inneggiante al sesso. Che in musica è sempre stato un pensiero frequente. Che diventa invadente (ma quanto era geniale la Rettore?).

Solidarietà a secchiate

Donatella Versace ALS Ice Bucket Challenge – YouTube.

In questo scorcio d’estate meterologicamente capricciosa, per non dire fin troppo avara di cieli azzurri (eccezion fatta per quei magnifici e soleggiati venti giorni di Agosto che, per un inaspettato e sfacciato colpo di fortuna, hanno finito per coincidere in toto con le bramate vacanze del blogger scansafatiche autore di questa pagina, inducendolo a presenziare maggiormente sulle spiagge che non sul web…ma questo forse l’avevate già notato) occorre forse ripartire dalla constatazione di una, assai dibattuta, anomalia avvenuta sul piano della comunicazione. E cioé che, per quanto emittenti radiofoniche e case discografiche abbiano fatto davvero del loro meglio per assediarci e asfissiarci ovunque con i soliti, ballabili e orecchiabilissimi tre, forse quattro motivetti pop, tutti ugualmente aspiranti al titolo ambito di tormentone di stagione, ma nessuno dei quali, a dire il vero, poi divenuto vincitore incontrastato, l’onnipresente, più rilevante e martellante fenomeno globale di questa estate 2014 non è stato un brano musicale ma, al contrario, un video amatoriale. No, non sto naturalmente parlando del criticatissmo “sexy – incidente” capitato su di un palco in Perù alla nostra Laura Pausini, che troppo fiduciosa nella tenuta dell’accappatoio con cui si stava esibendo in un bis al termine di un suo concerto, ha mostrato involontariamente al pubblico ben altre doti, oltre a quelle canore, episodio che soltanto lo scorso Luglio sembrava comunque aver segnato irrimediabilmente la stagione in corso come quella da ricordare per la fuoriuscita della “patata romagnola”. Mi riferisco invece alla virale e riuscitissima, sebbene causa di inarrestabili fiumi di polemiche, campagna di sensibilizzazione promossa dalla ALS Association, la più importante organizzazione americana impegnata nella lotta e nella raccolta fondi per combattere la SLA, la sclerosi laterale amiotrofica, lanciata proprio in questo mese e nota con il nome di Ice Bucket Challenge (per intenderci “la sfida della secchiata d’acqua gelida”). Il meccanismo è semplice: ogni sfidato ha ventiquattr’ore di tempo per effettuare una donazione in favore della ricerca contro la malattia (in Italia è possibile farla tramite il sito dell’AISLA, Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica, http://www.aisla.it/) pena riprendersi mentre si rovescia (o gli viene rovesciato addosso) un secchio pieno d’acqua ghiacciata e quindi diffondere il video. Inoltre ciascuno sfidato deve a sua volta sfidare, nominandole nel proprio video, altre tre persone (le più varie o le prime che vi vengono in mente) a fare altrettanto, innescando così in questo modo una catena di solidarietà e divertimento che abbia comunque il fine di far circolare l’iniziativa sui media, per dar maggior spazio alle informazioni sulla terribile malattia e ovviamente ottenere allo stesso tempo più proventi possibile. E se in tutto il mondo la campagna, che ha coinvolto trasversalmente personaggi dello sport (da Cristiano Ronaldo a David Beckham), colossi dell’informatica (Bill Gates e Marc Zuckerberg in primis), celebrities di ogni sorta (in allegato il video di Donatella Versace, il migliore, a mio modesto parere, per quell’attimo di esitazione accompagnato da un italianissimo “No, aspetta” dopo un accorato appello a contribuire in un inglese compassato) e anonimi donatori desiderosi dei pochi loro minuti di notorietà (esilaranti i vari video con scivoloni ed errori di ogni sorta trovabili in rete), non sono mancate, soprattutto in Italia, critiche crudeli mosse all’insolito progetto, che si sono poi estese ai numerosissimi volti noti che ne hanno preso parte. Scagliate soprattutto dal severo popolo di internet, troppo dedito, come il sottoscritto, a elargire opinioni e bacchettate anche quando non richiesto, così come ad affrettarsi a rimproverare il vuoto narcisismo di chi ha aderito alla campagna (lo stesso che però non gli vieta di essere presente con milioni di selfie, ad ogni ora su ogni social network), esigendo in alcuni casi perfino la foto, la fattura o comunque la prova delle reali donazioni effettuate (sorvolerei inoltre qui sulle ridicole prediche fatte a Luciana Littizzetto, rea di aver sventolato solo 100 euro nel proprio video e dunque tacciata di tirchieria, e sul capitolo a parte che meriterebbe la strumentalizzabile doccia gelata di Matteo Renzi, primo ed unico capo di Stato a rispondere all’appello). “Coltivate il senso dell’umorismo: c’è tanto da ridere al mondo, degli altri, di voi stessi, delle cose che vi parevano così importanti e che invece erano così stupide” consigliava con ironia pungente, nel suo premiatissimo libro d’esordio del 2009 L’ultima estate, Cesarina Vighy, malata di SLA e scomparsa l’anno successivo, opera divenuta oggigiorno più attuale che mai. Una lezione che in tanti, troppi, in tutta questa assurda vicenda, dovrebbero forse tenere bene a mente.