List (of) Christmas

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L’episodio scatenante, che ha messo in moto la mia testolina già abbastanza incapace di sedare, anche di notte, i propri mille pensieri superflui, è stata l’inaspettata accoglienza al lavoro, qualche giorno di fa, da parte di Valentina, la mia tutor 27enne con una criticabile passione per Leonardo Di Caprio e un intenso sguardo fotogenico, da diva del muto; una collega, tra l’altro, che mi è impossibile detestare, fosse anche per la sua giovane avvenenza, perché, oltre ad essere estremamente competente, si dimostra anche estremamente gentile col sottoscritto (del resto, come potrebbe non esserlo?). Ebbene, la fanciulla, con un incantevole accento bolognese, che le affiora riconoscibile nel sibilo che accompagna le sue doppie “s”, mi trascina, appena metto piede in ufficio, davanti allo schermo del suo pc, dove inorridisco al cospetto dell’immagine che ha scovato e che mi mostra con fierezza, quella di un oggetto pensato come eventuale ed ironico (spero) regalo di Natale, aggiungendo “Guarda qua! Non è bellissimo?”: un costume da renna, con tanto di paio di corna belle svettanti, tutte realizzate in panno rosso. Ora, premesso che dubito esista chi non si porrebbe quelle due domandine in più nel ricevere e scartare non solo un obbrobrio simile, ma anche un misero portachiavi o altri inutili gingilli di tale forma, perfino semplicemente decorati con un cervide (che, lo sappiamo bene, non è mai stato proprio un simbolo di fedeltà), la domanda bislacca che mi ronza da allora in mente è: perché con l’approssimarsi delle feste, e quindi di tutti gli annessi e connessi, diventiamo più indulgenti al kitsch, e quasi soverchiati dall’atmosfera gaudente del Natale smarriamo buongusto e senso critico, che si concretizzano altresì in sfacciate porcherie da impacchettare e donare? Per tale, forse ingiustificabile, ragione mi permetto perciò di allegare qui la mia puntuale e semiseria lista di suggerimenti da seguire, quasi alla lettera, se siete ancora alle prese con la necessaria quanto scocciante parentesi dei regali da acquistare:

Per lui: bocciati, senza possibilità di appello dunque, animaletti di ogni sorta, renne e co., (che faranno sì tanto clima natalizio, ma che non sono consigliabili a meno che il lui in questione non sia vostro figlio undicenne da accompagnare per mano alla recita scolastica) per quanto simpaticamente campeggianti su maglioncini o accessori di ogni sorta. Se proprio siete propense/i all’acquisto di un capo di abbigliamento maschile, puntate su di un golf o un cardigan (meglio) a tinta unita, evitando però con accuratezza il rosso fuoco, colore troppo affine alla nota mise di Babbo Natale e irrimediabilmente sdoganato, pochi giorni or sono, dal nostro premier in persona (se l’avete già comprato, portatelo indietro, siete ancora in tempo). Approfittate anche del fatto che sia stato decretato come colore dell’anno 2015 il Marsala (foto allegata), un tono caldo e brillante che richiama appunto i riflessi del celebre vino liquoroso, assolutamente démodé fino a poco fa, quando ancora lo chiamavamo “vinaccia”, ma come si sa, basta azzeccare il nome giusto, et voilà, anche la nuance più disprezzata diventa miracolosamente di tendenza. Ah dimenticavo: in alternativa all’abbigliamento, provate con la tecnologia, scommettendo anche voi ad esempio sul drone, quel marchingegno diabolico che permette sensazionali riprese dall’alto. Questo anche nel caso il vostro lui sia notoriamente incapace di realizzare un solo scatto a fuoco perfino col proprio cellulare (e voi continuate a mortificarlo, facendoglielo notare spesso): ma come ogni volta succede quando un uomo si trova ad avere un telecomando in mano, da un qualsiasi apparecchio tv alla rimpianta macchinina che aveva da bambino, nient’altro purtroppo è così in grado di farlo sentire, ancora oggi, ai limiti dell’onnipotenza.

Per lei: niente di più semplice, basta fare attenzione e saper ascoltare. Perché ogni donna che si rispetti ha già pianificato con spaventoso scrupolo, degno di uno stratega militare, quella passeggiata apparentemente casuale in cui vi coinvolgerà (“amore, mi accompagneresti in centro, ho dimenticato di fissare l’appuntamento per le unghie?”) organizzata invece col proposito di mostrarvi, in una o più vetrine, qual è con esattezza scientifica quel paio di scarpe o quella borsa che si aspetta di ricevere sotto l’albero, fingendo poi, al momento opportuno, tutto il suo enorme e falso stupore. E badate bene, non si accontenterà di una borsa simile o di tutte le altre calzature che tenterete di acquistare, vorrà proprio ciò che vi aveva suggerito allora, quando vi aveva buttato lì con nonchalance due paroline per sorvolare sul prezzo spropositato dell’oggetto dei desideri (“hai visto che sogno quelle décolleté? E poi, solo 399 euro, praticamente regalate!), mente voi, in quel preciso momento, vi eravate distratti con l’immancabile sms di aggiornamento sulla formazione della partita in programma, o stavate fissando, di soppiatto, le chiappe della tipa passata lì accanto sul marciapiede. Evitate comunque di ripiegare, in extremis, su di un capo di abbigliamento intimo, tanto, in materia, è appurato, avete gusti diametralmente opposti, cari lettori uomini, che al riguardo vi vengono solo in mente i bustier strizzatette indossati dalle modelle di Victoria’s Secret o i più spericolati indumenti di Sasha Grey. (Doverosa parentesi: amiche mie, so che quest’ultimo nome alle vostre orecchie potrebbe suonare forse sconosciuto. A quelle del vostro compagno, vi assicuro, proprio no. Fate perciò questo piccolo test, poi riferitemi: chiedetegli direttamente se abbia mai sentito parlare, così, per caso, della tizia citata: al 99% balbetterà un no, deglutirà, arrossirà. Tutti indizi che sta mentendo spudoratamente, come ormai ben sapete. Poi andate su internet e cercate biografia e immagini della fanciulla: vi sarà chiaro anche il perché della sua menzogna). Evitate soprattutto di tamponare l’assenza del regalo perfetto, chiesto in anticipo ma non afferrato, con l’acquisto di un utensile da cucina, che so, una padella antiaderente o degli stampi da forno, anche se ne ricordate la diffusa presenza nel suo programma tv preferito: il gesto potrebbe purtroppo sembrare un, poco gradito, invito a rimanersene dietro ai fornelli per le feste. Vi concedo, al limite, di tentare con un coltello da panettone, oggetto più ricercato, più in sintonia con l’intero periodo in questione e soprattutto meno affilato. Anche perché, non so se ne siete al corrente, proprio a Natale paiono aumentare gli incidenti domestici e, guarda caso, il numero di feriti con le posate più varie: credete sia davvero solo per i lunghi preparativi del cenone?

Stra(na)Milano

Ennji ha origini coreane, il dono naturale di infondere un’irresistibile dolcezza in ogni parola o movenza, la rara eleganza di chi sa distinguersi anche solo indossando una maglia a righe marinare e pantaloni spruzzati qua e là d’oro, oltre a qualche dubbio sulla mia vera età, che mi fa ripetere almeno tre volte appena mi siedo di fronte a lei, conquistandosi così da subito tutta la mia totale e vanitosa simpatia. Giorgio, suo marito, nome ribadito da una buffa scritta campeggiante su un berretto di lana che arriva a nascondergli le sopracciglia, parla velocemente e con un curioso accento del nord, inconsueto per le mie orecchie, mentre ci tiene a precisarmi che la zona dove ci siamo conosciuti per caso durante il mio primo ape milanese (che sta per aperitivo, perché qui tutte le parole si abbreviano, ma è un concetto su cui torneremo) è la più in voga al momento per i giovani dediti alla movida cittadina, forse dimenticando la mia non più esatta appartenenza alla categoria e ignorando di sicuro la mia profonda natura pantofolaia, piuttosto refrattaria alla folla. Gigi invece, maremmano come me in trasferta per lavoro nel capoluogo lombardo, ha parole di entusiasmo nel descrivermi la sua nuova vita quassù “perché poi, nel week-end, con un’ora di auto sei già in montagna o al mare” lasciandomi così intendere che il suo apprezzamento è rivolto soprattutto alla possibilità di pianificare delle fughe frequenti dalla grigia e snervante piattezza di questo cielo, spesso del medesimo colore denso e opaco che ha l’acqua nel secchio una volta lavati i pavimenti. Melisa, gentile e colta giornalista che nel nome sembra già riassumere la sua straordinaria e raffinata sensibilità, tenta di confortarmi con la sincera ammissione di tornare con piacere da queste parti dove ha vissuto per lungo tempo e dove ha conosciuto persone ancora oggi fondamentali nella sua vita, placando così in parte quella mia smania insensata di trovare in breve tempo nuovi amici, tarlo che si accompagna ai miei lunghi e detestabili momenti di solitudine, spesso arginati con dannose quanto consolatorie dosi massicce di cioccolato fondente. Tra questi pensieri strampalati dunque, rivolgendo a chiunque incontri quello stupido ma per me essenziale quesito “cosa ami di Milano?” mi butto già alle spalle il primo, faticoso, mese in questa città, la terza nel giro di soli cinque anni in cui mi trovi, quasi per caso, dopo Roma e Firenze, a soggiornare e a lavorare, con un preoccupante movimento ascensionale che mi fa temere di dover riscuotere un giorno la mia (magra) pensione in un qualche paese scandinavo dalle temperature rigide e dalla fioca e deprimente luce diurna, io che al contrario ho sempre sognato una serena e soleggiata vecchiaia in costume e ciabatte, in riva al mare.

Non che poi mi manchino i motivi per apprezzare Milano, sia chiaro: a cominciare dalla sua proverbiale ed indiscutibile efficienza, estesa, ad esempio, a tutti i mezzi pubblici, la stessa che mi fa sgranare gli occhi di fronte all’affermazione scandalizzata della signora che sbotta indignata alla fermata dell’autobus “è una vergogna, dieci minuti e ancora niente!”, io che, memore di interi pomeriggi nel resto d’Italia buttati in attesa di un qualsiasi mezzo puntuale, sarei ormai rassegnato ad ingannare quel tempo familiarizzando con gli altri speranzosi individui incontrati sotto i tabelloni degli orari. Più incomprensibile, semmai è il ritmo forsennato che tutti sembrano tenere senza batter ciglio, sin dalle prime ore del mattino, correndo letteralmente su e giù per i marciapiedi senza sosta, lo sguardo fisso verso l’infinito o in basso ipnotizzato dallo smartphone, come se non esistesse altro modo di spostarsi in città, che sia un tantinello più rilassato o anche solo umano. Macché, niente, avanti, si trotta, e guai a intralciare il passo altrui con un’andatura non altrettanto rapida, si rischia di essere travolti o scalzati del tutto, soprattutto nella necessaria operazione di assalto all’affollatissima scala mobile della metro, pericolosa pratica collettiva, per adeguarmi alla quale, arrivo sempre al lavoro con troppo anticipo e sono costretto a fare due giri a vuoto dell’isolato, perché di fermarsi in strada alcuni minuti, ed essere così additato come il vagabondo di turno, non se ne parla. Senza considerare poi che il mio ufficio si trova nei pressi di via Montenapoleone, in pieno quadrilatero della moda, zona pullulante di creature impeccabili e impomatate, quasi sempre vestite di nero (“te l’avevo detto di indossare solo black minimal!” tuona infatti la mia amica Chiara al telefono), mentre io, aggirandomi fra loro con ancora l’impronta del cuscino sullo zigomo, i miei maglioncini verde menta o rosa salotto di Barbie, le camicie a quadri da taglialegna appena stirate, sembro piuttosto un clown intrufolatosi per dispetto in un corteo funebre. E poi c’è la stramba parentesi linguistica: perché il tempo, risorsa da non sprecare mai nei propri spostamenti, pare vada risparmiata anche nel pronunciare le parole, quelle maggiori di due sillabe irrimediabilmente troncate a metà. Ho assistito dunque inerme a espressioni del tipo “sono in para(noia)”, “non mi fare una svioli(nata)”, con apoteosi finale incarnata dalla fanciulla che mi sale per sbaglio su un piede con il suo stivaletto dal tacco rinforzato e poi si scusa con un “oh, mi disp(iace)!” affermazione che non sono riuscito a controbattere, in parte per il dolore, ma soprattutto per la sua spiazzante incomprensibilità. Per il resto dei termini, va da sé, è preferibile accantonare l’italiano e servirsi del corrispettivo inglese, anche solo se ci si trova a parlare di description, action o qualunquealtradannatacosapurchéfiniscainition, con una predilezione per l’acronimo a.s.a.p. (as soon as possible), diffusissimo tra chi, come chiunque del resto a Milano, ha fatto della fretta la propria intima cifra stilistica. “Sei un fashion blogger anche tu?” mi chiede infine Maddalena, mamma, giornalista, scrittrice, professionista insomma dalla tipica propensione al multitasking, forse prezioso appannaggio di chi nasce e cresce lungo i Navigli, “beh, non così fashion, a dire il vero, il mio blog non ha tutto questo appeal!” “hai detto appeal? ti starai mica adattando alla parlata milanese?” Oddio, di già?

Spazio maschilista?

Dr Matt Taylor wears fun shirt while… – YouTube.

Stavolta devo stare particolarmente attento. E non solo perché, da incosciente/ingenuo quale sono, insisto nel venire spesso allo scoperto narrandovi qui sopra, come se nulla fosse, la maggior parte delle mie provinciali convinzioni e dei miei superflui arrovellamenti mentali, con il medesimo, sincero impeto verbale e quell’urgente smania di sfogo che forse userei altrove soltanto sul lettino dello psicoanalista. Quanto perché, al pari dell’altro recente e discutibile post nel quale ammettevo, senza vergogna né riserve, la mia pressoché totale e inesplorata capacità di relazione col mondo animale in genere, tenuto, con tattiche sempre più perfezionate nel tempo, a distanza di sicurezza dal mio placido (oddio, insomma) tran tran quotidiano, con l’argomento seguente mi accollo invece il rischio di fare davvero, più che nella passata occasione, la figura dell’essere meschino, insensibile e retrogrado, o peggio ancora, irrimediabilmente maschilista. Un’accusa del genere, in realtà, con mio sommo stupore, mi é stata già rivolta proprio nei giorni scorsi, da una solerte e ahimè sconosciuta esponente dei miei (ahimè anche scarsi) follower di Twitter, una di quelle leonesse da tastiera, sempre pronte ad aggredirti con sintetici quanto intransigenti pareri, naturalmente ben occultati da uno studiato nickname e da una serie di foto che ne nascondono la reale identità (quando si dice il coraggio delle proprie opinioni!). Ebbene la signora in questione si è sentita in obbligo di intervenire in risposta ad una mia battuta (non così carina, questo glielo posso concedere) che aveva come obiettivo quello di colpire il cardinal Bagnasco, reo ai miei occhi di aver definito l’eventuale ipotesi delle nozze gay “un cavallo di Troia che mina alla base la famiglia”. Al che, forse un po’ troppo avventatamente, mi sono permesso di “cinguettare” che anch’io possedevo una mia definizione pronta per il cardinale e per sua madre, guarda caso con la stessa città: apriti cielo, in poco tempo è scoppiato il putiferio, e non tanto per il mancato rispetto nei confronti dell’ecclesiastico, critica che in quella circostanza non mi avrebbe poi così stupito, quanto perché il mio insulto (ci tengo a precisare insinuato e non esplicito, non sono mica così scemo da farmi bannare su due piedi da tutti i social) è stato prontamente giudicato come “sessista” dall’agguerrita e ipersensibile signora. La quale, oltre a prodigarsi in bacchettate francamente fuori luogo, pare in tutta evidenza ignorare i miei duraturi e preziosi rapporti di amicizia, conditi da un’infinita stima reciproca, con un numero maggiore di donne rispetto a uomini, oltre al mio passato di bambino cresciuto con madre battagliera, ragazza negli anni ’70 e femminista di prim’ordine, e sorella enormemente più talentuosa e intelligente di me, radici della mia attuale consapevolezza di adulto per cui la parità tra generi è un incontrovertibile dato di fatto, un principio talmente solido e radicato nella testa e nel cuore che mai e poi mai mi sognerei, neanche per scherzo o per errore, di mettere in discussione.

Ma tant’è: al quarto commento non richiesto sulla medesima lunghezza d’onda, perlomeno io sono riuscito a cavarmela escludendo definitivamente dalla mia pagina la sgradita e, per i miei gusti, troppo petulante ospite. C’è a chi è andata molto peggio: si tratta dello stravagante e tatuatissimo scienziato britannico Matt Taylor, membro della nota agenzia spaziale europea (Esa), salito agli onori delle cronache nelle settimane scorse per essere l’artefice della prima riuscita operazione di atterraggio di un robot, staccatosi da una sonda curiosamente battezzata Rosetta, sulla superficie in movimento di una cometa. Lo strambo personaggio, che unisce un’indiscussa genialità a dei simpatici tratti di innocenza quasi infantile, pecca però di scelte un filino azzardate nel suo personalissimo e criticabile look, tanto da aver indossato, nel giorno dell’attesa e strombazzata operazione Rosetta, una camicia variopinta quanto orrenda, decorata con stampe di pin – up seminude, ritratte in pose e in abbigliamento provocante (video allegato). Mossa che l’ha costretto, all’indomani dello stesso evento, a porre doverosamente le sue pubbliche scuse in tv, con relativo e inaspettato pianto in diretta, a tutte le donne che si sono sentite offese per la sua mise, dopo il rimprovero severo partito dall’autorevole rivista Guardian, che dal suo blog aveva tuonato parole grosse come misoginia e scandalo, rimbalzate poi naturalmente sul web, su Twitter in primis (e ti pareva), e lì riunite sotto l’apposito hashtag #shirtgate. Ora, non me ne vogliano le affettuose signore che ancora si degnano di leggermi: ma da quando in qua dei semplici disegni presenti su una camicia, seppur brutti senza mezza termini, nella fattispecie delle donne – fumetto, dunque inesistenti perché frutto di una fantasia disancorata alla realtà, possono in qualche modo recare offesa al più concreto e variegato universo femminile? Non sarà che a forza di gridare “al lupo al lupo”, di individuare a tutti i costi il nemico da stigmatizzare, di essere sempre sul piede di guerra, pronti a indignarci per questo o quel presunto sgarbo, rischiamo di svilire parole gravi e purtroppo ancora oggi esistenti come “sessismo” per ridurle a slogan triti e privi di significato, finendo col ridicolizzare i traguardi raggiunti e con lo sprecare fiato, energia e tempo in accanimenti insignificanti, inutili, inopportuni? Il maschilismo, concedetemelo, è un sentimento odioso e inaccettabile, quando c’è: in tutti gli altri casi, come questo, si tratta solo di agghiacciante, ma estremamente innocuo, pessimo gusto.

Note di Natale

▶ Band Aid 30 – Do They Know It’s Christmas? 2014 – YouTube.

Succede più o meno ogni anno, nel momento in cui la mia connaturata ed incontenibile attitudine all’estate riesce in qualche modo a scendere a patti con quell’idea sgradevole di dover necessariamente attraversare, quasi indenne, la fatica emotiva delle giornate autunnali per sentirsi, in parte, già proiettata verso la prossima stagione calda (con il consueto e inascoltato sottofondo di amici che si ostinano a sostenere “ma come, l’autunno è bellissimo, con i suoi colori poi, non ti piacciono?”. Ma quali colori, ditemi, che tutto è sempre e solo grigio?), che d’un tratto, puf, paiono moltiplicarsi, disseminate come lumache dopo la pioggia, sotto gli occhi ancora alquanto impreparati, tutte le avvisaglie del prossimo, temuto ma inevitabile, momento di repellente euforia collettiva, il Natale. Magari sei lì, al supermercato, che distrattamente fischietti quella vecchia canzone di Ligabue (così, per curiosità, è solo il mio supermercato che sembra trasmettere, 24 ore su 24, sempre e soltanto Ligabue?) con lo sguardo rapito dalle innumerevoli etichette sulle confezioni di capsule di caffé (che differenza ci sarà tra “arabian dream” e “smooth creamy bar”?) mentre ti esibisci in rischiosissimi zig – zag col carrello per evitare di investire la signora che d’improvviso ha inchiodato per prostrarsi dinanzi ai detersivi in offerta, e intanto lotti con la memoria per ricordarti quelle tre cretinate che avevi annotato su di una lista immancabilmente lasciata a casa, ed eccoli lì, affacciarsi splendenti dagli scaffali, i primi allineatissimi schieramenti di panettoni, inequivocabile minaccia che tra un mesetto circa metterà di nuovo a dura prova la tua linea già compromessa. Oppure ti stai godendo in tranquilla beatitudine la tua riprovevole sciatteria domestica, gironzolando indifferente a quello spaventoso caos regnante tra le pareti di casa, con tua madre al telefono che, come ogni sera, si informa, in ordine, della tua salute, dei cibi che hai mangiato e delle condizioni meteorologiche al momento, e poi inaspettatamente, esordisce con quella frase così tipica del periodo che più detesti e che d’ora in poi ti sentirai ripetere, allo sfinimento, fino al 24 Dicembre, “ma per Natale che hai deciso, sei a pranzo qui, vero?” (“ho forse alternative?” “certo che no!” “allora perché me lo chiedi?” “non te lo stavo chiedendo, te lo stavo ordinando!”).

E poi c’è la parentesi canzoni: perché niente riesce a catapultarti di più nel pieno della tradizionale, logorante e stucchevole atmosfera da cori e regali sotto l’albero, di un motivetto facile facile, meglio se dal ritmo allegro – andante e dal contenuto buonista sino alla nausea, prerogativa di tutte le hit confezionate ad hoc per le vacanze invernali e poi snobbate gran parte dell’anno, ma che almeno ogni Natale è buona norma o un’ottima scusa poter ritirar fuori per una veloce rispolveratina. Come la celeberrima Do they know it’s Christmas?, pezzo lanciato trent’anni fa esatti dalla Band Aid, i più famosi e idolatrati cantanti pop dell’epoca (George Michael, Sting, Paul Young) quasi tutti accomunati dal medesimo ciuffo ossigenato e riuniti, a scopo benefico, sotto l’egida di Bob Geldof, che, visibilmente invecchiato ma con le medesime e caratteristiche occhiaie di allora, ci riprova con una versione aggiornata 2014, registrata stavolta per raccogliere i fondi per la lotta all’ebola (video allegato). Certo, i capelli bicolore e il make – up esagerato di Boy George sono stati degnamente rimpiazzati dai look altrettanto vivaci e dagli shatush di cantanti come Rita Ora e Ellie Goulding, Duran Duran e Spandau Ballet hanno fatto largo agli attuali paladini delle adolescenti (One Direction, Ed Sheeran), tutti artisti che 30 anni fa ignoravano perfino il fatto che un giorno sarebbero venuti al mondo. Resiste però Bono Vox, sulla cui testa una sfumatura di mogano ricorda un po’ troppo la stessa tinta sfoggiata in tv dal nostro Paolo Limiti, affiancato da un’ineguagliabile Sinead O’ Connor, la dimostrazione vivente che per cantare bene (come lei e poche altre sanno fare) non occorrono gridolini o stantuffate vocali da troppi decibel. Rimane soprattutto quel clima da ennesima e quasi amichevole radunata tra celebrities dal presunto cuore d’oro ritrovatesi per annunciare anche quest’anno, urbi et orbi, l’imminenza di una festività da celebrare in pompa magna, meglio se piuttosto riconciliati con il resto dell’umanità. Ma sì, facciamo pure in modo che tutti, ovunque, sappiano che è quasi Natale. Anche chi, al momento, non vorrebbe proprio pensarci.

Can che appare…

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Ecco, ancora non sono riuscito a scrivere neanche una parola al riguardo (in realtà prima di aprire questa parentesi insensata ne avrei usate ben dodici, tanto per puntualizzare) che già mi sto pentendo dell’argomento scelto per questo post. Perché so benissimo come andrà a finire: che mi accuserete di essere una creatura del tutto priva di quell’encomiabile sensibilità animalista, poco incline a manifestazioni d’affetto come a istintivi slanci di apprezzamento verso l’intero universo a quattro zampe, un detestabile e disgustoso individuo antropocentrico, di quelli che mai si fermerebbero per strada a riempire di lodi la graziosa bestiolina che con tanto orgoglio portate fuori ad orari forse accettabili in un altro emisfero, il tutto a scapito del vostro sonno e della vostra indispensabile lucidità diurna. Perciò tanto vale uscire subito allo scoperto: non è del tutto esatto affermare che non provi una qualche forma di amore per gli animali, diciamo piuttosto che preferisco con loro una più disinvolta relazione a distanza, di quelle che si limitano a due carezze e un buffetto sul musino, proprio nel caso di un rapporto più confidenziale con i relativi padroncini, e poi ognuno, per favore, a casa propria. Nutro per essi (per gli animali, intendo) un profondo rispetto, quello sì, lo stesso che impone moralmente alla mia coscienza il divieto assoluto di assumersi una responsabilità così gravosa nei confronti di un altro essere vivente, di cui mai e poi mai sarò in grado, almeno in questa esistenza, di tener fede o finanche badare alle sue esigenze più elementari, che, a dire il vero, talvolta sono le medesime che io stesso stento a soddisfare appieno perfino per me. E, sincerità, per sincerità, non sono ancora del tutto persuaso che il circondarsi esclusivamente del calore di un animale non significhi in fondo ritagliarsi un rifugio più comodo e sicuro per sfuggire in parte alla complicatezza delle relazioni umane: voglio dire, un cane ad esempio, non potrebbe mai abbandonarti o tradirti intenzionalmente, ti aspetta sempre a casa festoso e scodinzolante, non ti trascina in lunghe e snervanti discussioni per avere sempre ragione o l’ultima parola, e da questo punto di vista, se non fosse per tutto quell’impegnativo programma di cibo/cure/bisogni da lasciare alle 6 del mattino al primo albero fuori casa, sarebbe forse il/la compagno/a ideale di un’intera vita.

D’accordo, incolpiamo pure, per questo mio esplicito e spesso ritenuto “mostruoso” pensiero, l’evidente quanto scarsa dimestichezza con un qualche animale nella vita di tutti i giorni, così pure come la totale mancanza, nel mio (breve) passato di 29enne, di una qualsiasi fase di crescita accompagnata dalla presenza nei dintorni di un cucciolo da stringere. Sappiate però che di occasioni per rifarmi o in cui in teoria poter almeno apprezzare l’emozionante e affettuosa compagnia di un animale domestico ne ho avute eccome. Bash, ad esempio, la cagnolina che ha vissuto con il mio amore per una dozzina d’anni, un incrocio fra un pastore belga e un pastore tedesco, tanto mastodontica di stazza quanto docile di carattere (eccezion fatta per i sacerdoti, a cui abbaiava per strada con una ferocia mai dimostrata con nessun altro), così legata al sottoscritto che non riuscivo mai a camminare senza ritrovarmi il suo naso attaccato alla coscia. I due gatti di mia sorella, a cui, manco a dirlo, sono tremendamente allergico, mentre lei, al contrario, pare includerli in cima alla lista dei propri affetti, come una volta arrivò a dimostrarmi, durante una passata e avventurosa carriera da archeologa, mandandomi un sms dalla Giordania del tipo “Ho lasciato i gatti dal vicino (poi divenuto suo compagno n.d.r.), puoi sentire come stanno? Io tutto ok, c’è stata qualche bomba qui vicino, ma sto bene, se senti mamma e babbo rassicurali!”. Ho avuto un pesce, ma non credo conti, che la mia passione per la moda e il suo muoversi sinuoso nell’acqua mi avevano spinto a ribattezzare Naomi, ma poi, colpito non so da quale malattia, che l’ha portato alla morte nel giro di pochi giorni, aveva sviluppato due enormi rigonfiamenti sugli occhi tanto da assomigliare più al trombettista jazz Louis Armstrong che non alla venere nera delle passerelle. Niente ovviamente di paragonabile all’esperienza di una coppia di trentenni newyorkesi, Yena (speriamo solo di nome) Kim e Dave Fung che sono riusciti a trasformare il proprio amato cane, Bodhi, uno shiba inu di razza, in un’indiscussa e seguitissima star del web. Solo sul suo profilo Instagram Mensweardog (da cui è tratta la foto), in cui compare sempre immortalato nei più diversi abiti maschili, classici o sportivi, che gli danno talvolta quell’aria inquietante da trofeo impagliato, la simpatica bestiolina è arrivata a contare già oltre 160.000 followers, a cui si vanno ad aggiungere altre centinaia di migliaia di seguaci, impazziti per i suoi singolari ritratti, sui tutti i restanti e più famosi social. Cifre da capogiro, che molti blogger o aspiranti tali (presenti inclusi) possono solo permettersi di sognare di raggiungere un giorno. Allora, se volete, rinfacciatemi pure la mia palese freddezza o semi-indifferenza nei confronti degli animali: ma uno, uno solo, quel Bohdi lì, posso almeno odiarlo pubblicamente?